Quando nei primissimi anni 90 i Catherine Wheel rilasciarono i loro primi Ep e il grandioso Ferment, inquadrarli nel rumoroso mucchio shoegaze fu per la critica una scelta naturale, scontata. Furono peraltro corteggiati dalla Creation – Alan McGee, uno che di shoegaze se ne intende, avrebbe fatto carte false per aggiudicarseli nel suo roster. In effetti la primissima produzione della band di Great Yarmouth grida shoegazing a ogni riverbero, c’è praticamente tutto: le chitarre imbottite di feedback e pronte a violente cavalcate nel vuoto, un cantato etereo smarrito nel frastuono, una forte propensione all’interiorità più dolente. Qualche avvisaglia del fatto che i Catherine Wheel non erano soltanto questo era però già evidente. Anche già in Ferment la voce di Rob Dickinson era ben più carnosa e sensuale di quelle dei colleghi gazer, così come le chitarre dello stesso frontman e di Brian Futter erano molto meno evanescenti della media del genere, non disdegnando ad esempio accenni di assoli e strutture rock più solide. Anche i titoli delle canzoni ostentavano maggior concretezza, perlomeno rispetto alle scie di vapore dei Ride o alle brezzoline degli Slowdive.
I riff muscolosi di Chrome scrollarono ulteriormente di dosso al sound della band la ruvida patina shoegaze che l'aveva contraddistinta fino a quel momento; contestualmente la formazione iniziò a guardare con interesse non soltanto al grunge, ma a tutte le tendenze più dure del rock alternativo americano dell’epoca. L’etichetta sarebbe definitivamente caduta dalla fronte dei Catherine Wheel nel 1995 di Happy Days, dove lo shoegaze risultava essere ormai l’agente meno rilevante della loro formula. Un paio di anni dopo, Adam And Eve avrebbe invece scoperchiato un pentolone di influenze fino a quel momento inedito, la più palese delle quali è rappresentata sicuramente dai sempiterni Pink Floyd. Il quarto disco dei Catherine Wheel avrebbe però contenuto anche alcuni dei brani più radiofonici mai pubblicati dalla band.
Un ulteriore elemento distintivo – magari un po’ forzato, ma che ci va di suggerire – tra la band di Rob Dickinson e il resto degli shoegazer è rappresentato dal rifiuto, perlomeno temporaneo, della band di prendere parte al circo di reunion – o comeback, dato che non si sono mai sciolti ufficialmente - del quale il genere è protagonista negli ultimi anni.
Del resto, Dickinson, che nel frattempo si è trasferito in California, sembra determinato a dedicarsi a tempo pieno alla Singer Vehicle Design; società che ha fondato e dirige, per la quale restaura personalmente vecchie macchine d’epoca, con una particolare predilezione per le Porsche. Che poi non è nemmeno tutta questa sorpresa, dati i continui riferimenti a motori e cromature presenti in numerose canzoni di ogni disco dei Catherine Wheel.
Ogni tanto però Rob una cantata da solista se la fa ancora – ha anche pubblicato un disco - quindi mai dire mai.
1990 – 1992: dalla cameretta di Brian Futter all’olimpo shoegaze
Come testimoniano numerose interviste, il sogno di Rob Dickinson è stato da sempre quello di mettere in piedi una rock band. Lo stesso desiderio di migliaia di ragazzetti, specie sul finire degli anni 80, ma ancora più inevitabile se hai un cugino di nome Bruce – sì, quel Bruce Dickinson. E così Rob e l’amico fraterno Brian – Futter - iniziarono molto presto a fondare numerosi progetti, a prendere parte ad altri già esistenti e così via.
