A come Area
Aprite una qualsiasi enciclopedia sul rock classico, poi una sul jazz, poi una sul progressive e infine sulla musica italiana. Quante possibilità ci sono che uno stesso gruppo venga citato in ciascuno di questi volumi? Davvero pochissime. Se poi restringiamo la ricerca alle band di nazionalità italiana, con ogni probabilità potremo tranquillamente fermarci alla prima lettera dell'alfabeto.
Questo giochetto dovrebbe dare la misura di cosa e quanto abbiano significato gli Area per la musica del secondo Novecento: persino nel turbolento e variegato maelstrom politico e musicale degli anni Settanta la loro fu un'epopea singolare, anche grazie al sodalizio con l'etichetta Cramps di Gianni Sassi, lungimirante nell'intravedere le potenzialità dialettiche del gruppo e dell'immaginario che gli avrebbe costruito intorno. Un'esperienza profondamente radicata nel suo contesto storico ma ancora oggi in grado di scuotere dal di dentro e appassionare chi ne venga a conoscenza, con la stessa energia, la stessa rabbia che ne furono il fondamento.
Il progetto nasce nel 1972 da un'idea del batterista etnico di origini turche Giulio Capiozzo, allievo di Kenny Clark e già con Demetrio Stratos nel gruppo rhythm & blues I Ribelli, passati alla storia per la ballata romantica "Pugni chiusi" e al fianco, tra gli altri, di Adriano Celentano e Don Backy in alcuni singoli commerciali. Il greco-egiziano Stratos si trova a Milano per intraprendere gli studi di architettura e cominciare la gavetta da cantante nelle sale da ballo.
L'esperienza Area si colloca infatti nella fase storica che segna il declino del genere beat, una copia sterile ed edulcorata delle tendenze d'oltremanica e oltreoceano (i famigerati singoli-cover italianizzati). Con l'avvento del '68 anche in Italia si fa strada la prima ondata rock, una musica finalmente libera che va di pari passo con la presa di coscienza politica. L'epoca delle balere viene soppiantata da quella del concerto dal vivo, grazie ai nuovi cantautori emergenti e ai gruppi apripista della scena progressiva (Pfm, Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, New Trolls).
È in questo contesto tutto nuovo che Stratos può in parte accantonare la sua indole blues per plasmare l'uso della propria voce a immagine dell'eclettismo del neonato gruppo. Inizialmente, la band vede Leandro Gaetano alle tastiere, Victor Busnello ai fiati (principalmente sassofono), Johnny Lambizi alla chitarra e Patrick Djivas al basso, oltre ovviamente alla batteria di Capiozzo. Ma a seguire da subito le prove del gruppo c'è anche un amico di quest'ultimo: Patrizio Fariselli seppe impressionarlo con la sua strabiliante tecnica improvvisativa, molto più in linea con le ambizioni del batterista rispetto a Gaetano, che viene sostituito nel giro di poco.
La storia della battesimo a nome Area non è unanime: tra le motivazioni più attendibili c'è quella di un eponimo brano di Alberto Radius al quale parteciparono anche i Nostri (escluso Busnello); quale che sia la vera versione dei fatti, comunque, la scelta si rivela calzante poiché si presta a diverse interpretazioni e alla virtuale esportabilità della proposta musicale.
Il progetto a tutto tondo imbastito attorno al gruppo diviene la molla scatenante della fucina cultural-discografica Cramps, primo esperimento di Gianni Sassi (dietro lo pseudonimo Frankenstein) che trasformò il gruppo in uno strumento di propaganda attraverso la potenza della loro musica. È ancora lui ad apporre agli Area la postilla International POPular Group: un'azzeccata intuizione che, oltre ad affrancarli dalla relativamente limitata categoria progressive, ben rappresenta il meltin' pot che concretamente rappresenta, nella formazione e nell'alchimia musicale. Ma come ci tiene a specificare la responsabile grafica Monica Palla, gli Area non furono “costruiti” ma “pensati”, concepiti con la guida del fondatore di Cramps, la quale diviene una delle prime case discografiche indipendenti italiane, dunque non guidate da obblighi di vendita e ritorni commerciali prestabiliti.
Sassi giocherà un ruolo centrale per la quasi interezza del percorso artistico degli Area: intellettuale del Pci, performer provocatorio e abile comunicatore, in un breve volume biografico di Maurizio Marino viene titolato come “l'uomo che inventò il marketing culturale” (Gianni Sassi. Fuori di testa, Castelvecchi editore, 2013); studiando approfonditamente le scelte d'immagine dei grandi gruppi internazionali – i Beatles su tutti – foraggerà le floride idee musicali del gruppo assieme a pochi altri fedelissimi nelle retrovie, tra cui il manager Franco Mamone che li scoprì e li presentò allo stesso Sassi. Mamone procura agli Area le prime date come spalla per band affermate come gli Atomic Rooster e i Gentle Giant; poco dopo, quando Lambizi abbandona il gruppo, è ancora lui a proporre Paolo Tofani come ideale sostituto, in quanto già assai evoluto nella tecnica chitarristica e nella manipolazione dei suoni elettronici.
Nasce così una fabbrica delle idee che funge proprio da “casa” per il gruppo, il quale viene assistito in ogni sua fase di vita e creazione. Per Gianni Sassi avere una propria etichetta discografica è il mezzo per “condurre le avanguardie storiche (di cui si faceva portatore) a contatto non con il pubblico colto e raffinato delle gallerie d'arte ma con la massa dei giovani, con il popolo del Movimento. A Sassi non interessava fare il discografico in senso stretto, la sua intenzione era di intervenire nel processo culturale valorizzando la qualità di idee musicali anche estreme, sposandole con la forza seduttiva dell'immagine e ancorandole fortemente a questioni sociali e politiche, sovvertendo lo status quo” [Coduto, 2005]. Una missione che, come vedremo, non avrebbe potuto essere inaugurata in maniera più sconcertante e dunque efficace.
Costretti a fare guerra all'omertà
Quanto scalpore poteva provocare un esordio discografico nei primi anni 70? In un clima politicamente rovente e di strabordante creatività musicale c'era ancora ampio spazio per stupire e fare davvero scandalo: e Arbeit Macht Frei lo fece. A partire, con tutta evidenza, dal titolo tragicamente familiare: la grottesca insegna che campeggiava all'ingresso dei campi di concentramento nazisti riporta alla memoria tutto l'orrore della Seconda Guerra Mondiale in un sol colpo. Con questo vero e proprio schiaffo si presentano al mondo gli Area, puntando una pistola ideologica alla tempia dell'ascoltatore: la stessa pistola di carta allegata a ciascuna copia del disco e raffigurata nel gatefold, al fianco di altri simboli eloquenti e provocatori (la foto di un lager, il disegno stilizzato di un angelo, la falce e il martello, la kefiah indossata da Capiozzo, un mappamondo e una delle statuette lucchettate messe in fila sul recto). Un calderone di elementi iconografici che richiamano gli argomenti più scottanti del loro presente, indissolubile dal contenuto effettivo dell'album: un sound dai contorni tutt'altro che rigidi, autenticamente pluriculturale e che, una volta tanto, non è esagerato definire inimitabile; la commistione tra elementi jazz, rock, progressive e sperimentali lo rende un esordio imprendibile, vulcanico e foriero di spunti del tutto nuovi che verranno poi sviluppati e perfezionati nel corso di un'intera carriera.
