È una storia curiosa quella dei Porcupine Tree, passati nel volgere di pochi anni da misconosciuta (e misteriosa) band di culto a leggenda del neo-prog britannico. Curiosa fin dal modo in cui il loro ideatore e leader incontrastato Steven Wilson forgia la sua creatura. Il progetto, infatti, nasce quasi per caso, nel 1987, come frutto di una collaborazione scherzosa tra lo stesso polistrumentista inglese e Malcolm Stocks, che decidono di dare vita a una finta rock band leggendaria ispirata ai suoni degli anni 70, dei Pink Floyd, in particolare. E così i due inventano numerosi dettagli, come i membri della band, i titoli dei loro album e una finta storia che includeva eventi come raduni a festival anni 70 e parecchi viaggi fuori e dentro le prigioni di stato. Nel frattempo Wilson riesce a mettere da parte un po' di soldi per comprare l'attrezzatura per la registrazione e crea diverse ore di musica per provare la reale esistenza della sua band, mentre lavorava all'altro progetto dei No-Man, insieme al cantautore Tim Bowness.
A nome Porcupine Tree, Wilson pubblica una cassetta intitolata Tarquin's Seaweed Farm, alla quale aggiunge un libretto con informazioni sugli immaginari membri della band, come Sir Tarquin Underspoon e Timothy Tadpole-Jones. E poi partecipa a qualche compilation di musica psichedelica e pubblica l'Ep "The Love, Death & Mussolini" in sole dieci copie, seguito dall'album "The Nostalgia Factory". Tutti lavori che attirano l'attenzione di appassionati e addetti ai lavori, creando un piccolo culto attorno a questa band misteriosa, che, misconosciuta in Gran Bretagna, trova - sulla falsariga dei primi Genesis - una vera "seconda patria" in Italia e in particolare a Roma, dove, anche grazie alla promozione dell'emittente Radio Rock, riesce a formare attorno a sé una nutrita colonia di fan.
L'Albero del Porcospino, nato con i primi demo pubblicati su Yellow Hedgerow Dreamscape, dà il suo primo frutto ufficiale nel 1992, con On The Sunday Of Life, album doppio intriso di musica psichedelica d'avanguardia, che li consacra tra i massimi discepoli dei Pink Floyd.
Si spazia da filastrocche alla Syd Barrett ("Jupiter Island") a ballate in stile "Dark Side Of The Moon" come "Radioactive toy", che resterà uno dei loro pezzi più fortunati. E c'è spazio anche per partiture strumentali più complesse, come "Third eye surfer", con echi di free-jazz alla Soft Machine, e "Nostalgia Factory", intessuta su progressioni d'organo e chitarre alla Yes.
Ma dietro i Porcupine Tree non si cela una vera band. Il disco, in realtà, è interamente suonato dal multistrumentista Steven Wilson, chitarrista dalla grande inventiva, nonché abile manipolatore di suoni. "Sovraincidevo tutti gli strumenti nel mio studio e mi preoccupavo poco che qualcuno pensasse che fossi una band o un progetto solista, così decisi per qualcosa di misterioso, dicendo che erano brani prodotti e suonati dai Porcupine Tree", racconta.
L'exploit viene bissato nel 1993 con Up The Downstair, trascinato dall'incedere serrato e dalle atmosfere avvolgenti della formidabile "Synesthesia", una sorta di suite elettro-prog che mette in mostra tutto il talento visionario di Wilson. Ma a dare lustro all'album sono anche le carezze sovrannaturali della ballata "Always Never", tutta giocata su sussurri ed echi cosmici remoti fino alla sua deflagrazione rock, oltre che dai dieci minuti dell'altra suggestiva suite che dà il titolo alla raccolta: una riuscita alchimia di space-rock e psichedelia, con coda alienante.
Convincono anche i brani di contorno, da una vibrante "Not Beautiful Anymore", propulsa da un basso cavernoso, alle trame delicate e trasognate di "Small Fish". Il rock torna protagonista negli undici minuti di "Burning Sky", mentre "Fadeaway" chiude il disco all'insegna di ambientazioni nuovamente cosmiche e impalpabili.
Il disco finalmente allarga il seguito della band e anche i consensi della critica. Melody Maker lo descrive come "un capolavoro psichedelico e uno degli album dell'anno". Si tratta in effetti di uno dei loro lavori migliori in assoluto, con una ulteriore evoluzione della loro fusione fra musica elettronica e rock, con sfumature che vanno dal prog alla psichedelia. E nei brani fanno la loro prima apparizione due futuri membri della band, ovvero Richard Barbieri, ex-tastierista dei Japan, e il bassista australiano Colin Edwin.
