Perché escludemmo l’Italia dallo speciale sull'“altro prog”?
In uno dei precedenti capitoli di questo sito riguardanti la storia del rock, intitolato “
L’altro prog”, si è puntato l’obiettivo sul
prog prodotto in paesi del mondo non appartenenti all’impero culturale anglofono. Fra gli esentati dall’approfondimento, oltre agli ovvi Gran Bretagna e Stati Uniti, figurava anche l’Italia. La scelta fu di natura pragmatica: l’articolo mirava infatti alla riscoperta di album che hanno caratterizzato le realtà ritenute (talvolta a ragione, molto più spesso a torto) periferiche.
La critica e il giornalismo riguardanti la musica popolare sono da sempre incantati da Gran Bretagna e Stati Uniti come un cobra dal suonatore di pungi. Anche nazioni di enorme rilevanza culturale come la Francia o la Germania sono considerate periferiche, figurarsi quindi il sud est asiatico, l’America del Sud, o l’Europa orientale, solo per nominare alcune fra le zone trattate in quell’occasione. Sono pochissimi gli artisti non anglofoni capaci di imporsi all’attenzione internazionale degli addetti ai lavori.
Se l’Italia venne esclusa fu perché, in questo specifico campo, l’ottuso automatismo che vuole qualsiasi nazione non anglofona inferiore per definizione, non si attiva. La scena prog italiana è, con ogni probabilità, la più collezionata al mondo dopo quella britannica, e batte di gran lunga quella statunitense (certo, gli Stati Uniti di prog non ne produssero poi molto).
È indicativo che nel database più noto della rete riguardante il rock progressivo, Progarchives, l’Italia sia uno dei due soli paesi – l’altro è la Germania del
krautrock – a vantare una sottocategoria a proprio nome: un titolo a cui la Gran Bretagna non poteva aspirare, in quanto madre del
prog e di quasi tutte le sue diramazioni (si dà per scontato che le varie correnti, eccetto dove specificato, provengano da lì), mentre le altre nazioni non potevano in quanto le loro scene non sono abbastanza considerate.
Contando che il krautrock è da molti ritenuto – e con forti argomenti a supporto – un genere a parte, il “rock progressivo italiano” assume un ruolo ancora più centrale nella sua peculiarità autoctona. Appare quindi ovvio quanto un paese così importante per lo sviluppo del prog, e con un tale livello di notorietà presso gli appassionati, fosse inadatto a far parte di un testo che mirava alla rivalutazione di realtà che la critica occidentale non ha ancora celebrato.
(F. Romagnoli)
Progpolitik Perché proprio nel nostro paese si è sviluppata una scena prog tanto imponente? Dare una risposta chiara e circoscritta è un’impresa, trattandosi di un intrico di motivazioni, un rimbalzo perpetuo fra contingenze politiche e artistiche, che spazia dall’interscambio fra partiti e base elettorale alla struttura del mercato musicale.
Il rock progressivo nel mondo anglofono non aveva indirizzo politico: poteva avere funzioni di commentario sociale (i
Jethro Tull che cantano il bistrattato
clochard Aqualung, i
King Crimson e l’uomo schizoide del ventunesimo secolo), che quasi mai assumevano tuttavia posizioni radicali o colori politici fortemente connotati. La maggior parte del genere si interrogava su filosofia (
Moody Blues) e spiritualità (
Yes), o ancor più frequentemente inventava scenari fiabeschi di completa evasione dalla realtà, quasi in reazione alla stagione della psichedelia e della ribellione sociale, un sogno considerato fallito. Il Rock In Opposition non fa praticamente testo: prese forma quando il prog stava ormai decadendo e rimase un fenomeno marginale e del tutto sotterraneo.
In Italia la neutralità politica del prog non venne percepita, probabilmente anche a causa della scarsissima conoscenza dell’inglese che caratterizzava all’epoca la nostra nazione. Venne invece percepita la sua capacità di destrutturare la forma canzone imperante. Canzone che veniva frantumata e allungata, privata dei tipico baricentro strutturale composto dalla precisa alternanza di strofa e ritornello, seguendo tempi inusuali e divagazioni strumentali fino a quel momento inedite. Se si analizza la struttura musicale dei dischi prog, il suo potere anarchico – in quanto formalmente contrario a una ricetta fino a quel momento dominante il proprio mercato di riferimento – è evidente, e per essere percepito non necessita della comprensione dei testi.
Non è difficile intuire il “due più due” generato in Italia da questa percezione prettamente musicale, privata del contorno dei testi: se la musica si scaglia contro l’ordine costituito, è ovvio che sia l’opera nel complesso a farlo.