Arbeit Macht Frei viene pubblicato nel settembre 1973, esattamente un anno dopo i fatti di cronaca relativi alla cellula palestinese "Settembre Nero", vittima e carnefice degli scontri con il popolo israeliano. Una ferita ancora aperta che dà il titolo al primo brano del disco, con un incipit che è divenuto leggendario per ben tre motivi: il primo minuto è occupato da una poesia recitata in arabo dalla passionale Rafia Rashed, seguita dai primi due strazianti versi (Giocare col mondo facendolo a pezzi/ Bambini che il sole ha ridotto già vecchi); e finalmente lo stacco a pieno volume della chitarra di Tofani filtrata da un sintetizzatore, che dà il via a un'esagitata danza di fervente protesta ideologica e multietnicismo musicale. Una progressione di ritmi dispari in accelerando – all'incrocio tra King Crimson, Weather Report e musica popolare balcanica – che aprono la strada ai primi assoli di fiati: in questo debutto, infatti, l'estroso sassofono di Busnello ha una preminenza che non ritroveremo più nelle successive mutazioni del progetto.
La title track è un altro chiaro manifesto del dissenso verso la condizione sociale di allora: l'analogia nazista attualizzata agli anni Settanta denuncia lo sfruttamento dei lavoratori nella macchina capitalista; un basso sinuoso, una batteria in punta di piatti e vari campionamenti sonori gettano le basi per una session nello stile di “Third”, la cui lenta ascesa ci conduce verso un groove dalla cadenza più concitata, senza eguali nella musica italiana di allora. Tetra economia/ Quotidiana umiltà/ Ti spingono sempre/ Verso "arbeit macht frei": dopo questi versi il ritmo si fa talmente indiavolato da distogliere quasi l'attenzione dall'assolo schizoide di Fariselli, che dimostra da subito una padronanza tecnica sbalorditiva.
Lo stile canoro di Stratos è ancora legato alle origini R&B ma già distinguibile negli acuti e nel particolare "jodel" – memore delle litanie spirituali di Pharoah Sanders – prodromi dell'esclusiva tecnica diplofonica che otterrà in seguito. È la sua voce carismatica a tratteggiare, senza giudizi perentori, il successivo inno alla "consapevolezza", ossia a quella capacità critica che deriva dalla conoscenza dei fatti che ci circondano (Imprigionato tra mediocrità/ Lascia partire il tuo ascensore/ Lascialo andare e prendi il potere).
Nuove influenze affiorano ne "Le labbra del tempo", l'arrangiamento più zappiano del lotto, e nell'unico strumentale "240 chilometri da Smirne", imperniato sul sax di Victor Busnello – la cui lunga carriera in ambito jazz fu un elemento determinante nella forgiatura del sound primigenio degli Area – e sul basso suadente di Patrick Djivas, eredità di Jaco Pastorius. Quando l'effetto sorpresa sembra essersi appianato, ecco invece la conclusione più atipica che si possa immaginare: un'altra breve jam fa da introduzione al carattere sperimentale de "L'abbattimento dello Zeppelin", una dimensione parallela percorsa da tracce di musica concreta, nella quale la narrazione di Stratos si inserisce con frasi spezzate e suoni onomatopeici che già richiamano alla lontana il "teatro crudele" di Artaud. In seguito lo stesso Stratos rivelerà che il "pallone gonfiato" del brano avrebbe idealmente contenuto tutti i discografici responsabili della promozione di musica ripetitiva, sempre uguale a se stessa (un'accusa che nel titolo fa riferimento anche alle superstar Led Zeppelin, che fungono così da capro espiatorio del rock).
I suoni si allontanano in un rapido fade out che ci avverte del discorso rimasto in sospeso, pronto ad assumere nuove forme in men che non si dica. Benché i testi possano oggi suonarci poco ispirati, il loro messaggio è ancora rovente e la spinta innovativa della musica che li veicola non accenna minimamente a invecchiare. La sintesi sonora ottenuta dall'amalgama delle singole idee ed esperienze dei componenti non ha, nella maniera più assoluta, alcun precedente in ambito nazionale. Arbeit Macht Frei ha, insomma, tutto il sapore di un autentico classico e riesce a incarnare la definizione stessa di fusion: il suo ascendente free jazz “spurio” lo rende trasversale, appetibile per qualsiasi ascoltatore sufficientemente curioso.
Ossidare i cavi della libertà
Gli Area non sono ancora pronti per i bagni di folla né vengono pubblicamente interpellati sulle loro prese di posizione, così il messaggio dell'esordio viene inizialmente frainteso e rischia di creare scompiglio a un concerto di Joan Baez, organizzato dalla sinistra milanese nel 1974 al velodromo di Milano. In questa occasione gli Area anticipano il materiale che troveremo nel loro secondo album, Caution Radiation Area, pubblicato a circa sei mesi dal predecessore. Nel mentre, per motivi diversi, Victor Busnello e Patrick Djivas prendono le distanze dal gruppo (quest'ultimo unendosi alla Premiata Forneria Marconi): a seguito di alcune audizioni gli Area includono nella formazione soltanto il bassista Ares Tavolazzi, la cui tecnica molto più evoluta e audace si rivela in perfetta sintonia con le idee del gruppo, così contribuendo decisivamente alle successive, imprevedibili svolte nel suo percorso.
Prevalentemente privo di testi, Caution Radiation Area si distingue subito come un album integralista e sperimentale, non più impostato su strutture ben definite – per quanto intricate – bensì su intere sessioni di improvvisazione. Una scelta evidentemente più "intellettuale", ispirata alla musica elettronica delle origini e al free-jazz di Ornette Coleman e dell'Art Ensemble Of Chicago. Con il subentro di Tavolazzi e la defezione del suono caldo del sax (cui sopperiscono il clarinetto basso di Fariselli e il trombone di Tavolazzi), l'attitudine sonora degli Area si fa aspra e minacciosa, nettamente meno fruibile anche per il pubblico che già li aveva conosciuti. L'intero "concept" sembra percorso dalla tensione derivata da una minaccia atomica, capace di provocare un sentimento di follia collettiva che ben si rispecchia nella forma libera che caratterizza l'album. Fa eccezione il famoso brano d'apertura, "Cometa Rossa": l'unico ancora legato alle sonorità dell'esordio, introdotto da un fraseggio spiraloide di tastiere e di chitarra, sul quale la batteria di Capiozzo può finalmente lanciarsi in un esagitato ritmo dispari; nella quiete centrale, tra arpeggi di chitarra, Stratos intona un breve testo poetico in lingua greca, ennesimo inno all'indipendenza dal pensiero altrui ("Cometa chiudi la bocca e vattene via/ Lascia che sia io a trovare la libertà").
Da qui in poi la già pallida forma-canzone scompare del tutto e fa spazio a brani medio-lunghi in stile libero. In "ZYG (Crescita zero)" possiamo tutt'al più individuare tre sezioni: un incipit astratto e inquietante, caratterizzato da suoni concreti derivati dalle macchine di una fabbrica su cui la voce modificata, spersonalizzata di Stratos recita una raggelante sentenza a mo' di epigrafe (L'estetica del lavoro è lo spettacolo della merce umana); le altre due sezioni, invece, prendono le mosse da fraseggi melodici soltanto per disattenderli nel giro di poco – la prima, più free form, attorno alla chitarra nervosa di Tofani, la seconda al pianoforte di Fariselli. Un brano rovente ed esuberante, la cui tematica avrebbe incontrato il consenso del compositore militante Luigi Nono, e che in parte anticipa l'avanguardismo estremo dei tre episodi restanti, ancor più scevri da compromessi.