In men che non si dica, tra una band e l’altra, la coppia finì con l’esibirsi tra Great Yarmouth e dintorni praticamente ogni fine settimana. Le cose cominciarono a farsi più serie quando i due, al tempo in cui facevano parte dei Ten Angry Men, conobbero Neil Sims, che dei Catherine Wheel sarebbe diventato il batterista. La sintonia tra i tre fu incredibile sin da subito, mancava dunque soltanto un bassista, che i ragazzi trovarono nel più classico dei modi: affiggendo un volantino in giro per locali e negozi di dischi. Era il 1990 e il volantino esigeva che tra le influenze di suddetto bassista figurassero Stone Roses, Ride e, ovviamente, My Bloody Valentine. Tra i vari candidati la spuntò Dave Hawes che avrebbe fatto parte della formazione fino al 2000, anno della pubblicazione di Wishwille – ultimo disco della band, per la registrazione del quale sarebbe stato sostituito da Ben Ellis.
Quando Hawes si unì al gruppo, la band aveva già registrato numerose canzoni; materiale ancora amatoriale, inciso nella cameretta di Futter con l’ausilio di un solo otto tracce, ma comunque sufficiente per tentare qualche data live qua e là. Quello che mancava ancora era un nome, la cui scelta ricadde presto su Catherine Wheel. Il moniker, che richiama sia un terribile strumento di tortura medievale che un celebre fuoco d’artificio, fu suggerito da Rob Dickinson quasi estemporaneamente, ma folgorò immediatamente ciascuno dei membri. E’ suggestiva, ma non confermata, l’ipotesi secondo cui la scelta di questo nome indichi un ulteriore legame con gli Iron Maiden, altro gruppo ispirato da un celebre strumento di tortura.
L’ascesa della band fu fulminea. Dopo la loro prima esibizione lontano, ma neanche troppo, da Great Yarmouth arrivò anche la prima firma, con la label indipendente Wilde Club Records. Il promoter della serata, tenutasi all’Arts Centre di Norwich, era anche il direttore della WCR e dopo nemmeno un paio di canzoni non ebbe dubbi: i Catherine Wheel meritavano un contratto. La band incise due Ep con la WCR, She’s My Friend e Painful Thing, entrambi datati 1991. Grazie a uno sponsor come John Peel, che non solo ne passava i pezzi a ripetizione, ma invitò i ragazzi in radio per una scatenata Peel Session, i due Ep ebbero enorme visibilità. Dopo cotanto battage, le case discografiche interessate alla band di Rob e Brian erano numerose, alcune di esse piuttosto attraenti: la Creation di Alan McGee, la Opal di Brian Eno. La spuntò però la Fontana Records – costola indipendente della Philips - per la quale, soltanto un anno dopo, sarebbe uscito il primo Lp Ferment.
A causa dei mezzi non proprio all’avanguardia della Wilde Club, ma anche dell’assenza della direzione di un produttore navigato, i brani dei due Ep suonavano, seppure potenti e preconizzatori di un gran futuro, piuttosto rozzi e unidimensionali; tanto che invece che di shoegaze sarebbe più appropriato parlare di noise-pop. Dickinson e sodali erano però molto affezionati ad alcuni di essi, tanto da decidere di partire proprio dalla rielaborazione di quest’ultimi – “I Want To Touch You", "She's My Friend", "Salt” e “Shallow” - per la realizzazione del loro primo full length. Confrontare le vecchie e le nuove versioni di suddetto poker di canzoni è infatti un esercizio divertente, che consente di quantificare la mastodontica mole di lavoro che i Catherine Wheel, peraltro non proprio degli strumentisti raffinatissimi – almeno non all’epoca - hanno dovuto sostenere in studio, stressati dal terribile quanto geniale produttore Tim Friese-Greene, l’uomo che coadiuvò i Talk Talk in quella che è considerabile una delle evoluzioni più straordinarie della storia della musica pop, ma questa è un’altra storia. La differenza rispetto ai Catherine Wheel pre-Friese-Greeneè enorme e indica quanto la mano di questo produttore abbia inciso, non solo nella creazione del leggendario suono di Ferment, ma anche nella formazione dei quattro giovani musicisti, che crebbero enormemente in termini di metodo e perizia.