Il nostro era il paese democratico con il più grande partito comunista d’Europa, senza contare certe clamorose azioni della sinistra extraparlamentare, e l’ideologizzazione della musica ha segnato l’intellighenzia e i movimenti studenteschi degli anni Settanta: gli episodi e gli aneddoti narrabili al riguardo sono innumerevoli, dal boicottaggio contro
Lou Reed al processo a
De Gregori, dalle accuse di fascismo rivolte a
Lucio Battisti al dilagare di festival e radio indipendenti. In un simile contesto, il prog aveva terreno fertile per fiorire, e fiorì nella sua dimensione più verace e impegnata.
La connotazione politica stimolò addirittura un dialogo interno al genere: gli Alphataurus per esempio erano smaccatamente cattolici e di probabili simpatie democristiane, così come si vocifera fossero le
Orme (tuttavia abbastanza moderati da non scoprire mai il fianco al riguardo).
In Gran Bretagna un simile meccanismo di interscambio politico fra i vari esponenti del movimento, e fra questi e il proprio pubblico di riferimento, non avvenne mai.
Sarebbe però potuto avvenire in Francia, il paese che secondo molti storici ci è più vicino dal punto di vista culturale, la nostra grande sorella europea, l’unica altra nazione democratica che, all’alba della stagione prog, fosse dotata di un fortissimo partito comunista. Tuttavia non avvenne, per questioni endemiche del mercato musicale locale.
La Francia fino a quel momento era praticamente immune ai complessi musicali. Il mercato era dominato, e lo sarebbe rimasto ancora a lungo, dai solisti. Gli
chansonnier monopolizzavano la sfera della canzone politica e sociale, il French Pop occupava la frangia più sbarazzina e giovanile,
Beatles e
Rolling Stones non avevano lasciato epigoni locali come invece in molti paesi del mondo.
Con una tale supremazia della figura del cantante solista, è difficile imporre un movimento impregnato sulla divagazione strumentale. Il prog sbarcò quindi in Francia, riuscì persino a ritagliarsi una sua nicchia (tutti i dischi degli Ange superarono le centomila copie vendute), ma da qui a invadere le università, i circoli, le feste di partito e la radiotelevisione di stato, come avvenne qui in Italia, il passo era lungo. La stagione beat italiana – con i vari Equipe 84, Dik Dik, Camaleonti e Giganti – aveva di fatto mantenuto fertile una fetta di mercato che in Francia sarebbe rimasta congelata fino alla
new wave di Téléphone prima e
Indochine poi (comunque rimanendo minoritaria). Del resto, pure guardando indietro, l’Italia era stato il paese di Quartetto Cetra e Trio Lescano, mentre la Francia quello di Édith Piaf e Charles Trenet.
Il paragone fra Italia e Francia spiega come mai, in una condizione politico-sociale assimilabile, una abbia prodotto una scuola prog capace di recare un forte contraccolpo nella cultura locale e l’altra no. Tolta la Francia, non c’erano nazioni nella nostra stessa situazione: la Spagna, l’America Latina, l’Europa orientale e il Sud Est asiatico erano tormentati dalle dittature, mentre il Giappone era un paese fortemente orientato a destra, con una struttura sociale molto rigida e meno incline alla discussione politica.
(F. Romagnoli)
Quantità o qualità?
Le precedenti sezioni non miravano a dimostrare la superiorità della scena italiana sulle altre, bensì i suoi maggiori impatto e capillarità. Non si tratta però solo di aver penetrato tanto a fondo la fascia giovanile della società dell’epoca da aver generato musicisti con quell’indirizzo in ogni luogo della penisola, anche nei più sperduti paesi di provincia (benché poi, per trovare sbocchi, dovessero migrare nelle grandi città). La situazione è più complessa.
Stando a Progarchives, in Italia negli anni Settanta vennero pubblicati 212 dischi in qualche modo rientranti nell’universo prog, e la Francia è l’unico paese che possa paragonarsi, pur patendo già un notevole distacco (si ferma a 177). Se si guarda poi l’impatto sulle classifiche locali non c’è paragone. Da una parte il peso massimo sono stati i già citati Ange, con i Malicorne come unico altro nome di rilievo, mentre in Italia le Orme sono stati la seconda band più venduta del decennio dopo i Pooh, ma anche
Premiata Forneria Marconi e
Banco del Mutuo Soccorso si sono comportati molto bene. Quanto al prestigio attuale, solo i
Magma fra i francesi si possono paragonare ai nostri grandi nomi.