L'atmosfera sospesa nei primi due minuti di "Brujo" ("stregone" in spagnolo) dà inizio a un incubo di desolazione post-nucleare, intervallato dall'ingresso più concitato di tastiere e batteria in modalità impro-jazz (il piano elettrico di Fariselli è diretto discendente di Chick Corea nel "Bitches Brew" davisiano), due monologhi paralleli sostenuti dal contrabbasso di Tavolazzi, che per la prima volta dà prova delle sue abilità col suono acustico. Da ultimo è la volta dello sciamano Stratos, che come ne "L'abbattimento dello Zeppelin" infila frasi sconnesse a metà tra canto e recita teatrale: la sua voce si afferma sempre più come uno “strumento” al pari degli altri, mai con la funzione di imporsi come quella di un vocalist/frontman. Il finale è in tonalità interrogativa, e non sarà nemmeno la lunga "MIRage? Mirage!" a fornirci risposte: le diplofonie di Stratos risuonano nello spazio acustico assieme alle note stridule di fiati bassi in lontananza, il contrabbasso è grave e lamentoso; poi, come in un immaginario nastro di Stockhausen lo scenario si popola di dèmoni tribali e spiriti di jazzisti scomparsi, tra layers di cori tragici sui quali aleggia ancora l'ombra di Nono. Una sorta di colonna sonora alternativa per il “Deserto rosso” di Antonioni dove i synth alieni di Fariselli, riascoltati oggi, sembrano anticipare di parecchi anni alcuni tra i più elogiati exploit dei nostri coevi Supersilent. Testi di varia origine e suoni gutturali di gola si intersecano, poi nuovi lampi di delirio totale che riaffermano la supremazia del free form.
Giungiamo così alla famigerata chiusura, tutt'altro che conciliante: l'incubo acustico “Lobotomia” trae spunto da un'inquietante vicenda di cronaca internazionale relativa a Ulrike Meinhof, dissidente e terrorista tedesca minacciata di morte chirurgica dal governo federale – nel 1976, dopo il presunto suicidio in carcere, non verranno autorizzate autopsie. Questo il suggerimento che Gianni Sassi diede agli Area: "Dovete scrivere un pezzo che provochi dolore fisico nell'ascoltatore". Sarà un esperto Paolo Tofani, appassionato di sperimentazione elettronica, a dar vita a questa assordante manipolazione sonora: un vuoto pneumatico, attraversato da brevi melodie di tastiere tratte da spot e sigle televisive, col quale possiamo immaginare il fragoroso silenzio che occupa lo spazio di una sezione mancante di cervello, come anche una profetica trash tv trance in anticipo di trent'anni su Fausto Romitelli. Le altissime frequenze del brano sconvolgeranno più volte il pubblico degli Area, allibito dalla loro audace performance con tanto di torce elettriche puntate sui volti degli astanti.
È piuttosto palese che la pubblicazione di un'opera seconda come Caution Radiation Area equivalga a una mossa in direzione del tutto opposta alle logiche di mercato: un indiscutibile passo avanti nella loro ricerca artistica, ma che spingerà una parte del pubblico a bollarli come "troppo difficili", se non addirittura snob. Niente di più lontano dalla verità – specialmente rivedendo a posteriori il loro percorso – e a testimoniarlo è lo stesso Fariselli: "Noi non nasciamo come provocatori, ma come dei musicisti che vogliono portare avanti il loro percorso intransigente, fatto seguendo la propria ispirazione di artisti [...] Il provocatore è colui che cerca lo scontro, la distruzione. Noi volevamo costruire e risvegliare per porre delle basi diverse al fare e ascoltare musica" [Trambusti, 2009]. Un atteggiamento che trova riscontro anche nella prolungata collaborazione di Sassi, che crede fermamente in una logica culturale entro la quale un prodotto creativo ha un valore molto superiore a quello dei dati di vendita e alla fama (nello stesso anno inaugura su Cramps l'innovativa collana Nova Musicha). Coerentemente, ne dà conferma l'abbandono del progetto da parte di Mamone, che nonostante fosse stato il primo a supportare la band nelle sue mosse iniziali, vede cozzare le proprie logiche manageriali con la strenua volontà degli Area di creare e sperimentare senza vincoli di carattere commerciale.
Sul finire dello stesso anno gli Area danno alle stampe il 45 giri con la loro versione rivisitata de "L'Internazionale", un chiaro gesto di anticonformismo il cui spunto fu suggerito dall'inno americano "violentato" dalla chitarra di Jimi Hendrix; un auto da fe' a doppio taglio, che indicava al contempo il loro schieramento ma anche una volontà di “fare movimento” a modo e per conto proprio. Il loro “Internazionale” attira critiche dagli integralisti della Sinistra ma diventa anche, per forza di cose, un cavallo di battaglia nelle loro esibizioni live. Come ricorda Fariselli: "Se dovevamo affondare il coltello, lo facevamo, ma da persone libere di fare esclusivamente riferimento al proprio talento e alla propria condizione di artisti". Così, con le parole e con gesti concreti, gli Area trovano sempre il modo più imprevedibile per inserirsi nel discorso politico degli anni Settanta. Da questo momento il legame con il Movimento milanese si rafforza in maniera considerevole, vedendoli partecipare immancabilmente a tutte le sue principali iniziative future.
Con il suono delle dita si combatte una battaglia
Nel 1975 si comincia a respirare un clima internazionale più sereno e pacificato: Grecia, Portogallo e Vietnam si sono svincolate dai gioghi della dittatura e della guerra, e ciò si riflette anche nel sentimento popolare del nostro paese. Così calati nella loro realtà storica, anche gli Area traggono giovamento da queste nuove speranze politiche, dando voce a emozioni assai distanti dall'arcignità dei loro esordi. Così Crac! segna, già dal titolo onomatopeico, l'ennesima rottura degli schemi e delle aspettative createsi attorno alla band.
Quando i Nostri sembravano ormai avviati su un percorso di pura avanguardia, nella loro sempre più variegata discografia fa la sua comparsa un perfetto compromesso tra orecchiabilità, eclettismo e impegno politico: un compendio che immortala la piena maturità del gruppo con diversi brani divenuti iconici, veri e propri inni alternativi della militanza giovanile.
Una boccata d'aria fresca rispetto agli scenari asfittici e disumanizzati del predecessore, Crac! è anche l'album di più esplicita militanza e veicolazione di messaggi politici: talvolta in modo diretto nei testi, talaltra negli spunti che danno il titolo a brani strumentali come "Megalopoli", riferita alla discussa edificazione della città di Brasilia, nuova capitale in luogo di Rio de Janeiro; il gatefold riporta anche le parole di Buenaventura Durruti, esponente popolare nella guerra civile spagnola.
Dunque, meno dichiarazioni esplicite e più azione, con una predominanza dell'elemento strumentale di cui Stratos spesso imita le melodie in contemporanea. I temi immediatamente riconoscibili e assimilabili di questo terzo lavoro in studio lo rendono paragonabile, nel suo piccolo, a un classico fusion di stampo Return To Forever così come qualche rimando, in certi frangenti, ai capolavori strumentali del periodo zappiano 69-72.
