Nel 1976, quando nacque nel Regno Unito l’etichetta discografica Industrial Records fondata dai Throbbing Gristle, nessuno poteva prevedere le molteplici evoluzioni e trasformazioni che avrebbe affrontato il fenomeno “industrial” nei decenni a venire. Più tardi negli anni 80, la techno muoveva i suoi primi passi a Detroit. In quel periodo, le fabbriche automobilistiche della città americana navigavano in cattive acque. Anche l’industrial in Inghilterra (come raccontano gli stessi protagonisti, nel bel documentario “Industrial Soundtrack For The Urban Decay”) si sviluppò durante una forte crisi del comparto industriale che nel 1976 era già in decadenza in città come Sheffield, patria dei Cabaret Voltaire. Solo qualche anno più tardi, ci sarebbe stato un forte scontro sociale nelle miniere del Galles, difese dai Test Dept nel loro “Fuel To Fight” tour del 1984.
Uno scenario di profonda crisi economica, unito a una sfiducia per le “magnifiche sorti progressive”, portò molti artisti dell’epoca a riflettere sui temi del postumano, delle distopie e dell’alienazione nei rapporti tra uomo e macchina. Molti personaggi che gravitavano attorno alla sottocultura punk cercarono nelle sperimentazioni industrial e nella nascente new wave nuove forme d’espressione per mettere in scena un diverso “no future”. Anche la techno, a suo modo, mostrava una via di fuga dalle periferie depresse. Del resto, il futuro appariva senz’altro fosco, disperato, apocalittico, ma anche non scritto.
Nel frattempo, la techno di Detroit e l’acid-house di Chicago divennero fenomeni mondiali dai forti connotati controculturali e libertari. Non bisogna dimenticare che i Cybotron di Juan Atkins e Richard Davis, famosi antesignani della techno, erano a loro volta grandi ammiratori della musica dei Kraftwerk, come di molta wave europea. In quegli stessi anni, Berlino diventò un crocevia dove sperimentare fecondi scambi tra sperimentazioni post-punk, attitudini rumoriste e le nuove frontiere della musica elettronica. Proprio nella capitale della Ddr, emerse, ad esempio, un progetto atipico come Hypnobeat che metteva in scena, già nei primissimi Eighties, un sound peculiare a base di tribalismi elettronici prodotti da una Roland TR-808. Inoltre, dalle sperimentazioni della Neue Deutsche Welle vennero fuori i Deutsch-Amerikanische Freundschaf, alfieri di quella che verrà in seguito chiamata Electronic Body Music. L’acronimo Ebm finì per indicare un nuovo genere, di stampo post-industrial, che combinava la furia del punk con ritmi robotici che non erano così distanti da quelli techno, aprendo anche la strada a sonorità new beat e trance.
Dalla metà degli anni Ottanta ai primi Novanta, alcuni reduci del post-punk e della scena dark incarnarono alla perfezione una visione cyber-punk, proprio attraverso l’evoluzione dell’Ebm, ad opera di band come Clock Dva, Nitzer Ebb e Front 242, mentre in Canada si sviluppava l’electro-industrial di Skinny Puppy e Front Line Assembly.
Agli albori dei Novanta, gli Psychic TV, uno dei più importanti progetti post-industriali nati dalle ceneri dei Throbbing Gristle, compì un’importante svolta, incominciando a sperimentare sonorità acid-house e cavalcando il nascente fenomeno dei rave-party. I PTV contribuirono a portare nel Regno Unito quella che sarebbe stata la base di molta elettronica inglese a venire. Lo stesso Richard H. Kirk dei Cabaret Voltaire si dedicò, nel frattempo, a forme evolute e sperimentali di ambient, techno e house, pubblicando diversi album per Warp.
Dagli anni 90 a oggi, le carte iniziano a mischiarsi sempre di più. Battiti techno e varie forme di post-industrial incominciano ad avvicinarsi e a creare nuovi ibridi sonori. Acid e forme mutate di Ebm incontrano rumorismi e tribalismi industriali, assumendo forme borderline: da un lato si stimolava l’adrenalina e si liberavano le pulsioni dei corpi attraverso il rituale di una danza sempre più martellante, dall’altra, si guardava in maniera pessimistica a un mondo distopico e oscuro, seguendo lo spirito che animava la musica industrial primigenia. Una certa techno diventò sempre più cupa e meno incline a compromessi con un edonismo mainstream, liberando la sua natura più sperimentale e non convenzionale.
