Nomi pittoreschi, quelli di Alex Ayuli e Rudi Tambala. Col loro fascino aromatizzato al ganja, sembrano fatti apposta per stuzzicare la (triste) fantasia dell'utenza musicale generica e generalista, magari convinta che dietro cotanto esotismo debbano, per forza di cose, celarsi spettrali rastamen incatenati alla consolle, condannati a scandire ab aeternum la pulsazione di un soundsystem "100% jamaican-style". Difficile immaginare che questi oscuri figuri, in realtà polistrumentisti originari della East Side di Londra, siano stati compagni d'etichetta (la 4AD, ricordiamolo) dei Cocteau Twins, nonché ispiratori e diretti antecedenti di gran parte del post-rock d'Albione. Difficile persino credere alla banalità di certa stampa inglese, in genere maestra di creatività quando si tratta di coniare generi o appellativi sgargianti, che all'epoca non trovò di meglio che confinarli nello sgabuzzino "proto-shoegaze/tarda wave" e ribattezzarli "black Jesus And Mary Chain" (!). Vista la peculiarità della proposta musicale, gli scribi di Sua Maestà avrebbero potuto sbizzarrirsi: dream-dub? Narc-psych? Trip-wave? (fantageneri "inventati" dal sottoscritto in quattro e quattr'otto, quindi burlatevene... e poi non vorrei che qualcuno ne detenesse già il copyright). Una cosa è certa: se quella di Bark Psychosis, Disco Inferno e Seefeel è stata la "Generazione Perduta", gli A.R. Kane ne sono stati i grandi, misconosciuti profeti.
Eppure il loro quarto d'ora di gloria l'hanno avuto, Ayuli e Tambala. Era l'agosto del 1987, e la pubblicazione del 12'' "Pump Up The Volume" - frutto di una tormentata partnership coi compagni di etichetta Colourbox - li fece balzare agli onori delle cronache (per non dire delle classifiche) come pionieri di quella rivoluzione "sampledelica" che, di lì a poco, avrebbe travolto il mondo della dance. Questo almeno stando alle apparenze: in verità, la lucrosa parentesi a nome M/A/R/R/S manteneva le due anime del progetto ben distinte, quasi scisse, tanto che il contributo dei Nostri alla leggendaria hip-house "collagistica" del lato A finì col limitarsi a qualche overdub di chitarra incorporato nel mix. Chi però si prendeva la briga di girar lato al vinile (notare la primordialità del gesto) era destinato a imbattersi in qualcosa di ancor più strano. In pratica un exploit dei soli A.R. Kane (ma Steve Young, membro del gruppo "rivale", ci mise lo zampino programmando la ritmica), "Anitina (The First Time I See She Dance)" era la negazione in musica della concretezza fenomenica, reflusso gastro-psichedelico in cui il dream-pop usciva (e guardava) fuori da sé, amalgamandosi a un beat tagliato con l'accetta, arpeggi remoti, voci cantilenanti e nebbie noise. Qualcosa d'inaudito, per l'epoca. Già "post" qualcosa.
Anche lo splendido singolo "Lollita" (4AD, luglio 1987) era instradato sul medesimo tracciato: ossia applicare l'equivalente noise dello "sfumato" a un canovaccio di reperti indie e wave. Maneggiando suoni come pittura pasticciata da polpastrelli infantili o polvere d'angelo sospesa a mezz'aria, il duo giungeva a un grado di sofisticazione forse senza precedenti. "Cerchiamo qualcosa di più astratto della formula strofa/ritornello/strofa. Le nostre canzoni emergono dal caos totale, che noi poi acquietiamo per far emergere una melodia. In sostanza, vogliamo utilizzare le melodie per risucchiare gli ascoltatori nel caos". Impossibile non pensare ai contemporanei My Bloody Valentine, almeno stando al protocollo che vuole, prima di tutto, l'ottenebrarsi/estasiarsi dei sensi, ripiegando sul rumor bianco misto all'appeal "mediano" del discorso pop (che modo subdolo e irresistibile d'indorare la pillola!). Però non facciamoci subito del male pensando a dei cloni, ché le differenze fra i due gruppi restano abissali. Su una - la fondamentale - vale anzi la pena soffermarsi: il metodo.