Sin dall’apertura, affidata a “Texture”, le chitarre di Dickinson e Futter ringhiano, aggrediscono, bombardando i sensi dell’ascoltatore senza soluzione di continuità. Sono così brutali e distorte che, lasciandosi andare con l’immaginazione, quasi si può percepire una torre di amplificatori ruggirti in faccia cotanta efferatezza. Il suono che emanano è però anche scontornato, impressionista. Quando le pennate non insistono sulle corde, sembra quasi che siffatto muro di suono si sgretoli, generando un pulviscolo malinconico in cui Dickinson può far riecheggiare le sue ansie, la rabbia, la paura. Un ineluttabile senso di schiacciamento.
Specie se riprodotto a volume considerevole – come andrebbe fatto sempre con i dischi shoegaze - Ferment ha un impatto devastante, quasi fisico, ma dietro le sue sferragliate soniche è sempre possibile intravedere inafferrabili scorci melodici. Ferment è praticamente la quintessenza dello shoegaze, il disco che andrebbe fatto ascoltare a un neofita per comprendere cosa sia il genere, probabilmente insieme ai soli “Nowhere” e “Loveless”.
I tre singoli del disco – “Black Metallic”, “Balloon” e “I Want To Touch You” – fecero accrescere la visibilità della band in Uk, dove venne subito riconosciuta come una formazione-cardine della scena. Ma furono anche una spinta decisiva negli Usa, dove “Black Metallic” venne trasmessa a ripetizione su Mtv e dove la band avrebbe intrapreso un trionfale tour lungo un anno. Nonostante un suono graffiante e granuloso, “I Want To Touch You” ha una melodia fenomenale e un refrain che trasuda una sensualità palpabile; mentre i sette minuti di “Black Metallic”, grazie a una sezione centrale dove atmosfera e tormento vengono fatte contorcere e strisciare prima dell’esplosione finale, erano destinati sin da subito a divenire lo zenith delle loro esibizioni. Qualche anno fa Pitchfork, nel corso del suo speciale sullo shoegaze, avrebbe definito quest’ultima la “Stairway To Heaven” del genere, una definizione piuttosto azzeccata.
Il brano dove la mano di Friese-Greene è più evidente è senza dubbio la title track. Le chitarre grondano note alte e stridenti, e lacrime; la batteria, solitamente percossa da Sims con impetuosa crudeltà, è qui spazzolata e coperta di polvere. Sembra quasi di trovarsi in uno degli acquerelli di “Laughing Stock”, ma il pericolo è dietro l’angolo. La mesta quiete disegnata dagli strumenti viene prontamente e ripetutamente spazzata via, screziata e sfigurata da riff assassini armati di feedback. Ancora più particolari e riusciti sono gli interventi chitarristici di “Flowers To Hide”, dove le corde delle Fender vengono fatte ronzare come uno sciame d’api, e della più pacata “Indigo Is Blue”, introdotta da un tunnel di rumore bianco.
Alcuni episodi di Ferment tolgono davvero il fiato, ma a renderlo un capolavoro è anche la sua compattezza monolitica, il fatto che ogni sua traccia sia insostituibile e impossibile da rimuovere senza inficiare la visione d’insieme.
1993 – 1995 : la fase “americana”
Inutile girarci intorno, il primo disco dei Catherine Wheel è anche il loro migliore. Ma la caparbia e l’inarrestabile voglia di cambiare ed esplorare nuovi spazi sonori, che la band ha mostrato quasi ad ogni nuova uscita, ne hanno reso intrigante e imperdibile anche il resto della sua carriera. Sin dal successivo Chrome, disco indicato da molti come apice – in alternativa a Ferment - della produzione del gruppo del Norfolk, o quantomeno quello in cui ha mostrato la sua vera faccia. A conti fatti, si può tranquillamente convenire con coloro che lo descrivono come una via di mezzo tra le varie versioni dei Wheel. E’ peraltro un lavoro che vanta fan d’eccellenza: i Death Cab For Cutie e gli Interpol, ad esempio, che hanno confidato a Dickinson in persona che senza questo disco non sarebbero mai esistiti.