L'incipit è in medias res e l'interlocutore de "L'elefante bianco" è il Ragazzo, membro del Movimento giovanile che lotta per il potere alzando il pugno al cielo (Vai avanti, non ci pensare/ La storia viaggia insieme a te). Il tema principale è, se possibile, ancor più vertiginoso del solito, un incalzante invito a non restare fermi, a informarsi (Imparare a leggere le cose intorno a te/ Finché non se ne scoprirà la realtà) per poi entrare nel vivo della protesta e alzare la voce.
Fa seguito una delle creazioni più originali e divertite del gruppo: la narrazione bislacca de "La mela di Odessa" è ispirata alla vicenda del dadaista Apple, che nel 1920 dirottò una nave tedesca conducendola al porto ucraino, dove nel pieno dei festeggiamenti per la rivoluzione russa fu fatta esplodere. Una sorta di fiaba metaforica – ma nemmeno troppo velata ("il mondo diventa mancino", "l'abito più rosso") – che strutturalmente rappresenta un parallelo trasognato di "Arbeit Macht Frei": una breve improvvisazione iniziale (con una menzione d'onore per l'intenso contrabbasso di Tavolazzi) e un susseguente, irresistibile groove che accompagna il rocambolesco viaggio per mare della mela a cavallo di una foglia. Un racconto che rivendica le ragioni di una fantasia "rotonda" a scapito di un piatto conservatorismo, del quale i fiati sembrano prendersi gioco scimmiottando certi pomposi arricchimenti orchestrali della musica pop italiana (Battisti?) e commentando ironicamente alcuni versi del testo (il paese "pieno di gente felice" è contrappuntato da una marcia funebre). Un divertissement strabordante che i dadaisti avrebbero certamente gradito.
Tra un pezzo strumentale e l'altro – qualcuno più canonico di altri – fa la sua comparsa il brano destinato a diventare un immarcescibile inno alla libertà di pensiero: "Gioia e rivoluzione" celebra l'immaginazione al potere, quella che trasforma un mitra in un contrabbasso che esplode pensieri anziché pallottole; il facile giro di chitarra che l'accompagna non è tanto una concessione pop per il grande pubblico, bensì l'ennesima faccia – la più passionale o addirittura "sentimentale" – di una realtà musicale che non conosce barriere e non ha vergogna nel lasciare da parte i tecnicismi per un momento, intonando a squarciagola la propria indipendenza intellettuale (Canto per te che mi vieni a sentire/ Suono per te che non mi vuoi capire/ Rido per te che non sai sognare).
Una libertà che si esplicita (ma solo a metà) anche nell'epilogo del disco: "Area 5" è una breve composizione degli avanguardisti Juan Hidalgo e Walter Marchetti, un happening sonoro di follia a piede libero, eseguito rapidamente e con totale distacco emotivo; un'altra esperienza figlia del pensiero cageano sulla simultaneità di procedimenti musicali autonomi. Ma laddove "Lobotomia" coronava un album già intensamente drammatico, questa sua controparte sa un po' di esperimento "obbligato" e del tutto estemporaneo.
Questo nuovo cambio di direzione incontra il favore tanto del pubblico quanto della critica discografica, che nel 1975 assegna agli Area il premio per la musica progressiva italiana
(A)reazionari e Internazionali
A testimonianza dei tanti concerti tenuti nell'estate del 1975, Cramps realizza un collage di incisioni che costituisce l'unica pubblicazione live non “postuma” degli Area – cui faranno seguito più avanti alcuni ripescaggi. Stando al retro-copertina, Are(A)zione è “registrato dal vivo a Milano (Parco Lambro), a Napoli (Festa dell'Unità), a Rimini (Festa della Gioventù), a Reggio Emilia (Teatro Comunale) e in cento altri incontri col pubblico”: esibizioni spesso coincidenti con manifestazioni e feste di partito, catturate con attrezzature basilari – un semplice registratore Revox a due piste.
Ma anche una pubblicazione di questo tipo non è casuale o interlocutoria, e infatti Are(A)zione ha la stessa importanza di un disco in studio, poiché ci svela l'identità degli Area nella maniera più diretta e apprezzata – da molti considerata meno “cerebrale”– mettendo in luce un aspetto fondamentale della loro storia: il costante interfacciarsi col pubblico, sviluppando temi e variazioni tematiche sul momento, senza filtri.
Emerge così tutta la potenza del loro impatto di fronte a una massa sempre più vasta e partecipe, nonostante la scarsa qualità audio (ma più avanti incontreremo di molto peggio!) e le acclamazioni posticce del pubblico, inserite in post-produzione.
La scaletta qui approntata è senz'altro strategica, con alcuni dei pezzi più richiesti, uno da ciascun album pubblicato sino ad allora. La title track è invece una jam, rappresentativa dei momenti di pura improvvisazione che trovavano spazio in ogni concerto, anche per un intero quarto d'ora, nello stile della classica jazz band dove ogni musicista ha a disposizione qualche minuto per un assolo. Ciò che traspare solo in parte dalla registrazione live sono i gesti a complemento dei vari brani, pensati per attirare l'attenzione del pubblico e rimanere indelebili: mangiare una mela, puntare le torce verso gli occhi degli astanti, e da ultimo sollevare il pugno chiuso a coronamento dell'Internazionale rivisitato.
Benché non eccellente sotto diversi punti di vista, Are(A)zione è un importante documento del periodo più fulgido del gruppo, artisticamente all'apice di una parabola che, di lì a non molto, sarebbe inevitabilmente andata incontro a una depressione.
Due anni più avanti, nel 1976, vediamo per la prima volta gli Area in tour su palchi esteri, nello specifico Francia (Fête de l'Humanité) e Portogallo (Festa do Avante), esperienze che confluiranno poi nel live album Parigi - Lisbona, pubblicato soltanto nel 1996. Nuovamente, l'infima qualità audio è la pena da scontare per scoprire l'inedito scambio col pubblico estero, il quale reagisce con un certo entusiasmo al morso di Stratos alla “pomme d'Odessa”, mentre al suono totale di “Lobotomia” risponde con urla e fischi prima di rimanerne soggiogato, o forse annichilito.
Il Portogallo, finalmente libero dalla dittatura di Salazar, è il paese estero dove i Nostri vengono accolti con più clamore, e a testimoniarlo sono proprio queste registrazioni: a Lisbona vengono introdotti con tutti i crismi da una presentatrice che pronuncia in modo sorprendentemente esatto i nomi dei componenti; allo stesso modo verranno spiegati nel dettaglio l'ispirazione e i significati profondi di ciascun brano qui proposto. Di ritorno dal Portogallo, il gruppo – non al completo, come vedremo – si metterà al lavoro per il quarto disco in studio.
Dal caso al caos
Nel loro periodo di più intensa attività concertistica, gli Area non rinunciano a sperimentare soluzioni nuove per spingersi oltre le loro capacità, coinvolgendo il pubblico in maniera totale nel processo creativo ed esperienziale della dimensione live. Nei tour tra 1974 e 1975, a fianco dell'assordante cavallo di battaglia “Lobotomia”, nasce un nuovo brano-happening intitolato “Caos”: l'intuizione di Paolo Tofani è quella di collegare due lunghi fili a due rispettivi oscillatori del sintetizzatore, così che la termodinamica corporea degli spettatori modifichi l'intensità e la frequenza dei suoni programmati. Si compie così l'idea di una musica collettiva creata dal contatto fisico tra gli spettatori, oltreché una prima mossa degli Area in direzione dell'alea, del caso come componente fondante della materia musicale.