Le "coperte di suono", nella band di Kevin Shields, hanno lo scopo di minare i punti di riferimento prospettici, provocando così l'occlusione dello spettro per eccedente densità materica; nella ricetta perfezionata da Ayuli e Tambala, invece, la ricerca della trance produce il paradossale effetto di "aprire" gli spazi e costruire, tramite un mosaico di relazioni - anche casuali - fra enti, un ambiente sonoro a tre dimensioni (il procedimento tipico del dub, in sostanza). È quella che Simon Reynolds ha definito la "democrazia fra i suoni": un agglomerato in cui ogni fonte non s'impone ma coabita, in posizione di parità, fornendo di sé niente più che una vaga impressione, una traccia labile. Musica in quanto "sistema", quindi, dove ogni elemento costitutivo non ha altra ragion d'essere, se non inserito in una fitta trama di scambi e rapporti di forza. "Ascoltiamo un sacco di jazz, roba come 'Bitches Brew' e 'In A Silent Way' di Miles Davis, o i primi Weather Report", ha spiegato Ayuli, e adesso capiamo il perché. Davis, Shorter e Zawinul: tre dei "vecchi saggi" cui chiederanno consiglio i più secchioni del post-rock quando si troveranno ad affrontare problemi di sviluppo e texture, spesso ottenendo risposte più che soddisfacenti. Come dire... tutto torna.
Troppi guardano a "69" (Rough Trade, 1988) col caratteristico disincanto di chi si trova fra le mani un album più influente che bello. Fughiamo ogni dubbio circa la veridicità del primo termine in esame: "69" è stato davvero influente, e come pochi altri manufatti del suo tempo. Detto ciò, appare quantomeno doveroso rivalutarne, sotto il profilo squisitamente estetico, il bouquet di fragranze: quel mix irripetibile in cui dub, pop, elettronica, minimalismo e strumentazione rock annegano sereni, adocchiando il limbo ascetico dei Talk Talk di "Spirit Of Eden" e prefigurando un migliaio di altre cose (non ultimo, il 90% dell'intero catalogo Too Pure).
"69" (titolo tutt'altro che ascetico, nevvero...) è arabesco sonico in cui immobilismo batte fisicità 20 a 0; prisma psichedelico d'inerziale letizia (l'immortale "Dizzy" e il suo pudico violoncello in primo piano), con la sola, torrenziale "Suicide Kiss" a farsi già modella in posa per il versante più "maschio" dello shoegaze (Catherine Wheel, Swervedriver, Revolver). A scandire i tempi sono la chitarre, costantemente (e meravigliosamente) indecise fra accordi scampanellanti ("Sperm Whale Trip Over", la più "cocteauniana" del lotto) e droning maligno, arpeggi e rumore nevrastenico (il goticume rappreso di "The Madonna Is With Child"). Il canto di Ayuli le asseconda con melismi straniti, lullabies deviate: una voce, la sua, dalla quale traspare negritudine malata d'anemia, fragile e femminea, veicolo di pura percezione.
Innocenza pop che si scrolla di dosso la retroattività indie, "Crazy Blue", e punta risoluta a sentori dub-caraibici, sfruttando un basso talmente canterino e jazzy da scomodare personaggi del calibro di Phil Lesh (Grateful Dead) o Chris Hillman dei Byrds. "Baby Milk Snatcher" la supera a sinistra, in una goduriosa passeggiata acquatica per controcanto femminile, beat in levare e "staccato" di tastiere soffici come pan di spagna. Quasi un Lee "Scratch" Perry in dormiveglia, se vi aggrada l'immagine.
Ogni capacità di giudizio va però a farsi friggere quando a irrompere sono puri incanti come "The Sun Falls Into The Sea", "Scab", il capriccio flemmatico "Spanish Quay (3)" o l'inquietante deriva free-form di "Sulliday": qui davvero gli A.R. Kane si pongono non solo al di sopra delle dispute teoretiche ("questo è post-rock, quest'altro no, quest'altro ancora potrebbe esserlo, se suonasse più alla Slint"), ma al di là di qualsiasi rimando tangibile che non sia - ipotizzo - una convergenza fra ambient, l'Hendrix di "1983... (A Merman I Should Turn To Be)" e la psichedelia del David Crosby più sonnacchioso.