È questo che ha probabilmente reso la nostra scena tanto appetibile agli occhi dei collezionisti di tutto il mondo: la spropositata quantità di materiale da cui poter attingere combinata all’aura di prestigio data dalla nomea di “paese dove il progressive era mainstream”. La cosa è effettivamente documentabile, contando che non solo le nostre band ma anche quelle straniere andavano benissimo:
Emerson Lake & Palmer e
Jethro Tull hanno dominato le classifiche italiane più di quanto non siano riusciti a fare con quelle britanniche, ma siamo stati capaci di farvi comparire anche
Gentle Giant e
Van Der Graaf Generator, autentici fantasmi in patria.
È però qui che casca l’asino: la presenza di diversi nomi capaci di incunearsi con forza nella gioventù italiana dell’epoca ha fatto da riflesso anche ai nomi del sottobosco, che rimanevano la stragrande maggioranza. Così, si è iniziato a scavare alla ricerca di band il cui merito era sostanzialmente quello di essere italiane nello stesso periodo in cui esistevano Orme, Banco e Pfm, interpretando poi eventuali somiglianze con quest'ultime come ulteriore sigillo di qualità. Ne è risultata una serie infinita di “ritrovati graal”. Quei graal erano spesso dischi che, all’epoca della loro uscita, vennero stampati in poche migliaia di copie e non generarono interesse alcuno nel pubblico nostrano. Totalmente dimenticati anche dagli addetti ai lavori italiani, vennero riscoperti per caso da qualche appassionato giapponese, mercato da sempre dedito alle ristampe di rarità esotiche, e riproposti. Quando la notizia arrivò in Italia, si saltò sul carro del vincitore, e con un po’ di ipocrisia nazionalista si sfoggiò l’evidenza di una scena tanto valida che “ce la invidiano anche i giapponesi”. Scena tanto valida che però, gli stessi giornalisti che ora la utilizzavano come clava campanilistica, avevano trascurato fino a quel momento. Dischi che oggi sono visti come classici assoluti e sono sulla bocca di ogni appassionato di rock progressivo, erano misconosciuti prima che ce li riproponessero dalla terra del Sol Levante. Questo non significa che alcuni di essi non meritino una riscoperta, ma che la meritino tutti dal primo all’ultimo, come giurano molti collezionisti, risulta quantomeno sospetto.
La guida che seguirà si è prefissata di discutere cinquanta titoli rappresentativi del prog italiano: si sarebbe potuto estenderla di molto, volendo coprire tutto ciò che venne pubblicato, ma col solo risultato di proporre al lettore una valanga di materiale scadente, spesso maldestra imitazione di quanto già selezionato.
Cinquanta titoli sono peraltro già uno sproposito: se contiamo che per “L’altro prog”, comprendente quasi tutto il mondo, ci si è fermati a centocinquanta, una lista italiana tanto lunga potrebbe in apparenza confermare lo stereotipo di debordante superiorità su qualsiasi altro paese all’infuori della Gran Bretagna. In quella precedente guida, il paese più rappresentato fu la Francia con tredici album, seguito da Svezia e Spagna, con undici a testa. Se qui se ne contano cinquanta, non è perché si ritenga la scena italiana superiore a quelle tre messe insieme, ma sostanzialmente perché: primo, un pubblico italiano potrebbe più facilmente lamentare eventuali assenze, conoscendo meglio la nostra scena rispetto a quella svedese; secondo, il rock progressivo italiano vanta – per tutti i motivi illustrati finora, e non per “iperuranica” superiorità come in tanti credono – molti più dischi di culto rispetto a quelle scene. Dischi di culto che quindi vanno discussi già solo per il fatto di essere tali, indipendentemente dalla loro qualità, che talvolta ha evidenti limiti.
Dopodiché, non si vuole neanche essere distruttivi: non tutte le band presentate di seguito saranno state straordinarie, ma diverse lo furono eccome. Come al solito la verità emerge dalla moderazione e dalla lucidità: l’Italia ebbe certamente una splendida scuola di rock progressivo. Basterebbe mettersi in testa che non fu l’unica però, né per forza la migliore (anche perché, è poi così necessario stabilirne una migliore?), né da far crepare di invidia – come qualcuno sostiene – altre scene a loro volta floride.