Suona un po’ strano introdurre anche il secondo Lp dei Catherine Wheel partendo da chi lo ha prodotto, piuttosto che dagli intenti della band, ma è probabilmente proprio questa la strada migliore per chiarificare le intenzioni dei Catherine Wheel al momento dell’ingresso in studio per la realizzazione di Chrome. Tim Friese-Greene, e con lui il suo approccio alla materia rock da impressionista, la sua produzione sgranata e tutto il resto che aveva reso Ferment così particolare, vennero messi da parte a favore di Gil Norton. Prima di incontrare la band di Rob Dickinson, il produttore di Liverpool aveva lavorato con, tra gli altri, Echo And The Bunnymen, Pixies e China Crisis, mostrandosi dunque molto a proprio agio con suoni più corposi, epici e talvolta violenti. Tutt’altra storia rispetto ai giochi di trasparenze e controluce di Friese-Greene.
“Kill Rhytm” apre il disco ed è, da questo punto di vista, perentoria. Certo, il modo in cui Rob canta le strofe è ancora dolente e fluttuante, ma le chitarre ringhiano riff da guerra e la sezione ritmica è uno schiacciasassi. Anche il ritornello, “Five years of nothing good/ And still screaming/ Shout, get this secret out/ Deep, distant and pure”, viene urlato con maggior sicurezza, anche grazie al rilievo offertogli dal mix, che ai tempi di Ferment tendeva a schiacciare, opprimere la voce. Segue “I Confess”, che, non fosse per l’impetuosa cavalcata metal intentata dalle chitarre che la spacca in due parti, rimanda molto da vicino i “vecchi” Wheel. Vale lo stesso per lo splendido singolo “Crank”, canzone ossessiva e morbosa, ma addolcita in varie parti da una linea di sintetizzatore agrodolce. Nonostante il suo forte potenziale atmosferico, è proprio quest’ultimo il pezzo che avrebbe lanciato definitivamente la band presso il pubblico americano.
“Broken Head” è invece un brano dalla violenza inaudita, prima una chitarra acuminata e arrugginita si fa spazio tra le tue meningi, poi Dave Hawes comprime il suo basso con mille effetti e mima un terremoto. “Ursa Major Space Station” ha un titolo – rubato a una pedaliera per chitarra - che sembra volersi mettere in contatto con un’altra celebre stazione spaziale varata quell’anno, la “Souvlaki Space Station”, ma trasmette i suoi messaggi in un linguaggio completamente diverso da quello degli Slowdive. Le sue frequenze sono infatti sintonizzate sulla lunghezza d’onda delle schitarrate granitiche dei primi Soundgarden.
Insomma, Chrome fa un sacco di rumore, o perlomeno non lo bilancia con melodie come riusciva in Ferment, ma non manca di qualche momento più riflessivo e più propriamente atmosferico. È il caso della ballad “Pain” e, soprattutto, di “Fripp”. Sette incredibili minuti di visioni subacquee, con il cantato che galleggia tra tastiere futuristiche e chitarre che strisciano per i fondali come murene. È una canzone sofferta, imbevuta di desideri irrisolti, ma la sua forte inclinazione sperimentale e il suo titolo non lasciano adito a dubbi: si tratta di un sentito omaggio a Robert Fripp. Quanto i Catherine Wheel siano legati indissolubilmente al buon vecchio rock psichedelico sarebbe apparso ancora più chiaro al momento della release di Adam And Eve. L’andamento flottante e la sensazione di sospensione trasmessa da “Fripp” richiamano anche la splendida copertina, uno scatto in una piscina indoor ad opera di Storm Thorgerson della Hipgnosis design company.
Chrome è a tutti gli effetti un disco di transizione, dallo shoegaze degli esordi a un assetto sonoro più duro e definito. Un disco che inizia a recidere il cordone ombelicale che legava i Catherine Wheel alla natia Gran Bretagna, avvicinandoli all’alternative americano col grugno della prima metà di anni 90. Al contrario di quanto però accade in genere con i dischi di passaggio, è proprio nel suo essere un disco di transizione che Chrome trova completezza e, soprattutto, unicità.