Un anno dopo, la band incide The Sky Moves Sideways, con Barbieri ormai stabilmente in organico, accentuando la componente "ambientale" della sua musica. Il risultato sono suite dilatate fino alla trance, che però non nasce mai da trucchi o campionamenti, ma dagli strumenti suonati dal vivo. Ascoltare per credere "Moonloop", in cui si alternano al rallentatore suoni dolcissimi di chitarre, organi e percussioni, prima che il tutto prenda la strada di un'infuocata jam di blues-rock, o anche la tenue nenia di "The Moon Touches Your Shoulder", costruita su melodie eteree, lasciate fluttuare nell'aria e circondate da accordi impalpabili. Wilson si inventa la bellissima immagine notturna di una luna che sfiora la spalla e riporta un nuovo giorno: "The moon touches your shoulder/ And brings the day back". Un disco che incanta, The Sky Moves Sideways, con le sue miscele fra chitarre floydiane, tastiere glaciali che si lanciano in planate infinite, e assemblaggi ritmici che vanno dalla percussione acustica al battito alternative-dance. L'effetto è ipnotico e quasi trascendente, e non a caso, durante i loro concerti all'aperto, gli spettatori prendono l'abitudine di sdraiarsi per terra e alzare gli occhi al cielo, scrutando le stelle.
A partire dall'Ep Waiting, i Porcupine Tree rafforzano l'ensemble, divenuto un quartetto di chitarra, tastiere, basso e batteria. Il risultato è un cambio di rotta verso atmosfere sempre più fiabesche e trasognate. Saggi di questa nuova tendenza sono le due lunghe ballate e pezzi portanti del nuovo album Signify (1996): "Dark Matter" e "I Regarded The Cosmos", che riecheggiano le melodie di "Moonchild" dei King Crimson e i melodrammi dei primi Genesis. Ma la band strizza l'occhio anche al pop, con il singolo "Waiting". I Porcupine Tree sono qui ormai stabilmente strutturati come gruppo musicale, con Steven Wilson a voce, chitarra, programmazione e nastri; Richard Barbieri a tastiere e programmazione; Colin Edwin al basso; e Chris Maitland a batteria, percussioni, seconda voce.
A suggellare la formula ormai collaudata del gruppo, giunge il primo disco live, Coma Divine, registrazione di alcuni memorabili concerti romani.
Nel 1999, arriva Stupid Dream. Lo "stupido sogno" del Porcospino è donare eterna vita al progressive degli anni Sessanta. Ma se all'inizio il modello erano i Pink Floyd, ora la musica del gruppo si è spostata verso uno "space progressive infarcito di un pizzico di psichedelia", come lo definisce lo stesso Wilson. "Mi è sempre piaciuto il suono di una musica senza limiti, capace di abbracciare ogni cosa, dal jazz alla classica, al punk, al blues, una fusione di suoni e stili", spiega. A Wilson, insomma, l'etichetta "progressive" comincia a stare stretta. "Ritengo che i Porcupine Tree abbiano altre propensioni, compresi stili come jazz, hip-hop e techno, anche se in apparenza ne sembriamo distanti. Il prog-rock degli anni '60 e '70 nasceva da una contaminazione di stili diversi. C'erano i Pink Floyd che partivano dal blues, Emerson Lake & Palmer che prendevano in prestito dalla musica classica, i Jethro Tull che mutuavano dal jazz e dal folk. Oggi i veri gruppi progressive sono gente come Portishead e Radiohead: loro, come pochi altri, sanno unire diverse attitudini creandone una nuova".
Stupid Dream, in cui Wilson per la prima volta si avvale della collaborazione della band anche in fase compositiva, accentua l'attenzione verso la più classica canzone rock, aumentando le parti cantate e rendendo più accessibili i brani.
Ingaggiato Dave Gregory degli Xtc, il successivo Lightbulb Sun segna un altro passo avanti per la band. Conserva il gusto per arrangiamenti complessi e raffinati, ma mostra anche una maggiore schiettezza con canzoni più dirette, anche nei testi. "Tutto questo è il risultato di come abbiamo lavorato - spiega Wilson -. Per noi, incidere un disco è una sorta di composizione di un mosaico, e questa volta è stato più veloce. E' anche il disco meno oscuro nei testi. In passato cercavo di costruirli su immagini astratte, e questo li rendeva più difficili da capire. Questa volta sono molto diretti, duri e crudi".