(F. Romagnoli)
I cinquanta dischi
Tarda psichedelia e proto-prog
La stagione psichedelica che ha infuocato le generazioni angloamericane nella seconda metà degli anni Sessanta, penetra in Italia solo marginalmente. La generazione italiana dell'epoca è decisamente più legata alla musica beat, ma il passaggio al prog è rapido e indolore (si pensi alla metamorfosi dei Giganti, nel giro di poco più di un anno). Se dovessimo intravedere, tra le nebbie del tempo, un album che può definirsi un perfetto punto di congiunzione tra tarda psichedelia e neonato prog, questo potrebbe essere l’esordio omonimo dei Trip (1970), ancora legato alle sonorità anni Sessanta, ma vicino alle nuove sperimentazioni dei
Pink Floyd e con uno sguardo timido ai primi due album dei
King Crimson. Un anno dopo, un’altra delle band fondamentali della scena, gli
Osanna, esordiscono con “L’Uomo”, album più maturo, ma ancora certamente al confine tra due mondi (psichedelia e prog) in fase di definizione.
(V. D'Onofrio)Trip - The Trip (1970)
L’avventura dei Trip del cantante e tastierista Joe Vescovi è una delle più interessanti e pionieristiche dell’Italia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Savonese di nascita, Vescovi è protagonista di uno degli episodi più curiosi e divertenti del nostro racconto. Entra infatti a far parte della band dopo l’abbandono di
Ritchie Blackmore, futuro
Deep Purple. L’omonimo album d’esordio dei nuovi Trip è quindi un lavoro pionieristico e innovativo, che può essere preso a esempio come incubatore della scena progressiva italiana. Ancora squisitamente psichedelico, “The Trip” del 1970, contiene i germi di una nuova visione del rapporto tra musicista e ascoltatore, un approccio altro all’ascolto, una maggiore complessità compositiva, influenzata anche dai primissimi album di
krautrock (l’
intro cosmica di “Prologo”), con ancora reminiscenze
hendrixiane. La band si dedicherà con decisione al rock progressivo solo successivamente, con i notevoli “Caronte” (1971) e “Atlantide” (1972).
(V. D’Onofrio)
Giganti - Terra in bocca (1971)
I Giganti si sono fissati nell'immaginario di una generazione con canzoni che oggi appaiono tremendamente naive, quali "Tema" e "Proposta". Tuttavia, raggiunsero un inaspettato picco di serietà nel 1971, con questo album, rock opera fra le prime pubblicate in Italia. I testi di Pietro De Rossi, giornalista e amico della band, narrano una storia di morte e violenza nella Sicilia piegata dalla siccità, con cosa nostra a tramare e a gestire l'acqua da dietro le quinte. La mafia non viene mai indicata per nome, ma i versi sono inequivocabili: "Lunedì, sparatoria nel mercato del pesce. Martedì, col tritolo fan saltare una casa. Mercoledì, in campagna hanno ucciso un pastore. Giovedì, han gettato l'autobotte dal molo" eccetera eccetera. Le musiche, arrangiate da Vince Tempera, rilevano ancora qualche lieve scoria beat, ma fra Mellotron, raffinate armonie vocali, e divagazioni strumentali a metà fra sinfonismo e jazz-rock, l'appartenenza del disco all'universo prog non è in discussione.
(F. Romagnoli)
Osanna - L’uomo (1971)
L'esordio degli Osanna può considerarsi, insieme a quello dei Trip, l'anello di congiunzione tra la stagione psichedelica e i primi vagiti progressive. Gli Osanna sono il principale gruppo della variegata scena napoletana che, nei primi anni Settanta, ha creato un modo altro di intendere la musica progressive. Formati dal cantante e chitarrista Lino Vairetti, dal chitarrista Danilo Rustici (fratello di Corrado dei Cervello), dal bassista Lello Brandi, dal batterista Massimo Guarino e dal sassofonista e flautista Elio D'Anna, discepolo di David Jackson dei Van Der Graaf Generator, esordiscono nel 1971 con "L'uomo", un perfetto esempio di pop psichedelico che diventa prog, soprattutto nell'iniziale "Introduzione", strumentale pionieristico in Italia, a cui seguono una serie di brani di elevata complessità con testi che fanno da preludio alla filosofia legata ai più autentici bisogni dell'uomo, che vedrà in "
Palepoli" il suo punto di arrivo.
(V. D’Onofrio)Le collaborazioni con BacalovUn altro elemento che sottolinea la vicinanza del prog italiano alla musica classica è la ripetuta e fortunata collaborazione del compositore pianista argentino/italiano Luis Bacalov, già noto in Italia per la sua vicinanza al mondo del pop. In epoca di
colonne sonore per film di genere scritte da grandi compositori come
Ennio Morricone o
Franco Micalizzi, era prevedibile il confronto tra questi due mondi solo in apparenza difficilmente conciliabili. La collaborazione inizia con il “Concerto Grosso” dei New Trolls (1971), prosegue con “Milano Calibro 9” degli Osanna (1972) e termina con i Rovescio della Medaglia in “Contaminazione” (1973). Nel 1976 verrà riproposta con il “Concerto grosso n. 2” dei New Trolls.