Sebbene molti fan della prima ora lo addebitino già a Chrome, è con il disco successivo, Happy Days del 1995 che i Catherine consumarono il loro “tradimento” ai danni dello shoegaze. Gil Norton fu confermato alla produzione e questa volta gli fu chiesto di calcare ancor più la mano in direzione Seattle. A sentire il trittico iniziale – “God Inside My Head”, “Waydown” – accompagnata da un iconico videoclip ambientato su un aereo in caduta - e “Little Muscle” – pare quasi che qualcuno sia passato armato di spugna a rimuovere ogni traccia dei feedback e dei fumosi riverberi che aleggiavano come fantasmi furiosi negli episodi precedenti del catalogo. La chitarra di Futter è affilata, infierisce sulle sue prede con colpi precisi e non sbava; Rob canta con una pienezza finora inaudita, declama i testi con forza e irruenza, ma non manca di agitarsi e sbraitare più disordinatamente.
Da un punto di vista commerciale, l’operazione funzionò abbastanza, tant’è che fu conquistata un’agognata posizione nella Top 200 di Billboard, ma da quello artistico la faccenda Happy Days non convinse oltremodo. I riff non erano poi così personali, di giri del genere all’epoca ne uscivano ogni giorno a pacchi. In più le canzoni sembravano ricalcare sempre la stessa struttura, con Dickinson pronto, a un certo punto, a ripetere ogni titolo come un ossesso, in attesa di uno o due assoli ipercinetici di chitarra.
Se i primi tre brani del lotto ancora funzionano, è verso metà scaletta che la situazione inizia a farsi più piatta, con fiacchi tentativi radiofonici come “My Exhibition” o “Love Tips Up”. È anche interessante osservare come i brani più melodici di Chrome fossero, sebbene meno modaioli, senz’altro più radiofonici.
Va molto meglio con “Judy Staring At The Sun”, dove l’ospite Tanya Donelly – Throwing Muses, Breeders, Belly – bilancia la mascolinità ferina di Dickinson con il suo controcanto limpido e zuccherino – questo è quanto accade nella versione presente nel disco, mentre in quella - ottima - del singolo, la Donelly canta l’intera seconda strofa. Molto interessanti anche i momenti più dilatati e contemplativi del disco, che, almeno in parte, ne rappresentano anche i più preziosi. “Eat My Dust You Insensitive Fuck” è un numero intrigante, che prova a replicare il magico limbo di “Fripp”, aggiungendo al mix un’armonica lamentosa, ma è la ballad “Heal” la vera perla del disco. È lì che per un momento tornano non solo i riverberi, ma anche il maestro Tim Friese-Greene per un fantastico assolo di organetto. “Happy Days” ha segnato anche, nel corso della sua realizzazione, il passaggio della band da Fontana a Mercury, casa discografica con la quale sarebbero stati apparentati fino ad Adam And Eve.
1996 – 2000: dal ritorno all’atmosfera allo iato
Più o meno un anno dopo, la band pubblicò Like Cats And Dogs, una raccolta di B-sides and rarities che quasi rinnegava completamente i suoni del terzo disco. La compilation suona infatti molto rilassata, incline ad atmosfere nebbiose piuttosto che a riff bellicosi e scatti d’ira. Per trattarsi di una raccolta di scarti, presenta anche una qualità molto alta, tanto che vale la pena citarne qualche episodio. E’ certamente il caso della opening “Heal2”, una ballata elettrica scolpita da chitarre calde e corpose che ricordano il tocco di Slash, o quello della lunga “Girl Stand Still”, che nel corso dei suoi otto minuiti arriva a lambire territori post-rock. E poi c’è la cover di “Wish You Were Here” dei Pink Floyd, che, adombrata da un'armonica malinconica, è praticamente un’indicazione di quanto sarebbe successo di lì a poco.