Non c'è svolgimento, né trama, solo tessuto. Del dream-pop sono rimasti giusto il senso di sospensione temporale e lo stupore magico: quella sedimentazione d'ebbrezza ottenuta in laboratorio, abusando di delay, riverberi, armonici, bollicine brodolose alla Robert Wyatt. Sogni, al limite dell'incubo.
"69" non è semplice, almeno non nell'accezione del termine che va per la maggiore fra i fruitori di pop music (ossia "immediato"): accarezza fin da subito le terminazioni nervose, ma non s'installa seduta stante e il downloading richiede pazienza. Però ripaga. La valuta - incredibile a dirsi - consiste proprio nell'esponenziale caduta d'interesse per il disco in sé, almeno fino al momento in cui alla fascinazione per il processo subentra l'empatia col dettato "viscerale". Ché questa non è solo musica di concetti e strutture, ma anche e soprattutto di desiderio, (ab)negazione. Musica "troppo pura" per sopravvivere al di fuori delle cuffie, unico contesto in cui è possibile apprezzarne la finezza dialettica, la cura per il particolare (e questa è musica basata esclusivamente sui particolari). Non è fatta per il mondo esterno; non pare nemmeno frutto di un atto fisico, quale l'effettivo suonare. Entra subdolamente in simbiosi con l'organismo. Sopravvive, mimetizzandosi col battito cardiaco.
Con "69" la sinossi dell'estasi raggiunge il punto di non ritorno. Dovevano essersene accorti anche Ayuli e Tambala, di questo traguardo, almeno stando alla programmatica frammentarietà dell'album successivo. Opera più dinamica, dal feeling marcatamente "rock", eppure schizofrenica per quel suo alternare brani compiuti a micro-schegge di nonsense, "i" (Rough Trade, 1989) sembrava un'implicita rinuncia a perseverare nella fusione delle diverse anime del loro sound. O forse i due cercavano proprio d'esasperarne la patina d'ambiguità, consci delle ambivalenze congenite di un'arte che predica innocenza e spontaneità, ma grufola nella sofisticazione; un'arte nata da istanze spurie, eppure fondamentalmente autoriflessiva. Prendendo in prestito la terminologia coniata dall'antropologo Gregory Bateson a proposito del "sistema famiglia", potrebbe quasi parlarsi di "doppio legame": un'asserzione esplicita contraddetta o dissimulata da una comunicazione analogica - quindi sottintesa - che causa nell'interlocutore (ascoltatore, nel nostro caso) la più totale incertezza sul da farsi. È infatti l'incapacità di scegliere fra due opzioni che si escludono a vicenda, qui, a condurre in uno stato d'impasse, di paralisi (quello che, nel gergo dei J&MC, è il fascio di white light capace di "schiacciarti al suolo"). In tanti non seppero come reagire di fronte alla musica degli A.R. Kane per il semplice fatto che, così su due piedi, non potevano fare altrimenti.
Certo, può controbattersi che il doppio legame presuppone una relazione di tipo affettivo fra due soggetti... Ma cos'è la musica pop se non un (doppio) innamoramento? E cos'è la sua fruizione se non un interscambio a più livelli (verbale, visivo, emotivo), un "do ut des" fra due soggetti distinti, per il tramite dell'opera (oggetto)? La trama del contraddirsi - e quindi non soltanto di voler superare il rock, ma di insistere sul divario fra mezzo e fine, medium e contenuto - pulsa negli A.R. Kane come in larga parte del post-rock, persino quello domiciliato sull'asse Louisville-Chicago. È come se la maggior parte di quei gruppi volesse dirti: "Guardaci, e guarda i nostri strumenti: siamo la tipica rock band!". Tu ci credi, ma poi loro attaccano con il "Ballet Mécanique" di George Antheil! Posti di fronte a una tale contraddizione in termini, che senso ha muoversi?
06/09/2009