Un brano come "Four Chords That Made A Million" (quattro accordi che fanno un milione), ad esempio, è la chiara presa di posizione dei Porcupine Tree sul music business e sulla loro volontà di scrollarsi di dosso l'etichetta di band di culto. "La canzone è riferita a un gruppo in particolare, facile da identificare - dice Wilson - Ci sono gruppi che prelevano totalmente il loro suono da altre band degli anni 60 e diventano successi internazionali. E questo è un po' frustrante per una band come i Porcupine Tree, che fa una musica non particolarmente ostica, ma originale e potenzialmente 'mainstream'. Una musica però osteggiata dai mass media, che hanno deciso che non siamo 'di moda' ma 'di culto'. Quello che è successo in Italia, dimostra che quando le gente ci ascolta, piacciamo".
Il disco è costruito su forti contrasti di suono, tra chitarre dure e più rilassate. Gli arrangiamenti orchestrali di Gregory si avvertono in brani come "The Rest Will Flow" e segnano l'intero disco, che prosegue la ricerca sul terreno del pop più raffinato. "Gli Xtc sono sempre stati uno dei miei gruppi preferiti e credo che il merito del suono sofisticato e diretto degli Xtc fosse dei suoi arrangiamenti". Ma il vulcano-Wilson non si ferma qui. Tra i prossimi progetti c'è già pronto il terzo lavoro del suo gruppo parallelo, i No Man's Land, inciso con Robert Fripp. "Lavorare con personaggi del calibro di Fripp, Gregory o Barbieri è semplice. Non mi interessano musicisti tecnici, ma quelli creativi".
Ma chiedere a Wilson da quali musicisti si senta più influenzato può riservare delle sorprese. "Mi piacciono molto le armonie vocali, dai Beach Boys a Neil Young, da Nick Drake a Todd Rundgren. E, in un certo senso, mi ispiro anche a band americane come Soundgarden, Nirvana, Smashing Pumpkins. Ma adoro anche gruppi meno conosciuti come i Mercury Rev: il loro 'Deserter's Songs' credo che sia quanto di più creativo e contemporaneo ho ascoltato di recente". E i Pink Floyd? "Di loro mi piace soprattutto la capacità di essere 'multimediali', sfruttando l'arte non solo come musica, ma quale forma di espressione che coinvolgeva cinema, letteratura e scenografia. Ma oggi credo che i Porcupine Tree siano distanti dall'essere una semplice copia dei vecchi Pink Floyd".
Per un periodo, i Porcupine Tree hanno venduto circa il 30 per cento dei loro dischi a Roma, trainati dai passaggi radiofonici e dal passaparola degli appassionati. Nei primi 70 avvenne qualcosa del genere anche per band come i Genesis e i Gentle Giant, ognuna delle quali ha oggi il proprio cospicuo spazio nella storia del rock. Poi sono diventati un riferimento per i cultori internazionali del giro Kscope e dell'intero new prog.
Nel 2001 la band di Wilson ha fatto uscire due dischi, Metanoia (inciso durante le sessioni di registrazione di Signify) e Recordings (antologia in edizione limitata, che contiene alcuni singoli dell'ultimo periodo).
In Absentia (2002) è un'altra pietra miliare nel loro percorso, fatto di suggestioni sonore e di atmosfere più che di canzoni. Ingaggiato il nuovo batterista Gavin Harrison, i Porcupine Tree spaziano da brani più lineari, come "Blackest Eyes", "Prodigal", "Strip The Soul" a incursioni nel progressive più tortuoso (""The Sound Of Muzak", "Collapse The Light Into Earth", "Wedding Nails"), senza mai perdere la bussola di un'ispirazione che sembra ora tornata quella dei loro tempi migliori.
Il neo-prog-rock ideato da Wilson e soci si colora di tinte beatlesiane, insegue le arie spensierate dei Beach Boys, la vocalità morbida di Crosby, Stills, Nash & Young, ma non perde la sua identità. "Credo che 'In Absentia' suoni come il nostro disco più seventies - spiega Richard Barbieri - e questo ci fa piacere, perché il nostro scopo è sempre stato quello di costruire album organici, guidati da un tema conduttore".