Ma nelle stagioni fredde, quando non c'è possibilità di organizzare i grandi eventi all'aperto, l'attività degli Area va incontro a una fase di stallo che impedisce loro di avere introiti costanti e sufficienti al sostentamento dei musicisti. Per due di loro la decisione diventa forzata: Giulio Capiozzo e Ares Tavolazzi si allontanano momentaneamente dalla formazione per dedicarsi a progetti più remunerativi, benché poco affini alla loro indole sperimentale; al contrario, gli altri colgono l'occasione per alzare ulteriormente la posta in gioco con una serata che passerà alla storia.
Nell'agosto del 1976 l'ateneo dell'Università Statale di Milano viene occupato dagli studenti: invitati a partecipare alla protesta, gli Area si presentano con una formazione inedita che vede la partecipazione dell'americano Steve Lacy al sassofono e dell'inglese Paul Lytton alle percussioni, in sostituzione della sezione ritmica vacante. Nasce così “Caos (Parte II)”, la cui registrazione – di qualità assai scarsa, come d'abitudine – finirà nel live album Event '76, rilasciato tre anni dopo da Cramps.
La lunga improvvisazione, ispirata alle performance di John Cage e del movimento Fluxus, rispecchia perfettamente il carattere aleatorio e irripetibile del suo pensiero musicale: un numero preciso di biglietti, fotografati anche sulla copertina del disco, riportano cinque diverse indicazioni di “comportamento” (silenzio, ipnosi, violenza, ironia, sesso) da alternare ogni 90 secondi, cronometrati in questa occasione dal fratello di Patrizio Fariselli; tenendo fede al concetto di indeterminacy, ciascun musicista deve agire in piena autonomia, evitando di ascoltare ciò che fanno gli altri e di stabilire un dialogo tra le parti. Ne risulta così un soliloquio collettivo, a metà strada tra l'AMM e un ensemble braxtoniano – e forse, in quella specifica formazione, gli Area non avrebbero avuto di che invidiare nulla a entrambi.
Disattendendo tutte le aspettative del pubblico, che con un certo sgomento si ritrova davanti degli “altri” Area (in ogni senso), i Nostri sembrano trovarsi perfettamente a loro agio in una dimensione, finalmente, del tutto libera da schemi e ideologie prestabiliti. Così troviamo Fariselli alle prese con un piano preparato – una sorta di prova generale per il suo primo album solista, “Antropofagia” (1977) – mentre Tofani si lancia in digressioni dissonanti con l'ausilio del sintetizzatore; gli assoli in forma libera del sax, oscillanti tra melodie allo stato grezzo e rumorismo, sono forse quelli accolti con più favore dal pubblico, che infatti conta anche diversi critici di musica jazz; e poi Stratos, più istrionico che mai, che emette versi onomatopeici e grotteschi in modo ossessivo, nel pieno di un delirio onanistico di matrice dada. Col passare dei minuti, forse per mancanza di ispirazione, si intravede un principio di interplay dove i Nostri non riescono a fare a meno di inseguirsi (Stratos imita con la voce le linee di Lacy, passato al clarinetto), e la title track finale ha il sapore di un'improvvisazione leggermente più classica; per il resto l'esperimento semi-aleatorio fu, almeno concettualmente, un successo.
Dall'unità vincente alla più completa disunione tra gli elementi: è il polo opposto degli Area come li abbiamo sempre conosciuti, e in molti rimangono delusi da un simile exploit; da par loro, invece, i musicisti si dicono divertiti e soddisfatti delle reazioni contrastanti, dei fischi ma anche dei contributi del pubblico, dal tintinnio dei mazzi di chiavi all'apri-e-chiudi ritmico degli ombrelli, gesti collettivi verificatisi quasi per caso. Per la prima volta, nelle intenzioni dell'intero gruppo c'è quella di “abolire le differenze che ci sono fra musica e vita”, un motto che Stratos amava ripetere per definire l'esperienza Area ma che quasi certamente è un'eredità del pensiero di Cage, che si era espresso con gli stessi termini nel suo fondamentale testo critico "Silence" del 1961. Già il mentore Gianni Sassi, di formazione comunista ma con un approccio anti-dogmatico, aveva a suo tempo accolto con favore la filosofia del movimento Fluxus ed era stato attivo nei circoli culturali milanesi con spettacoli, mostre e conferenze di stampo neo-dadaista. Saranno lui e Stratos a portare Cage a Milano nel 1977, creando attese che porteranno invece a una serata disastrosa, con un pubblico numerosissimo che dopo pochi minuti fischerà il guru americano interrompendo la sua performance di “Empty Words” – tuttavia portata a termine per una durata complessiva di due ore e mezza; confusi e ammaliati, nonostante tutto gli avventori non lasciarono mai la sala, come era successo per il concerto degli Area alla Statale.
È in questa atmosfera di estro inventivo, ma anche di incertezza sulle sorti del gruppo, che Cramps presenta i primi dischi solisti di Stratos (“Metrodora”, 1976), Tofani (a firma Electric Frankenstein, 1977) e Fariselli nella nuova collana DIVerso, con la quale Sassi farà conoscere al pubblico italiano altri astri nascenti della scena contemporanea come Derek Bailey, Jesús Villa-Rojo, Christina Kubisch e Fabrizio Plessi.
Ladies and gentlemen, abbiamo perso il XV secolo!
Nonostante i malintesi e la prolungata assenza di due componenti, nella cellula nevralgica degli Area le idee non mancano e in breve tempo prende forma il materiale per un elaborato e audace concept di "fanta-sociopolitica". Al fianco dei membri storici si radunano Walter Calloni alla batteria e Hugh Bullen al basso elettrico, i già reclutati Paul Lytton e Steve Lacy, con l'aggiunta di altri special guest quali i fratelli Anton e José Arze (txalaparta, strumento a percussione di tradizione basca), Eugenio Colombo (kazumba) e il quartetto d'archi di Umberto Benedetti Michelangeli, nipote del grande maestro del pianoforte; con un tale dispiego di energie, il valido contributo di Capiozzo e Tavolazzi si limita soltanto ad alcune tracce.
L'idea fondante e lo sviluppo narrativo di Maledetti (Maudits) sono esposti con chiarezza nelle note di copertina: “Un plasma liquido è la coscienza del mondo, custodita in un computer di una banca. Per un guasto si verifica la dispersione progressiva del liquido: totale perdita della coscienza umana”. Nell'incipit teatrale di “Evaporazione”, Stratos annuncia in varie forme la perdita della memoria storica facendo strada allo strumentale “Diforisma urbano”, dal quale poi scaturiscono tre scenari futuribili: un mondo che rimanga ancorato alle proprie radici, alla coscienza e conoscenza del passato (“Gerontocrazia”); l'ascesa al potere della donna, la cui rivincita dopo secoli di sottomissione porterebbe nuova energia al presente (“Scum”); infine, una “rivoluzione dal basso” che trovi linfa vitale nella libertà e nell'immaginazione dei bambini, per riscrivere la storia da capo (“Giro, giro, tondo”).