(V. D’Onofrio) New Trolls - Concerto grosso per i New Trolls (1971)
I New Trolls erano già stati autori di un disco più ambizioso della media del beat italiano, quale "Senza orario senza bandiera", con testi del poeta Riccardo Mannerini (adattati da
Fabrizio De André) e arrangiamenti di Gian Piero Reverberi. Non stupisce, quindi, che saltino sul carro del rock progressivo una volta giunta l'ora. "Concerto grosso" è una composizione barocca, divisa in quattro tempi, e mostra un tentativo di coniugare mondi diversi che, pur miscelandosi, restano sempre se stessi. Con poetiche citazioni shakespeariane ("Amleto"), assoli
hendrixiani e gli archi sinfonici di Luis Bacalov, quest'album è probabilmente uno dei vertici di un tipo di prog che ha visto la luce peculiarmente nel nostro paese. Chiude "Nella sala vuota - Improvvisazioni dei New Trolls registrate in diretta", venti minuti di divagazioni che ambiscono a essere tra le migliori e più fantasiose fra quelle registrate in Italia.
(V. D’Onofrio)
Il Rovescio della Medaglia - Contaminazione (1973)
I romani Rovescio della Medaglia sono stati una band dai suoni molto legati all’hard prog fin dai loro esordi, con “Bibbia” (1971) e “Io sono io” (1972), noti anche per le loro indimenticabili esibizioni live, sempre con volumi elevatissimi, grazie a un impianto di amplificazione avveniristico che purtroppo fu loro rubato nel dicembre del 1973. Poco prima del furto, sempre nel ’73, svoltarono verso suoni decisamente più vicini al rock sinfonico, chiamando a collaborare anche il compositore Luis Bacalov, qui giunto alla sua terza esperienza con band italiane. “Contaminazione”, fin dal titolo, fa comprendere la commistione tra musica classica e progressive che è chiara anche dalla storia raccontata nel concept, quella di un uomo che si sveglia convinto di essere Johann Sebastian Bach, che risulta essere l’influenza principale dell’album.
(V. D’Onofrio)
Le tre band maggioriNella storia del prog italiano tante band hanno pubblicato album significativi, anche se molto spesso isolati o all’interno di una breve carriera. Tre band invece hanno attraversato i decenni scrivendo pagine assolutamente peculiari. Gli alfieri della scena locale sono la Premiata Forneria Marconi, i Banco del Mutuo Soccorso e le Orme.
(V. D’Onofrio) Orme - Collage (1971)
L'opera seconda delle Orme, guidati dal
Aldo Tagliapietra (voce, basso, chitarre) e Tony Pagliuca (tastiere), fu il disco che portò a maturazione il rock progressivo italiano: la sua compattezza stilistica è impressionante rispetto agli altri album che nel 1971 si mossero in quella direzione, peraltro
– eccetto “Concerto grosso” dei New Trolls
– tutti successivi di qualche mese. Riguardo all'impatto culturale poi, il paragone non è neanche da porsi: "Collage" si ritrovò nel giro di pochi mesi al terzo posto in classifica e fu il primo di una lunga sequenza di successi per la band, aprendo così le porte a Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso, e via dicendo.
Fra i classici in scaletta la strumentale
title track, cavalcata dal sapore settecentesco con tanto di omaggio a Domenico Scarlatti, e "Sguardo verso il cielo", hit capace di stregare il primo programma della radio nazionale a suon di melodie epiche e sibili elettronici ottenuti col generatore di forme d'onda.
(F. Romagnoli)
Orme - Uomo di pezza (1972)
Tolti gli ovvi
Mina e Battisti, "Uomo di pezza" fu il vero caso discografico italiano del 1972, rimanendo al primo posto in classifica per sei settimane, e per nove mesi in top ten. Un riscontro dovuto inizialmente alla fama guadagnata nel corso dell'anno precedente, e in seguito alla pubblicazione della ballata "Gioco di bimba" come 45 giri. Come già "Collage", l'album venne prodotto da Gian Piero Reverberi, e contiene alcune fra le punte di diamante nel repertorio della band. In particolare, "Figure di cartone", arioso pop folk graziato da un iconico assolo di sintetizzatore, e "La porta chiusa", oltre sette minuti di psicotici cambi di andamento, divagazioni di organo elettrico distorto, e versi dalle atmosfere horror ("Come ogni sera sei sola nel buio, il tuo candore ti fa compagnia. Senti il fruscio sulla soglia e non sai chi sarà. Posi il giornale e ascolti in silenzio, chi sta bussando alla porta a quest'ora? Vorresti aprire e non sai come mai"). Copertina di Mac Mazzieri.