I dieci album selezionati cercano di costruire una mappa di come si sia creato e consolidato questo particolare connubio tra genere industrial e techno. Si tratta di una mutazione genetica che affonda i denti nelle radici stesse dei due generi, nati entrambi sulle ceneri di un mondo, quello del dopoguerra, entrato in crisi già nella seconda metà degli anni 70 del Novecento. Dato che viviamo ancora in tempi di crisi, tale rapporto sembra essere ancora profondamente attuale e artisticamente fecondo.
Hypnobeat – Huggables - 1985
Riascoltare oggi i primi esperimenti di James Dean Brown riserva delle vere e proprie sorprese. Il progetto nasce nel lontano 1983 a Berlino, con la collaborazione di Pietro Insipido e altri collaboratori occasionali. A partire dal 1983, Hypnobeat diventa un act industrial/sperimentale che propone un approccio neo-tribale alla musica elettronica utilizzando, tra le varie attrezzature analogiche, anche un immancabile Roland TR-808. Ciò che vien fuori è una sorta di acido electro-funk che anticipa in maniera sorprendente le sonorità techno e acid-house, all’epoca ancora in forma embrionale a Detroit e Chicago. I due nastri che compongono l’album “Huggables” fotografano bene il sorprendente sound di Hypnobeat nel 1985. Dal 2012, Brown riattiva il progetto assieme a Helena Hauff (suonando anche al Berlin Atonal nel 2017) in un tripudio di vecchie Roland e di attrezzature analogiche. In questo modo, Hypnobeat ha unito un po’ il passato e futuro della musica techno (e) industrial.
Psychic TV – Towards Thee Infinite Beat – 1990
Gli anni tra il 1988 e il 1992 furono anni di gran fermento per la band di Genesis P-Orridge. Dopo l’uscita di Alex Fergusson e l’entrata dell’americano Fred Giannelli, i PTV cominciarono a sperimentare sonorità acid-house, contribuendo a portare nel Regno Unito quel tipo di sound nato a Chicago verso la fine degli Ottanta. In quegli anni i PTV erano coinvolti nell’allora nascente mondo dei rave e dei party illegali. Ad attirarli era il loro sostrato rituale e contro-culturale che ben si sposava con la visione psichedelica e sciamanica del gruppo. Per certi versi, la loro visione post-industriale e post-umana era perfetta per accogliere le istanze della nuova onda elettronica, figlia anche del subastato sociale che aveva dato vita alla rivoluzione industrial una decina d’anni prima. Non bisogna dimenticare che in Uk fu proprio l’acid-house, e non la techno di Detroit, il vero brodo primigenio delle future sonorità Idm e d'n'b. “Towards Thee Infinite Beat” è l’album-simbolo della svolta dei PTV, un cambio di rotta che venne poco considerata dalla critica, per poi essere rivalutata in questi ultimi anni anche grazie all’emergere di sonorità techno-industrial che riscopriranno il fascino di vecchie Roland e di un sound acid old school, anche come una sorta di ritorno alle proprie radici. Il brano “Alien Be-In” presente in “Towards Thee Infinite Beat” è stato remixato da Silent Servant nel 2015 come una sorta di tributo ai maestri che traghettarono le istanze (post)industriali nel mondo della techno e dei rave illegali.
Fixmer/ McCarthy – Between The Devil... - 2004
Quando si pensa al rapporto tra Electronic Body Music e techno, è quasi impossibile non prendere in considerazione la collaborazione tra Douglas McCarthy - frontman dei Nitzer Ebb, band capostipite del genere - e il talentuoso producer francese Terence Fixmer, fondatore della Planete Rouge Records.
Il loro esordio rimane, a tutt’oggi, un connubio insuperato tra l’adrenalina di un vocalist d’eccezione come McCarthy e i beat schiacciasassi di Fixmer. Tracce come “Freefall”, “I Run” e “Destroy” diventeranno ben presto dei classici del dancefloor per gente nerovestita. In definitiva, l’album aggiorna il sound di quel capolavoro dell’Ebm old school che è stato “That Total Age” (album realizzato dai Nitzer Ebb nel 1987) al techno-industrial del nuovo millennio.
In “Between The Devil...”, e ancor di più nel loro secondo lavoro su lunga distanza, “Into The Night”, il duo fagociterà anche pulsioni future/synth-pop ed electro-punk. Le contemporanee forme di techno Ebm hanno uno dei loro pilastri fondativi anche nel remix al fulmicotone del brano “You Want It” ad opera di Dave Clarke.