Il lunghissimo Adam And Eve (un’ora e due minuti) non solo conferma il ritorno della band a sonorità più distese e avvolgenti, ma ne esplora più a fondo le potenzialità psichedeliche, mai così chiare prima d’ora. I Pink Floyd – in particolare quelli del periodo “Wish You Were Here” - sono certamente il faro, l’orsa maggiore dei Catherine Wheel psichedelici, la band della quale hanno logorato i vinili da adolescenti. E quindi la raffinata “Future Boy”, l’intensa “Phantom Of The American Mother” e la dolcissima ma incalzante “Ma Solituda”, tutte riflessioni su solitudine e incomunicabilità dell'uomo moderno, sono imperniate su densi giri di chitarra acustica dal sapore metallico, tastiere spaziali, organetti e chincaglierie psych assortite. Non si tratta, però, di plagio o di mera rievocazione: Dickinson e i suoi maneggiano la materia floydiana con perizia e la piegano ai tempi correnti e alla loro mai sopita attitudine shoegaze.
Adam And Eve è però anche un disco estremamente vario, che recupera i suoni migliori di ogni fase della carriera della band. Prima che sveli il suo potenziale contemplativo e psichedelico; piazza infatti due dei brani più energici e smaccatamente radiofonici dei Wheel. “Broken Nose” e “Delicious” sfoderano ancora una volta chitarroni e ritornelli facili facili, ma con molta più ispirazione che in “Happy Days”. Qualche problema arriva sul finale, dove la maggior parte dei brani si inerpica in finali tirati un po’ troppo per le lunghe (“Goodbye”, “For Dreaming”).
È comunque un disco valido, che svela un’ulteriore anima del gruppo, un’opera da ascoltare, fosse anche solo per avere una visione completa delle sue sfumature e potenzialità. Da segnalare anche che Adam And Eve è uscito nel 1997 soltanto negli Stati Uniti, per l’Europa si sarebbe dovuto aspettare il 1998, anno in cui i Wheel sarebbero approdati per la prima volta in Italia per un tour condiviso con i Simple Minds.
E con questo è, purtroppo, quasi tutto. Wishville del 2000 è un disco - mi si perdoni l’aggettivo duro - superfluo. Uscito per Columbia a nome The Catherine Wheel – nei vecchi lavori il nome della band non presentava l’articolo - il lavoro numero cinque degli inglesi appare sin dall’inizio disorientato e un po’ raffazzonato. “Sparks Are Gonna Fly” è un’americanata senza né capo né coda, segue la più evocativa “Gasoline”, brano che cerca di recuperare il mix di ingredienti di Adam And Eve. La sensazione infatti è quella che la band abbia provato a ripetere l’operazione intentata con successo con il disco precedente, ma laddove quest’ultimo riusciva grazie a una coerenza di fondo e all’interessante storytelling ad amalgamare elementi discordanti, Whishville appare come un puzzle frenetico ed episodico. Certo, una band come i Catherine Wheel non poteva sbagliare nove canzoni su nove e quindi qualche episodio capace di sollevare un minimo interesse si trova. Svetta tra questi “All Of That”, una ballata a intermittenza, basata su dissonanze di chitarre e tastierine saltellanti.
Probabilmente qualcosa si era guastata già prima della realizzazione di Whishville: il talentuoso bassista Dave Hawes, infatti, non volle parteciparvi. Fatto sta che l’episodio conclusivo di questa avvincente saga di shoegaze da esportazione è anche il suo peggiore. Non può tuttavia scalfire il lascito di un’esperienza musicale peculiare, che meriterebbe di essere accostata più spesso, in termini di rilievo in ambito shoegaze, ai percorsi dei vari Ride, Slowdive e My Bloody Valentine.
Ferment(Fontana, 1992) | |||
Chrome(Fontana, 1993) | |||
Happy Days(Mercury, 1995) | |||
Adam And Eve(Mercury, 1997) | |||
Wishville(Columbia, 2000) |