Evidentemente, i testi tornano ad avere un ruolo centrale nello svolgimento del racconto. In “Gerontocrazia” si attua l'efficace contrasto tra una rassicurante ninna nanna in greco e l'aggressiva ruvidezza del riff di contrabbasso, simbolo dell'anzianità che protesta per salvaguardare l'eco della storia, sopprimendo il nuovo che avanza (Se tu guardi nel passato/ troverai tutto quanto stabilito/ e si chiama verità/ Senza storia né memoria/ lascia che io scriva i passi tuoi).
Nella spigolosa “Scum”, invece, risuonano le caustiche parole di Valérie Solanas e del suo manifesto del 1967 (“Society for Cutting Up Men”): un pamphlet ai limiti del neo-nazismo che inveisce contro l'egemonia maschile e i suoi espedienti capitalistici, invitando a una radicale presa di coscienza e di potere da parte del sesso femminile. Qui l'elemento dominante è senz'altro il pianoforte classico di Fariselli, lanciato in vertiginose serie di cluster e scale atonali, oltre al reading sopra le righe di Stratos, nuovamente posseduto dal fantasma di Artaud.
A mo' di interludio, “Il Massacro di Brandeburgo Numero Tre in Sol maggiore” è il pretesto per far scontare a J. S. Bach le colpe della musica conservatrice: un rimaneggiamento che cancella progressivamente le principali componenti del contrappunto, disfacendo così la struttura del brano classico ed eseguendone l'arrangiamento per quartetto d'archi in modo grossolano, quasi rumorista.
Ha un che di sinestetico la melodia di “Giro, giro, tondo”, filastrocca che imita una vera e propria danza in cui il ritmo ha forse più importanza del significato delle parole. Una smorfia in nome della libertà, che ritrova il suo manifesto nella successiva versione in studio di “Caos”: un collage se possibile ancor più radicale e ostico rispetto al concerto di Milano, un “disordine musicale” che l'ascoltatore non può che ricevere come un unico, ininterrotto flusso di suggestioni; un brano che oggi può far sorridere come ancora inquietare, stupire, indignare, ma mai lasciare nell'indifferenza.
Lo stesso si può dire dell'intero concept, una triplice visione distopica che consapevolmente si conclude senza risposte definitive: è il riflesso di un'incertezza sempre maggiore per le sorti della società, che di lì a poco sfocerà in una crisi tanto del Movimento giovanile quanto di coloro che ne sono divenuti i principali rappresentanti nella scena musicale. Se non altro, Maledetti è forse l'album più ambizioso degli Area, l'ultima tappa veramente significativa nel loro sempre più accidentato percorso artistico. Il disco ottiene buoni riscontri di critica, rafforzati anche dall'attenzione ottenuta presso il pubblico internazionale, e nel 1977 viene pubblicato anche un libro a fumetti ad esso ispirato, “Viaggio per immagini nel diforisma urbano”.
Nel 2004 l'etichetta Akarma darà alle stampe il doppio Live In Torino 1977, una registrazione amatoriale in supporto alla pubblicazione di Maledetti, i cui brani portanti sono tutti presenti in scaletta; ma i commenti del pubblico finiscono per sovrastare l'incisione in cui il gruppo è già a malapena udibile. Tra i recuperi d'archivio avvenuti nel corso degli anni, questo è senz'altro il più scadente per qualità audio e non certo eccezionale dal punto di vista della performance.
Il crepuscolo degli dèi
Nel 1977 il ritorno dei membri dispersi della formazione originale è l'occasione per tirare le somme sul lavoro svolto in un lustro. A differenza della postuma “Gioia e rivoluzione” (1996), la raccolta Anto/Logicamente è una retrospettiva curiosa e provocatoria: all'interno del disco è anche contenuto un gioco dell'oca composto da parole, immagini e personaggi relativi all'universo Area e alla loro produzione sino a quel momento. La tracklist sembrerebbe un nuovo attacco velato a “te che non mi vuoi capire”, con sette brani del passato recente tra i più innovativi e rappresentativi delle diverse mutazioni avvenute nel corso degli anni. Da “L'Abbattimento Dello Zeppelin” e “Arbeit Macht Frei” si passa così al gioiello grezzo “ZYG (Crescita Zero)” e alla rara “Citazione Da George L. Jackson”, b-side inizialmente contenuta nel 45 giri de “L'Internazionale”; seguono due strumentali da Crac! (“Nervi Scoperti”, “Area 5”) e la sola – benché validissima – “Gerontocrazia” in rappresentanza di Maledetti.
Questa orgogliosa rivendicazione del mito Area viene rafforzata da una serie di concerti “canonici” col gruppo al completo, tra cui la due giorni milanese di fine aprile, della quale Cramps ricupererà una registrazione nel 1996, dando alle stampe il cd doppio Concerto Teatro Uomo. Dopo lo shock della performance alla Statale, i Nostri trovano così il modo di “riappacificarsi” coi propri fan, le cui voci sono distintamente udibili in questa fortunosa release, anch'essa di qualità audio men che amatoriale, nonché fitta di imprecisioni relative alla setlist e ai musicisti sul palco (nel retro-copertina sono creditati anche Lytton e Lacy). Superato l'ostacolo dei ronzii e delle logore tracce audio, ne emerge un'esibizione assai concitata e musicalmente impeccabile dove gli Area, forse coscienti di avvicinarsi al capolinea, si dedicano anima e corpo ai loro classici più emozionanti e scomodi – tra una “Cometa Rossa” e “La mela di Odessa”, immancabile la tortura audiovisiva di “Lobotomia”, con tanto di urla e lamentele in diretta per le torce puntate sul pubblico. C'è spazio per raccontare le origini dei singoli pezzi e per gli assoli fenomenali di ciascuno, ma come sempre a sbalordire è il tempismo perfetto con cui ciascun elemento si relaziona con gli altri, restituendoci ancora oggi la chiara percezione della statura e della concentrazione di talenti confluiti nell'esperienza Area. Un raro fulgore artistico che, purtroppo, segna anche il loro canto del cigno.
Al termine del 1977, infatti, un nuovo abbandono segmenta la formazione: quello di Paolo Tofani, che confessa di non essere più in linea con l'immagine troppo “politicizzata” degli Area, beniamini di un Movimento che sta nuovamente mutando e si avvia al declino; inoltre il chitarrista è già decisamente proiettato verso una ricerca musicale e individuale tesa all'ascetismo, che fino a quel momento aveva dovuto necessariamente lasciare in disparte. Il sempre minor numero di concerti, inoltre, rende quasi obbligata la rottura con Cramps, le cui vendite non avrebbero potuto garantire introiti necessari al sostentamento dei musicisti. Le loro aspirazioni internazionaliste esigono ora un veicolo discografico più forte e commercialmente affidabile: così i Nostri approdano presso Cgd con la sua nuova etichetta Ascolto, una firma che dà loro la possibilità di appoggiarsi a una major salvaguardando la piena liberà artistica, senza restrizioni vincolate dal mercato. Sarebbe stata la dimensione ideale per gli Area, che a causa della formazione ridotta e del ricambio in fase di scrittura dànno alle stampe un album del tutto diverso dal solito, forse il più enigmatico ma anche, a suo modo, il più accessibile: 1978. Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano!
Un anniversario piuttosto significativo – il decennale del '68 – fornisce a Stratos e compagni lo spunto per un nuovo concept, dietro consulenza intellettuale di Gianni Emilio Simonetti, anch'egli proveniente dell'officina Cramps: sarà il suo interesse, tra gli altri, per il tema della psichiatria a trovare riscontro nel celebre “Hommage à Violette Nozières” e nel recitato di “Acrostico in memoria di Laio”.