Deadwing è il lavoro targato 2005. La title track, che apre il disco, immette direttamente a quello che molti considerano il seguito naturale di In Absentia del 2002. Nel segno di una continuità a ben vedere più formale che di reale collegamento, "Deadwing" (quasi dieci minuti) cincischia appena qualche secondo prima di rivelare tutta la sua essenza: un progressive-rock depurato da eccessivi tecnicismi, chitarre dal suono robusto che ci mettono un attimo ad addolcirsi, una parte centrale contaminata dagli immancabili echi pinkfloydiani (nel cantato, più che altro) e un epilogo vicino ai territori techno-ambient di "Voyage 34". L'impronta stop & go delle chitarre inaugura e regge il secondo pezzo, "Shallow", che alterna momenti di autentico rock a piacevoli melodie pop (nel ritornello). Wilson, in alcuni tratti, sembra scimmiottare perfino Maynard James Keenan dei Tool.
"Lazarus", fin troppo classicheggiante lento easy listening, è un brano che strizza l'occhio alla tradizione pop da classifica ultima maniera. Fortuna che nel finale, la texture disturbata annuncia "Halo", con il suo solido, ciclico basso di stampo britannico e la quasi subitanea ampiezza vocale. Dopo un inizio influenzato dal secondo periodo dei King Crimson (Adrian Belew compare non a caso nella title-track), il brano si trasforma strada facendo in un inno alla Motorpsycho.
Con "Arriving Somewhere, But Not Here" (12 minuti), la band confeziona uno dei suoi brani più ambiziosi e riusciti. Il corredo genetico psichedelico puntellato in quasi quindici anni di elucubrazioni sonore elargisce al pezzo una forza non indifferente, grazie anche agli improvvisi cambi di tempo, alle atmosfere ora dilatate, ora contratte, alle violente pillole pseudo-hardcore, alla robusta sezione centrale e a un finale logico e svolazzante. Nella successiva "Mellotron Scratch", Wilson mette ancora da parte le grancasse simil-metal a favore dell'introspezione, della meditazione sensoriale, in un'altalena pop. "Open Car", cantata ancora in Tool-mode, riprende, trasfigurandoli, alcuni elementi autoctoni dell'universo heavy: un uso debordante ma non gratuito delle chitarre, un comparto ritmico per lunghi tratti possente e brusche frenate modulate con leggeri tocchi acustici. Il basso di Edwin spadroneggia abilmente in "The Start of Something Beautiful", un pezzo che riconcilia i fan della cosiddetta prima ora, delusi dai cambiamenti della band. L'inossidabile ponte della memoria infine si allunga fino all'eterea, vecchia "Fadeway" allorché le note di "Glass Arm Shattering", bellissima e avvolgente, cominciano a prendere corpo. La dicotomia veloce/lento che pervade il disco trova una sua felice diluizione proprio nella parte conclusiva, con "Glass Arm Shattering" appunto, e la ghost track, dal retrogusto di b-side, "She's Moved One". Nella prima, i Porcupine Tree si specchiano in un brano corale, crepuscolare e di rara intensità; la ghost track, abbastanza inutile e per buona parte banale, è un altro pezzo pseudo-metal, impreziosito però da lampi sicuramente apprezzabili.
I Porcupine Tree stanno subendo una naturale e largamente auspicata evoluzione che non solo prende linfa dai side-project del frontman, felicemente invischiato in una sorprendente fase/parentesi metal (con gli Opeth), ma da una voglia mai assopita di scoprire dimensioni alternative.
Fear Of A Blank Planet (2007) non si discosta molto dal suo predecessore: una raccolta di brani che vanno dalla ballata pop-rock a complesse e oblique strutture prog di sapore crimsoniano (quelli di "The Power To Believe", per intenderci) - non è un caso, infatti, che tra gli ospiti del disco ci siano Robert Fripp e Alex Lifeson dei Rush. Si ha però la sensazione che Wilson e soci fatichino a trovare idee fresche, la cui conferma è rappresentata dalla terribile somiglianza di un momento all’interno del brano "Sentimental" con "Train" (da In Absentia): stessa scelta sonora, una chitarra acustica a scandire gli stessi accordi, e stessa scansione ritmica di questi. Insomma, un vero e proprio riff riciclato, auto-plagio o auto-citazionismo consapevole?
La lunga suite "Anesthetize" potrebbe regalare qualche sussulto: 17 minuti di progressioni sapienti, fluide, che non annoiano mai e che non risultano forzate, un magma compositivo coerente. Ciò che non si può dire della title track, che inizia con lo stesso intento di "Deadwing" (non una pertinenza, ma un difetto quindi) e che, come se non bastasse, non ha la stessa poliedricità e pathos. Addirittura "Sleep Together" è una ballata rock che potrebbero scrivere i Goo Goo Dolls.
