I Jaga Jazzist stanno al jazz come Squarepusher sta all'Idm. Vale a dire radici fonde nelle suddette tradizioni sonore condite e trasvalutate grazie a istrionismo, amore per il trasformismo e fantasia da vendere, unite a un secco e categorico rifiuto di ogni forma di contenimento. Il tutto attraverso un percorso che, tra bizzarrie sconfortanti e colpi di genio inattesi, ha portato a un allontanamento progressivo da etichette che mai sono state, veramente, quelle più indicative dei rispettivi intenti.
Se era già piuttosto fuori luogo definire la compagine norvegese come portatrice di un verbo jazz moderno all'epoca dell'acclamato “A Livingroom Hush” e delle successive virate in direzione prog e "post-rock", decisamente impossibile è continuare a trattare come alfieri del nu-jazz gli autori di un album come “Starfire”. Un disco frizzante che però (di nuovo) guarda ben altrove: al brostep, ai kolossal, alla synth music, alla sci-fi, alle briciole della trance.
I credits parlano ancora di otto strumentisti divisi fra il formato orchestrina jazz e la synth band, ma a sentirne i suoni che i cinque brani del disco regalano il pendolo semplicemente si assesta sulla seconda configurazione, infarcita pesantemente da tip digitali. Anche la grafica, rielaborata quasi pedissequamente da quella tanto cara a Skrillex e soci, trabocca di tamarro da tutti i pori. Sua traduzione in suono è un finale da fare ubriacare Dioniso come “Prungen”, che rievoca davvero il camaleonte Jenkinson nella sua ultima incarnazione.
Il suono, dunque, ben rispecchia tali premesse, procedendo a una commistione tra grandeur barocca formato 2015 (la marcetta gocce di melodia sintetica + rintocchi jazz + epica elettrosinfonica di “Oban”) ed edonismo sfrenato e spaccone (l'ouverture proto-prog della title track, prova di autentico celodurismo). Quel che manca è l'equilibrio, perché fra due estremi simili una scelta si rende necessaria: e invece gli otto vichinghi la evitano peggio della morte, preferendo un precario tentativo di convivenza.
Paradossale (ma anche no) che i due estremi in tal senso risultino i pezzi migliori del lotto. Da un lato “Shinkansen”, goliardica e funambolica, che potrebbe fare da colonna sonora a un restyling tutto tecnologico di un game in 8-bit della Nintendo che fu (Quarta330 docet). Dall'altro “Big City Music”, carillon lussureggiante a voce bassa e luci soffuse, con silenzioso inchino a Oneohtrix Point Never. Un'indicazione da cui trarre spunto all'interno di un lavoro comunque divertente, ma ben lontano dal potersi dire anche solo incisivo.
29/06/2015