(F. Romagnoli)Orme - Felona e Sorona (1973)
Dopo il trionfo di "Uomo di pezza", Tagliapietra e Pagliuca decidono di pubblicare un
concept album, come di moda in quegli anni. Tessono così la storia di "Felona e Sorona", pianeti opposti e complementari: alla felicità dell'uno corrisponde la tragedia per l'altro, e viceversa, a seconda dei periodi, in un ciclo costante destinato a spegnersi soltanto alla fine del tempo, con il ritorno al nulla.
Le canzoni fluiscono l'una nell'altra senza pause e le atmosfere sono angoscianti, fra organi
bachiani, sintetizzatori imbizzarriti, staccato drammatici, sezioni ritmiche marziali, e ricami di piano che rimandano alle pagine più intimiste del romanticismo. La voce di Tagliapietra, acuta e insicura, sembra muoversi a tentoni nell'oscurità. L'iniziale "Sospesi nell'incredibile", vicina ai nove minuti, è il brano più lungo registrato fino a quel momento dalla band. Dell'album venne registrata una meno convincente versione in inglese curata da
Peter Hammil, senza cambiarne le basi strumentali.
(F. Romagnoli)
Premiata Forneria Marconi - Per un amico (1972)
Se in Italia "Per un amico" è sempre stato un po' eclissato da "
Storia di un minuto", a livello internazionale s'è invece imposto come il disco per antonomasia della Premiata Forneria Marconi. Basti vedere database come Progarchives o Sputnikmusic, o persino le liste di Rolling Stone (quello americano), per notare una tendenza piuttosto marcata. Il motivo non è difficile da intuire: in Italia "Storia di un minuto" rimane il disco che ha introdotto il Moog presso il grande pubblico, ma nei paesi anglofoni lo strumento era arrivato ben prima, ed è quindi ovvio che vengano maggiormente colpiti da "Per un amico", che mostra una personalità superiore, slegandosi dalle pesanti ingerenze di King Crimson e Jethro Tull. Si entra così in un universo a sé, situato da qualche parte fra rinascimento ("Appena un po'"), ritmi impossibili ("Generale") e ballate con divagazioni elettroniche ("Il banchetto"), capaci di impressionare nientemeno che
Greg Lake, di lì a breve attivo sostenitore della band.
(F. Romagnoli)Premiata Forneria Marconi - L’isola di niente (1974)
Terzo album di inediti della Premiata Forneria Marconi, "L'isola di niente" vede la formazione rimaneggiata per la prima di tante volte, con Patrick Djivas al basso in luogo di Giorgio Piazza. La title track si apre con due minuti di cori operistici, per poi scattare in una lunga cavalcata, con la chitarra di Franco Mussida più dura di quanto sia mai stata in passato e la batteria di Franz Di Cioccio che macina ritmi in tempi dispari. Le tastiere di Flavio Premoli ricamano epiche e barocche ("La luna nuova"), mentre spetta a Mauro Pagani variegare le tinte con violino e flauto (la ballata "Dolcissima Maria"). Il polistrumentista e arrangiatore Claudio Fabi affianca ancora una volta la band in sala di regia e la produzione tocca livelli di eccellenza. "The World Became The World", uscito quello stesso anno, ne è sostanzialmente la versione in lingua inglese (la band ha infatti ottenuto un discreto culto sul mercato americano, in particolare grazie alle proprie doti concertistiche).
(F. Romagnoli)
Banco del Mutuo Soccorso - Banco del mutuo soccorso (1972)
I
Banco del Mutuo Soccorso hanno rappresentato per il prog italiano quello che i King Crimson hanno rappresentato per il prog inglese: un modello a cui guardare con timore reverenziale e uno dei vertici della scuola locale. Tanti album, tanti di alto livello tra cui spiccano i primi tre lavori che li hanno lanciati nell’alveo del rock sinfonico europeo. Segnati dalla personalità del cantante e paroliere Francesco Di Giacomo, autore di liriche impegnate e poetiche, e dalla tecnica del tastierista Vittorio Nocenzi, si distinguono fin dal loro esordio del 1972, divenuto (anche per la storica cover del salvadanaio) un classico del rock tricolore. In linea con le lotte della loro generazione, il tema principale dell’album è l’antimilitarismo: “R.I.P.” è inno pacifista contro la follia della guerra con ritmi rapidi e testi crudi e diretti. “Metamorfosi”, strumentale tipicamente prog, e la suite “Il giardino del mago” li pongono un passo avanti la media delle band italiane.