Adam X – Fate Unknown - 2005
Il fondatore della leggendaria Sonic Groove è stato un pioniere della scena techno di New York negli anni 90. Nei primi anni del Duemila iniziò a inserire nelle sue produzioni e nei suoi dj-set sonorità provenienti dagli ambiti dell’Electronic Body Music, del power-noise e dell’industrial. Gli innesti funzionarono e nel 2005, con l’album “Fate Unknown”, il producer newyorkese realizzò uno dei suoi lavori migliori, stabilendo anche le coordinate del genere. Un brano come “Robot Rebellion In 2071”, ad esempio, è una hit che fuse fantascienza apocalittica con un immaginario cyber-punk da rave in capannoni dismessi. “Fate Unknown” mostra un anche un sound virato prepotentemente verso l’acid-techno (presente anche nelle prime produzioni di Adam X già nei primi anni Novanta), un connubio, questo, che rimarrà sottotraccia anche come un riferimento, nemmeno troppo velato, a certe sperimentazioni acid-house degli Psychic Tv dell’era Fred Giannelli. Tale miscela esplosiva a base di acid, Ebm e industrial avrà un peso considerevole anche per artisti più giovani come, ad esempio, Silent Servant, Phase Fatale e lo svedese Celldöd.
Rrose x Bob Ostertag - Motormouth Variations - 2011
Che il producer losangelino Seth Joshua Horvitz, in arte Rrose, sia sempre stato uno dei più ispirati della cricca Sandwell è fatto ampiamente noto tra gli addetti ai lavori e tra gli amanti più sfegatati della storica label sepolta il 31 dicembre del 2011. Il mastodontico lavoro messo in piedi nell’estate di quell’anno assieme all’amico Bob Ostertag suona come manifesto ultimo di un modello techno che ha fatto epoca e che continua a essere un punto di riferimento per qualsiasi producer che abbia intenzione di muoversi “sfacciatamente” nell’ombra. Un album denso di pulsazioni liquide, danze dub-techno post-atomiche (“Pointilism Variation One/Two”) che suonano come dei DeepChord rigorosamente sotto anfetamina e (dis)persi in una giungla estremamente radioattiva. Tra i solchi dell’album domina una tensione adrenalinica costante, mutante ad ogni sua dannata variazione. Un’opera che fonde Berlino e Detroit con la spavalderia di chi sa il fatto suo e non bada a esplorazioni di sorta, come quelle che delineano i bordi della magnifica “Wack Variation One”. Provate a immaginare dei Cobblestone Jazz privati di ogni possibile laccatura jazzy e nutriti con dell’uranio impoverito, e avrete un’idea più precisa della faccenda. Fondamentale.
British Murder Boys – British Murder Boys - 2015
Antony Child, aka Surgeon, e Karl O’Connor, aka Regis e altre mille cose, formano il duo British Murder Boys; un sodalizio che ha dato il meglio di sé nel biennio 2003-2005, con una serie di Ep di techno purissima con inclinazioni detroitiane ma con un approccio di fondo dannatamente cupo, teutonico, acido fino al midollo. Una mescola che anticipa de facto gli umori e le urgenze espressive di label fondamentali per il movimento underground del Vecchio Continente, come la benemerita e purtroppo rimpianta Sandwell District della premiata ditta David Sumner, Juan Mendez, Peter Sutton e lo stesso O’Connor. La raccolta sganciata nel 2015 per la Downwards di Sutton/O’Connor è un compendio atomico di bordate assassine in cassa drittissima e pezzi tirati fuori nel lontanissimo 2002 che suonano terribilmente fresche, come l’introduttiva “Learn Your Lesson”. Un box fondamentale, non solo prezioso contenitore di chicche disperse come “Fist”, coagulo di frattaglie electro miste a una struttura techno che tanto saranno in voga negli anni a venire, ma vero e proprio manifesto di un’alchimia produttiva a suo modo unica; fusione suprema di approcci distanti riuniti nel segno di una visione palesemente tetra di quella cosa chiamata techno music.
Headless Horseman – Headless Horseman 007 – 2015
William J. Youngman aka Headless Horseman è uno di quelli che se ne stanno buoni nella propria foresta irta di macchine d’altri tempi e drum machine da tirare fuori solo quando le nuvole si appesantiscono e la temperatura raggiunge 0 gradi centigradi. L’unico album all’attivo per la sua Headless Horseman raccoglie a mani basse tutte le varie idee che il nostro aveva tirato fuori nel biennio 2013/15, aggiungendo qui e là a una struttura ritmica cocciuta e pedante una dose massiccia di deflagrazioni che lo accumunano per certi versi a nomi importanti della scena techno-industrial di Berlino come Ancient Methods. Se a questa fottuta necessità di pompare come un forsennato nel buio di una selva algida e impenetrabile aggiungiamo la palese volontà di far muovere i fianchi in maniera sinuosa, rielaborando alla propria maniera ritmiche dei Primal Scream più danzanti, la faccenda acquista quel tocco di pura magia, impossibile da descrivere se non a volumi sostenuti (“Blood Drop”). Il settimo sigillo di Headless Horseman diffonde una techno ombrosa e deflagrante da capogiro, perfetta per un rave sconquassato nel cuore di un’acciaieria dismessa.