Venendo a mancare la pregnante componente testuale fornita da Gianni Sassi, è ora Stratos a redigere tutte le liriche, nonché a firmare ben cinque brani esclusivamente a suo nome. Una sorta di rivincita in virtù della minor esposizione nei dischi passati e delle evidenti capacità acquisite nella tecnica vocale, che in questo frangente trova la sua massima valvola di sfogo nell'ambito del progetto Area.
Emerge così un carattere nascosto del cantante: quello di paroliere colto e subdolo, ispirato da grandi intellettuali francesi del suo tempo come Breton e Lacan, nonché da autentici innovatori del medium teatrale quali Antonin Artaud e Carmelo Bene; le sue suggestioni sono complesse ma prontamente districate nelle più che esaurienti note di copertina, dove viene chiarito il senso dell'intero album: “Noi non siamo più gli eredi di nessuno, bisogna ricominciare tutto da capo!”. Gli Area colgono l'occasione per guardare la storia in prospettiva, constatare e comprendere meglio la crisi del Movimento giovanile, che dopo la rivoluzione si ritrova a dover fronteggiare l'amara disillusione. Dalla nota a “Guardati dal mese vicino all'aprile!”: "1968: il tramonto tragico di tutte le rivoluzioni impossibili ha sciolto l'ultimo abbraccio dei rivoluzionari/amanti, un'epoca è chiusa per sempre. Ma perché allora, tutti si ostinano ad affermare il contrario?".
In 1978 viene a crearsi un certo contrasto tra il denso concettualismo del libretto e l'accessibilità del formato pop-jazz assunto in sede compositiva. L'album accoglie sonorità molto varie e per certi versi nuove: paradossalmente, infatti, l'assenza di Tofani è compensata proprio da marcate influenze mediorientali e del Sol Levante – il chanting di “Return From Workuta” è anche indicativo delle capacità vocali ottenute da Stratos. L'eccentricità del cantante trova la sua massima espressione in “Acrostico in memoria di Laio”, una dissertazione in forma teatrale sul tema dell'incesto in relazione agli intrighi famigliari di Sigmund Freud.
Se anche le soluzioni adottate nei singoli brani nascondono qualche incertezza – il doo-wop sul finale di “Vodka Cola”, per quanto ironico, rimane del tutto estraneo alle loro precedenti incarnazioni – non mancano nemmeno certe stravaganze che in qualche modo li identifichino, oltre a uno stile sempre più jazzato che lo rende forse l'album più vicino al classico stile Weather Report. Ne risulta un calderone non esente da idee originali ma poco organizzate, in cui gli attuali Area si dimostrano tanto “consapevoli” dal punto di vista dei propri mezzi quanto disorientati, alle volte, nello svolgimento delle tracce, a volte quasi bozzettistiche.
Nonostante tutto 1978 viene apprezzato dalla critica, ma ben presto diviene evidente che la Ascolto non ha idea di come gestire una realtà come quella degli Area, così atipica rispetto alle usuali produzioni pop. La scelta si rivelerà così un parziale fiasco, unito al fatto che il gruppo non riusciva a riproporre in modo convincente gli stessi pezzi in sede live – in questo senso la mancanza dell'apporto di Tofani fu una causa tutt'altro che secondaria.
Un brutale epilogo
Il passaggio alla major e la svolta “pop”, dunque, non soddisfano le aspettative di entrambe le parti, e il tentativo di affermarsi all'estero si traduce in un fallimento. In un anno già foriero di profondi cambiamenti, gli Area si trovano di nuovo in viaggio verso il Portogallo e poi a Cuba, all'undicesimo Festival della Gioventù: quest'ultimo un viaggio esotico quasi “beatlesiano”, tramite il quale i Nostri vengono a contatto con culture e musiche mai sentite prima; specialmente Stratos farà tesoro di questa esperienza per dare ulteriore linfa alle sue ricerche sulla vocalità. Tali sviluppi, sempre più avanzati e riconosciuti in tutto il mondo, portano anche il cantante ad abbandonare il gruppo – in circostanze peraltro non molto pacifiche – e proseguire in solitaria col supporto di Cramps, unica garanzia di piena autonomia artistica (e ulteriore motivo di attrito con gli altri membri del gruppo).
In quest'ultimo periodo della sua vita, Stratos entra ancor più in stretto contatto con la persona e le ferventi idee di John Cage, partecipando a esibizioni e happening del maestro americano. Nel pieno della sua maturazione, il cantante dà alle stampe il suo secondo album solista “Cantare la voce” (1978), dove la sua tecnica raggiunge vette inarrivabili in termini di frequenza e moltiplicazione dei canali vocali (diplofonie e triplofonie). Altri progetti, tra cui il torbido reading per la rappresentazione teatrale “Le Milleuna” e diversi concerti anche all'estero, vengono interrotti nel 1979 da un fulmine a ciel sereno: a New York sopraggiunge infatti il ricovero d'urgenza per un'anemia aplastica; nel momento in cui si prospetta una nuova evoluzione del progetto Area, i suoi ex-compagni di ventura ricevono l'infausta notizia, attivandosi subito per organizzare un concerto a beneficio dei famigliari di Stratos, per sostenerne le onerose spese mediche. In breve tempo, l'occasione di solidarietà si trasforma in un commosso memoriale susseguente all'inevitabile decesso di Demetrio Stratos, appena trentaquattrenne.
Organizzato da Gianni Sassi, il concerto all'Arena Civica di Milano conterà un pubblico di circa sessantamila persone, con la partecipazione di numerosi musicisti da tutta Italia: un gesto di estremo affetto come anche, purtroppo, un'occasione per alcuni di garantirsi un posto privilegiato sul grande palco; così gli Area e il loro pubblico vivono sulla loro pelle l'amara conclusione di un sogno, l'epitaffio ufficiale di un momento storico irripetibile e della sua compagine più amata e rappresentativa.
Le lancette scorrono
Nulla può tornare come prima, ma per obblighi contrattuali i veterani del gruppo si vedono costretti a portare a termine il tour iniziato nel 1979. Il successivo Tic & Tac (Ascolto, 1980) sarà un ultimo tentativo di uscire dall'impasse della morte di Stratos e trovare una strada alternativa per i tre musicisti.
Interamente strumentale, il disco vede la partecipazione di Larry Nocella al sax e si configura, per la prima e ultima volta, come un album jazz a tutti gli effetti: con assoli non indegni del genio leggiadro di Michel Petrucciani, le tastiere di Patrizio Fariselli divengono la colonna portante di un classico quartetto dove ognuno riesce a dar prova delle proprie capacità, pur senza lanciarsi nelle coraggiose sperimentazioni degli Area che furono. Oltre a basso e contrabbasso, a tratti Tavolazzi prende il posto di Tofani alla chitarra.
Il mood generale è piuttosto vivace e le uniche concessioni alla nostalgia sono quelle intrinseche alla forma musicale prescelta: potrebbe sembrare un atteggiamento indelicato, stridente con l'atmosfera in seguito al decesso di Stratos, ma sarebbe ugualmente ingiusto biasimare la volontà dei tre musicisti di voltare pagina e fare un'ultima scommessa anche in termini discografici – purtroppo penalizzata da un suono senza alcuna profondità.