(V. D’Onofrio)
A pochi mesi dall’esordio, i Banco si dedicano a un
concept complesso e ambizioso sull’evoluzionismo. Un percorso che va dalla nascita della Terra alla formazione dell’atmosfera, dalle fasi primordiali di "vita inapparente" alle prime forme di vita complesse che
– partendo da un comune precursore
– si evolveranno sino all’uomo. Pesa come un macigno il senso di fatica di un’evoluzione fatta di sofferenza, adattamento alle cangianti condizioni ambientali, mutazioni genetiche casuali e morte.
Da "La conquista della posizione eretta" ai primi esperimenti di socializzazione (“Cento mani e cento occhi”), perennemente nel contrasto tra due istinti opposti (libertà individuale e bisogno di comunità), sino a due dei sentimenti più “evoluti”: da una parte l’amore (“750.000 anni fa... l'amore?”), dall’altra la paura di quello che ci sarà dopo la vita e la richiesta di più tempo (“Miserere alla storia”), fino all’estinzione (“Ed ora io domando tempo al tempo ed egli mi risponde... non ne ho!”).
(V. D’Onofrio)
Banco del Mutuo Soccorso - Io sono nato libero (1973)
Dopo essersi concentrati su antimilitarismo ed evoluzionismo, i Banco trovano, nel giro di pochissimo tempo, le idee per un terzo lavoro, stavolta dedicato alla libertà individuale e politica. Come al solito il risultato è spettacolare, sin dal primo brano, “Canto nomade per un prigioniero politico”, una prova monumentale di Nocenzi, con testi di Di Giacomo strazianti e ancora una volta attualissimi. Dedicato al colpo di stato di Augusto Pinochet ai danni di Salvador Allende, avvenuto in Cile nel 1973, è un commovente inno alla libertà.
Tra piani
jazzati e momenti che vagano tra
Emerson e
Fripp, l’album prosegue con altri brani come “La città sottile”, la leggera di “Non mi rompete”, e il lungo monologo antibellico con piano e synth “Dopo niente è più lo stesso”.
(V. D’Onofrio)
Il prog mediterraneoUna delle caratteristiche del progressive italiano è stata quella di essersi diffuso in tutto il territorio nazionale con alcune zone maggiormente importanti (Roma, Milano, Genova, Napoli). Un ruolo non secondario lo ha svolto quel versante del prog italico con atmosfere pastorali e/o influenze del folk mediterraneo, che avuto delle caratteristiche peculiari rispetto a tutto il prog europeo. Tra questi ha certamente rivestito un ruolo principale la band di Lino Vairetti, gli Osanna, in particolare con “
Palepoli”. Vicini agli Osanna (anche da un punto di vista familiare), ma con sonorità più dalle parti dei Van der Graaf Generator ci sono i Cervello.
(V. D’Onofrio)
Cervello - Melos (1973)
ll rock progressivo napoletano ha rappresentato una pagina importante e peculiare del variegato scenario italiano. All’interno di questa scuola, i Cervello si collocano nel filone più sperimentale, quello meno praticato e forse meno amato in Italia. Hanno pubblicato un solo album, “Melos“, nel 1973, per sciogliersi poco dopo, scoraggiati dal modesto successo di pubblico. La band ha tuttavia grandi meriti per aver rappresentato una delle espressioni più originali del sottobosco musicale italiano, legata molto più di altre alle sonorità esistenzialiste dei Van Der Graaf Generator.
L’atmosfera mediterranea e le sonorità etniche già presenti negli Osanna, qui si fanno più dure, ostiche e inquietanti, soprattutto nel brano iniziale, “Il canto del capro”, che ha una
intro cupa e angosciante, in particolare l’arpeggio acido di
Corrado Rustici (fratello di Danilo degli Osanna). Da sottolineare i vari riferimenti alla filosofia greca, che tanta parte ha nella cultura del Sud Italia.