Due anni dopo, The Incident procede verso il baratro. Un album più che brutto sciapo, annacquato nella faraonicità di un mini-doppio (74 minuti ripartiti su due dischi) mezzo concept e mezzo no. Le coordinate musicali sono quelle ormai consuete, solo con meno classe e meno idee forti: cascate di accordi tardo-floydiani, Tool e Meshuggah tanto al chilo (ma quelli più hard sono gli episodi migliori), gran dispiego di tastiere e riverbero - che fanno molta atmosfera - e melodie alt-rock sognanti.
Gli assoli sono ormai un bieco espediente per allungare il brodo, ma The Incident presenta comunque qualche spunto interessante, magari racchiuso in una manciata di secondi: i brani che svettano, purtoppo, sono pochi. Su tutti, la title track, una sorta di trip-hop metalleggiante a metà tra Massive Attack e Nine Inch Nails. Voce filtrata semisussurrata, chitarroni fondissimi e circolari, poi un'esplosione di batteria tutta charleston su un ritmo francamente inaudito. Torbida, ipnotica, conturbante, è il capolavoro dell'album e lascia sperare che la scintilla creativa che anima i Porcupine Tree non sia affievolita definitivamente.
Dispiace ammirare ormai nei Porcupine Tree solo la maestria esecutiva: speriamo che in futuro possano tornare a scoprire nuove vie, più avvincenti. È certo, comunque, che si debba dar torto al buon Wilson quando si ostina a ribadire l’incatalogabilità della sua proposta: la sua playlist personale sul sito ufficiale della band trabocca di progressive-rock. Ed è la musica di quell’elenco che poi si ritrova, puntualmente, tra i solchi dei suoi dischi.
Nel 2012 esce il live Octane Twisted, una raccolta di istantanee dai palchi del "The Incident Tour".
Con la pubblicazione del suo primo disco solista, Insurgentes del 2008, è iniziato il fortunato percorso solista di Steven Wilson, situazione che volente o nolente ha segnato una battuta d'arresto per i Porcupine Tree.
Nel novembre del 2021 giunge però la notizia che non t'aspetti: la band sta lavorando alla realizzazione di un nuovo album, dopo tredici anni dal precedente.
Anticipato dai singoli "Harridan", "Rats Return" e "Of The New Day", il 24 giugno 2022 vede la luce Closure/Continuation, disco che segna il ritorno in grande stile della band inglese.
Colin Edwin non figura della partita, ma il tridente Wilson-Barbieri-Harrison porta a compimento alcune registrazioni avvenute nel corso dell’ultimo decennio.
Travaglio e irrequietezza si riflettono abbondantemente nei testi dei setti brani in scaletta, ma il ritorno dei Porcupine Tree è effettuato con grande stile, non c’è dubbio. Tra la veemenza delle linee di basso che introducono il singolo “Harridan” – tra i passaggi migliori dell’album – e il convulso tumulto di “Chimera’s Week”, posta a chiusura del lavoro, si viaggia attraverso spigolose e possenti strutture sonore (“Wreck The Plank”) che riportano sugli scudi Wilson e la sua chitarra, strumento tanto amato all’inizio di carriera e sempre più relegato a ruolo di dorato comprimario nelle sua fase solista.
C’è spazio per incantate fasi acustiche (“Dignity”) e per le immancabili e obbligatorie commistioni tra le due principali concezioni che contraddistinguono la formazione britannica, dove riff incandescenti s’intersecano alle ovattate melodie (“Of The New Day” e “Rats Return”).
Al titolo dell’album manca forse un segno, il punto di domanda, che andrebbe posto al termine dei due vocaboli che lo compongono.
Closure/Continuation è da intendersi come la chiusura definitiva del progetto o come un nuovo punto di partenza? Solo la storia potrà elargire l’esito di questa riflessione, per ora ciò che importa è avere di nuovo tra le mani un lavoro scaturito dalla band che, forse più di ogni altra al mondo, ha cercato di sdoganare, ampliare e modernizzare, con lodevole costrutto, gli schemi del progressive rock anni 70. Un prodotto eccellente che traccia un’istantanea di quale possa essere una delle evoluzioni della musica rock del futuro, grazie a infinite contaminazioni e intrecci divisi tra rumori stridenti e alte melodie.
Contributi di Emilio Saturnini ("Deadwing"), Alessandro Vagnoni ("Fear Of A Blank Planet"), Marco Sgrignoli ("The Incident"), Cristiano Orlando ("Closure/Continuation")