Prevedibilmente, le ultime speranze si diradano e Tic & Tac non trova un reale seguito: dopo di esso i tre Area si avviano verso altre esperienze in ambito teatrale, tanto in gruppo quanto individualmente, prima di ritirarsi dignitosamente in uno iato sin troppo a lungo rinviato, e che non promette alcunché per il futuro.
Verso la metà degli anni Ottanta Giulio Capiozzo, in quanto co-fondatore del primo progetto, tenta di dargli un seguito assieme ad altri musicisti, che insieme prendono il nome Area II e in breve tempo pubblicano due dischi di stampo jazz-fusion (l'omonimo nel 1986 e "City Sound" l'anno successivo).
Ma solo nel 1993 si realizza per la prima volta una parziale reunion del gruppo, a motivo di una circostanza analoga a quella del lontano '79: la morte di Gianni Sassi, amico e collaboratore di lunga data, riporta insieme Fariselli, Tavolazzi e Capiozzo per un concerto in sua memoria. È in tale circostanza che scatta una nuova scintilla di creatività, che si concretizza in un lavoro svolto a cavallo tra il 1993 e il 1996. Assieme al bassista Paolo Dalla Porta e un pugno di strumentisti occasionali, Fariselli e Capiozzo danno forma a una sorta di concept strumentale intitolato Chernobyl 7991. Una prova davvero difficile da inquadrare, divisa tra reminiscenze degli ultimi Area – in tracklist anche una commemorativa “Efstratios” – e cupe sperimentazioni di un'arditezza mai vista. Tra spostamenti ritmici disorientanti e rinnovate fascinazioni balcaniche, Fariselli trova il tempo per rispolverare la lezione cageana (il piano preparato di “Liquiescenza”, oltre ai 4 minuti e 33 secondi di silenzio che precedono il caotico finale di "Sedimentazioni"), mentre Capiozzo dà fondo a tutte le tecniche di cui è ormai padrone, dal puro virtuosismo della batteria all'espressività delle percussioni etniche.
L'attività dal vivo della nuova formazione si protrae sino al 1999, finché l'anno successivo sopraggiunge l'improvvisa morte di Giulio Capiozzo per un arresto cardiaco, mentre si trova a Cesenatico assieme a Fariselli. A quest'ultimo non rimane che proseguire con il proprio progetto solista, perfezionando una visione artistica che ormai non conosce più limiti.
Vecchi e nuovi orizzonti
La fine dell'esperienza, un po' per il graduale disgregamento della formazione e un po' per le contingenze storiche, non fa che confermare l'ineludibile natura degli Area: quella di rappresentanti di un hic et nunc ben preciso, non collocabile in altre istanze né riproponibile in quella stessa forma, che nella sinergia tra i componenti primari trova un elemento imprescindibile e che, una volta esaurita, non può più garantire alcun equilibrio stabile.
Eppure, dal 2009 sino a oggi, i tre “Area” rimasti in gioco tornano di scena sui palchi italiani, con una reunion che vede rinnovato il sodalizio con Paolo Tofani e accoglie il giovane Christian Capiozzo, figlio del batterista storico. Appropriatamente denominata AREA Open Project, la nuova avventura si concentra maggiormente sulle peculiarità dei musicisti individuali e sui loro rispettivi percorsi artistici, attraverso i quali anche il sound del gruppo primigenio viene reinventato e celebrato.
Il doppio album Live 2012 ben riassume questo nuovo corso: il primo cd è prevalentemente dedicato ai classici, riproposti ove possibile in versione strumentale – fanno eccezione il racconto de “La mela di Odessa” e il canto al femminile di “Cometa rossa”. Inni che il tempo non ha scalfito, ma l'eco dei quali ci giunge assai meno aspra e provocatoria, tutta concentrata su temi e strutture che sono sempre stati alla base di questi brani storici.
Il secondo cd, intitolato “Geometrie”, è invece lo specchio di ciò che rende gli odierni Area un “gruppo aperto”: suite inedite, in solitaria o in duetto, dove emergono in piena libertà le influenze world e i sentieri sperimentali di ciascuno. Su tutti, Tofani ha l'occasione di presentare a un pubblico più ampio i risultati dei suoi studi sullo strumento da lui ideato, la Trikanta Veena (“tre voci” corrispondenti a tre manici): una sorta di sitar guitar che il chitarrista filtra nei pacchetti audio di un tablet, ottenendo sonorità che spaziano fra tradizione orientale ed elettronica contemporanea.
Il tastierista presenta invece gli esiti del Patrizio Fariselli Project, nutrito negli anni seguenti la morte di Giulio Capiozzo la cui memoria viene qui onorata, con passione e ottime capacità, dal figlio Christian. I tre “Encounter” qui presentati muovono da synth mutanti a un suadente cool jazz alla Bill Evans, con un contrabbasso più passionale che mai – di ritorno anche nel placido finale di “Aten”. Così, in meno di quaranta minuti, gli Area tornano a dare saggio del loro spirito più audace, dal quale riaffiora anche una certa inquietudine per la condizione dell'uomo moderno, la cui integrità psicologica e morale continua a essere minacciata da ogni parte.
Dunque, cosa rimane oggi degli Area? Forse l'immagine più appropriata è quella di un pugno chiuso che si allenta, aprendosi a un caloroso saluto tra amici di vecchia data, spinti dalla volontà di rileggere la propria storia (e di conseguenza quella dell'Italia post-'68) in un'ottica meno politicizzata in favore del linguaggio universale della musica, un'energia gioiosa e rivoluzionaria che non accenna ad affievolirsi. C'è un moto di nostaglia, certo, ma anche e soprattutto di lecito orgoglio per aver scritto una pagina indimenticabile del panorama artistico nazionale.
Quello degli Area resterà sempre tra i più autentici casi di "rock in opposition" della musica italiana e non solo. Un'esperienza d'avanguardia e di militanza politica, in difesa di valori universali come la libertà di pensiero e d'espressione più che di quelli propri della Sinistra proletaria. Nelle parole di Gianpaolo Chiriacò, "la loro musica fu come una potente sorgente di luce, che non indicava con arroganza o alterigia la via giusta per la rivoluzione, ma piuttosto spronava incessantemente a liberare le individualità, per non morire soffocati nelle ortodossie e nelle chiusure mentali" [2005]. In sintesi, una luce che riscalda la mente.
Bibliografia
Chiriacò, Gianpaolo, Area. Musica e rivoluzione, 2005, Nuovi Equilibri
Coduto, Domenico, Il libro degli Area, 2005, Auditorium Edizioni
Trambusti, Luca, Consapevolezza. Gli Area, Demetrio Stratos e gli anni Settanta, 2009, Arcana
Arbeit Macht Frei (Cramps, 1973) | ||
Caution Radiation Area (Cramps, 1974) | ||
Crac! (Cramps, 1975) | ||
Are(A)zione (live, Cramps, 1975) | ||
Maledetti (Maudits) (Cramps, 1976) | ||
Anto/Logicamente (raccolta, Cramps, 1977) | ||
1978. Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano! (Ascolto, 1978) | ||
Event '76 (live, Cramps, 1979) | ||
Tic & Tac (Ascolto, 1980) | ||
Parigi - Lisbona (live, Cramps, 1996) | ||
Concerto Teatro Uomo (live, Cramps, 1996) | ||
Chernobyl 7991 (Sony, 1997) | ||
Live In Torino 1977 (live, Akarma, 2004) | ||
Live 2012 (live, Up Art, 2012) |
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