Mezzo minuto di silenzio; ma un silenzio oscillante, pregno di una vibrazione che tende e sospende. Inizia così, con il ronzio sommesso di un amplificatore per chitarra con effetto vibrato, il capolavoro e testamento dei Talk Talk, "Laughing Stock". La band di Mark Hollis, che in questa occasione è in effetti composta per lo più da musicisti occasionali agli archi e ai fiati, pubblica nel 1991 il seguito all'altro imprescindibile album che è "Spirit Of Eden" del 1988, disco forse ancora più importante di questo, almeno dal punto di vista storiografico - dato che per primo scardina le basi del pop rock in una formula completamente nuova nelle strutture e nei suoni, dando probabilmente il la a quello che di lì a qualche anno sarebbe stato chiamato "post rock"; ma è proprio con "Laughing Stock" che il percorso compiuto fino a lì viene portato alle estreme, e inevitabili, conseguenze, raggiungendo la perfezione formale e sostanziale in sei tracce di immensa profondità e rarefazione.
Mezzo minuto di silenzio, dicevamo; e poi un accordo, liquido e riverberato, e l'inconfondibile voce di Hollis a tratteggiare i primi schizzi dell'affresco: "Place my chair at the backroom door". È un ingresso in sordina, dalla porta sul retro appunto, è una musica che bisogna sforzarsi di seguire nei suoi vuoti per poter godere davvero dei suoi pieni. "Una nota è meglio di due, e nessuna è meglio di una" amava ripetere all'epoca il cantante e compositore. "Myrrhman" si dipana così, senza che ci se ne accorga, senza che si riesca a capire dove ci vuole portare, tra il singhiozzo triste di Hollis, la sua chitarra che tratteggia macchie impressionistiche di suoni, e qualche accenno di tromba e di percussione; e poi, senza soluzione di continuità (ma con un cambio armonico poco prevedibile) ci fa intravedere un mare ancora più calmo e rarefatto, composto da un tappeto di archi sottili e levigati sui quali un oboe lontano tratteggia una melodia di profonda malinconia. Pochi secondi di questo paradiso in penombra, e tutto si spegne, senza dar modo di abituarcisi: è già un vertice, una vetta da cui osservare, solitari, il mondo sotto di noi.
"Ascension Day" è l'altra faccia di quel paradiso. Percussiva (anche se in modo molto lontano dal batterismo rock, e più vicina a un jazz psichedelico) e chitarristica (una chitarra evidente e in primo piano, in overdrive e dai toni acidissimi, davvero lontanissima da quello a cui i Talk Talk, come tutti i gruppi degli anni 80, ci avevano abituato), si snoda su un incedere in 7/4 lasciando spazio solo nel breve "ritornello", se così si può chiamare un fugace passaggio che si ripete un paio di volte, a uno sprazzo organistico di evocativa, e immediata, bellezza. Il giorno dell'Ascensione, che però serba ben poco di celestiale ("Bet I'll be damned/ Built the debt I turned twos up today", "Kill the bed/ I'll burn on Judgement day"), dura esattamente sei minuti, l'ultimo dei quali dedicato a un marasma sonoro con la chitarra di Hollis a sferzare, fuori tempo, un lavoro batteristico di potenza devastante tra rullate e piatti sparati in faccia; e poi, di colpo, il silenzio, a lasciarci fluttuare sospesi nel vuoto con in testa ancora la eco di quel muro di suono. È fisiologico, adesso, un attimo di smarrimento; ed è provvidenziale, in questo disco in cui ogni singolo respiro, ogni singolo secondo di musica o silenzio è perfettamente calcolato, che "After The Flood" (piace immaginare che quel "flood" sia anche il cataclisma appena conclusosi) inizi arrivando da lontano e insinuandosi pian piano nelle orecchie e su fino al cervello. Sono due piccole, minuscole frasi ascendenti di organo che si intarsiano l'una con l'altra, a dipingere un'oasi di serenità e allo stesso tempo di smarrimento, su un ritmo stavolta semplice e diritto (ma resta sempre il suono, della batteria, a fare la differenza; soprattutto, il tempo tenuto quasi sempre sul ride anziché sul charleston, a sfocare il battito e a renderlo così piacevolmente jazzy), fino a infrangersi nel refrain - stavolta più evidente - che lascia trapelare, ancora una volta, l'angoscia sottile che permea tutto il lavoro, e che il tremolare insicuro e nasale del timbro di Hollis sottolinea. Si fatica ad accorgersi che c'è qualcuno che canta, nessuna melodia si fissa inizialmente in testa, fino ai terribili versi del ritornello "Shake my head/ Turn my face to the floor/ Dead to respect, to respect to be born/ Lest we forget who lay"; e per ben dieci minuti il brano scivola via, su quella che per contro è probabilmente la struttura più facilmente assimilabile di "Laughing Stock", impreziosita da gemme organistiche e vocali di grande caratura.
Il secondo lato del long playing (perché, sì, allora c'erano ancora i long playing) è di nuovo nel segno della rarefazione, ancora più marcata stavolta. "Do you die in sin or born again?"... poche note, a dir poco minimali, di chitarra, e di nuovo una voce stentata a narrare di morte e rinascita, e poi di nuovo di morte, in un cerchio senza fine e con immagini decisamente criptiche ma di grande impatto. Diversi minuti scorrono così, tra il nulla e il molto poco, per poi lasciare spazio a un altro nulla, a un altro molto poco, fatto di ombreggiature e dissonanze di trombe e archi. I toni qui sono scuri e sinistri, non c'è nulla di celestiale; ma neppure di infernale, troppo sommessi i dolori, troppo rarefatte le angosce. Questo è il limbo, dove si fluttua nell'attesa eterna di un giudizio definitivo.
E, poi, il giudizio definitivo arriva. È qui il paradiso, è nei nove minuti e quarantasei secondi di "New Grass"; è qui il volo, è qui il senso di tutto. È il paradiso triste di chi non capisce, di chi non finisce di stupirsi, di chi vorrebbe arrendersi ma non ne è capace; o forse, dipende magari dall'angolo da cui si guarda, di chi non vorrebbe arrendersi ma non sa fare altro. È un battito continuo in 3/8, raid e rullante appena sfiorati; è un origami chitarristico di cinque, forse dieci note, limpide come l'aria, ripetute all'infinito; è una progressione di leggeri e poveri accordi di pianoforte, discendenti come una testa che si china; è qualche intarsio, qui e là, di poche note di organo, a socchiudere uno spiraglio e a far entrare un po' di luce dall'alto, per poi richiuderlo subito su se stesso; è qualche frase sparpagliata sul tappeto di sensazioni dipinte con la musica, una musica universale, senza tempo, o meglio di ogni tempo. "Someday Christendom May Come", canta Mark, e sembra non ci sia nulla di più ovvio, ascoltando questo frammento di grazia, capitato, non si sa come, alle nostre orecchie sotto forma di sequenze e frequenze.
Poi, "Runeii" ad assolvere il difficile compito di svegliarci dal sogno; ma "Runeii" preferisce invece farci scivolare in un sonno più profondo, dove la disillusione è la stessa ma, forse, colpisce meno traumaticamente. Di nuovo, minimalismo allo stato puro, le mani di Hollis che scivolano sulla chitarra come la sua voce sulle parole, e che chiudono l'album con poche note che si spengono su loro stesse, come i fiori che col buio ritirano i loro petali. È di nuovo notte.
12/11/2006