Orphx – Pitch Black Mirror – 2016
Rich Oddie e Christina Sealey hanno cominciato a produrre musica nel 1993 e da allora non si sono fermati un attimo, mantenendo sempre ben salda la propria fedeltà a un modello technoide dal forte richiamo industrial, con fari del calibro di Throbbing Gristle e Guerre Froide. Dunque, una danza fredda, asettica, cibernetica fino al midollo (ovviamente in carbonio). L’album “Pitch Black Mirror” del 2016, pubblicato su vinile per la Sonic Groove e in cd per la sontuosa Hands - label di Dortmund, dal 1993 tra le più prolifiche in ambito rhythmic noise e power electronics - fonde con opportuna tetraggine gli umori palesati nel corso di ben due decadi, tra tumulti coldwave rielaborati in salsa tribale e industrial (“Blood In The Streets”), accelerazioni dark-techno da capogiro (“Transmutation”), ipnosi con tanto di sirene a mo’ di spettro miste a frustrate in salsa minimal da far impallidire i più algidi dei pionieri dei primi anni 80 (“Walk Into The Broken Night”), in un crescendo spasmodico tanto orrorifico, quanto salvifico. Della serie spegnere tutte le luci, alzare il volume ed esorcizzare immediatamente i propri fantasmi.
Ancient Methods – A Collection Of Ancient Airs - 2016
In origine, Ancient Methods era un duo formato da Conrad Protzmann e Michael Wollenhaupt, ma ben presto diverrà il progetto solista di quest’ultimo. Animatore della scena techno berlinese, Wollenhaupt è stato per anni anche dj-resident del Tresor, oltre ad aver collaborato con Regis nel progetto Ugandan Methods e con gli Orphx nelle vesti del trio Eschaton. “A Collection Of Ancient Airs” è una raccolta in cd, uscita per la berlinese “aufnahme + wiedergabe” delle sue prime produzioni su 12”. Una traccia come “Knights & Bishops” è esemplificativa dello stile maturo di Ancient Methods, descritto come una sorta di “pitch black techno war funk”. Si tratta di una forma di techno-industrial dalle tinte oscure e tribali che, richiamandosi alle sue radici mitteleuropee (anche come immaginario iconografico), si situa lontana dalla techno di Detroit. Il lavoro di Wollenhaupt influenzerà molti giovani artisti come Blush Response, SΛRIN e Headless Horseman.
Vatican Shadow – Media In The Service Of Terror -2016
Per riuscire a quantificare l’esperienza di un personaggio totale e totalizzante come Dominick Fernow, non basterebbero chilometri di carta. Una produzione vastissima, puntualmente e volutamente oscena e al contempo singolare al punto da risultare indigeribile e inafferrabile anche al più incallito dei seguaci del tanto decantato calderone noise a stelle e strisce. La reincarnazione techno di questo immenso producer del Wisconsin sotto il moniker di Vatican Shadow trova, tuttavia, la propria ragion d’essere in una mescola oscura che non rinuncia a un approccio compositivo intrinsecamente legato in partenza a tematiche profonde, come quella del terrorismo di matrice islamica, narrato dai media occidentali con pressapochismo al fine di infondere ulteriore terrore (come se non bastasse) nella popolazione. Non è un caso, dunque, che la copertina dell’emblematico “Media In The Service Of Terror” ritragga la spiaggia di Susa, in Tunisia, dopo il violento attacco terroristico del giugno del 2015. Spuntano così improbabili e ammiccanti fusioni tra Oriente e Occidente, come la sinuosa linea melodica di “More Of The Same” su tappeto techno. Ma anche momenti di pura stasi ambient atti a impacchettare una tensione viva e presente in ogni istante dell’opera (“Interrogation Mosaic”). Un lavoro singolare che punta a scavare nelle paure dell’uomo occidentale. Una nevrosi alimentata oltre ogni misura da media spesso e volentieri fuori controllo, proprio come la musica del buon Fernow.