(V. D’Onofrio)
Il terzo album degli Osanna è composto da due lunghi brani (più uno stacchetto, "Stanza città", che non arriva a un paio di minuti). Non è semplice trovare il bandolo della matassa, in quanto sia "Oro caldo", sul primo lato, sia "Animale senza respiro", sul secondo, sono sostanzialmente dei collage che mettono lo sfoggio tecnico e la ricerca della sorpresa davanti allo sforzo compositivo: i temi non tornano quasi mai più di una volta e sono spesso sfuggenti, composti da
riff o armonie, più che da vere e proprie melodie.
A parte il celebre
refrain "Fuje 'a chistu paese", verso l'inizio di "Oro caldo", c'è ben poco di orecchiabile, mentre nel calderone finiscono a gran velocità incastri ritmici nel segno del jazz-rock, stacchi avant-folk che decostruiscono il passato dell'amata Napoli, e inaspettate cavalcate blues. La combinazione fra il tocco mediterraneo e la struttura inusuale dei brani l'ha reso oggetto di culto, ricercato ancora oggi dai collezionisti prog più incalliti.
(F. Romagnoli)
Quella Vecchia Locanda - Il tempo della gioia (1974)
Due soli album all’attivo per la band romana dei Quella Vecchia Locanda, ma entrambi icone del progressive italiano, con cover memorabili. Difficile scegliere tra l'album d’esordio omonimo del 1972, che mostrava già ottime potenzialità, ottima tecnica, uno stretto legame con la musica classica e una vicinanza a band come Gentle Giant e Jethro Tull, e il successivo “Il tempo della gioia”, del 1974. La scelta sul secondo è dovuta alla maggiore maturità e ambizione della band, che registra un Lp ricco di virtuosismi e ricerche sonore che tendono a una fusione più stretta tra classica e rock sinfonico. L’uso del violino è debordante e garantisce alla band una spiccata originalità rispetto alla sua generazione. Da segnalare soprattutto la
title track e i due brani lunghi, “Un giorno, un amico” e “È accaduto una notte”, oltre alla barocca “A forma di”. Due strumentali
– "Un giorno" e "Un amico"
– li pongono a livelli compositivi decisamente alti all'interno della scena nostrana.
(V. D’Onofrio)
Maxophone - Maxophone (1975)
I milanesi Maxophone sono stati la band che più di altre ha seguito le tracce di due dei nomi fondamentali del prog britannico, gli Yes e i
Genesis. Già la cover tradisce l’influenza degli Yes, ma anche i cori di Alberto Ravasini o le tastiere di Sergio Lattuada ricordano in più di un tratto la band di
Jon Anderson. Pur caratterizzandosi per un approccio più internazionale che italiano, l'opera non è priva di originalità, figlia di una formazione a sei elementi con una strumentazione allargata (clarinetto, flauto, sax, corno francese, tromba, vibrafono) e di momenti di leggerezza e allegria.
Gli studi accademici dei musicisti sono evidenti nelle tracce più complesse (“Fase”), nel brano più ambizioso (“Antiche conclusioni negre”) e nei legami alla musica classica di “Mercanti di pazzie”. "Maxophone" è un esempio di prog italiano tardivo, nato in quella che ormai può definirsi la fine del grande diluvio del triennio precedente. L’album è stato registrato in due versioni: italiana e inglese.
(V. D’Onofrio)
Celeste - Celeste (1976)
Registrato fra il 1974 e il 1975, l'album debutto dei Celeste, da Sanremo, venne pubblicato soltanto nel gennaio del 1976, passando sotto silenzio. La band non ebbe neanche modo di terminare le sessioni del disco successivo, sciogliendosi a causa di imprecisati contrasti interni (un incompleto "Celeste II" avrebbe comunque visto la luce una quindicina d'anni più tardi). La riscoperta avvenne durante gli anni Ottanta, grazie alla solita, benemerita serie di ristampe sul mercato giapponese.
Si tratta di un'opera atipica, dal sentore acustico nonostante l'ampio impiego di tastiere (Mellotron in particolare, ma anche qualche tocco di sintetizzatore), senza praticamente traccia di chitarre elettriche. Le atmosfere pastorali e i testi, che celebrano una lontana Arcadia, ben si sposano all'uso di flauti, sassofoni, spinetta, xilofono, percussioni e docili armonie vocali. In alcune ristampe l'album è stato reintitolato "Principe di un giorno", dalla canzone che lo inaugura.
(F. Romagnoli)
Nel segno di Emerson Lake & PalmerNon è esagerato dire che gli
Emerson Lake & Palmer siano stati una delle band che ha più influenzato la scena nostrana. Forse persino la più influente in assoluto se si ascoltano i Latte e Miele, con le loro riprese di musica barocca, classica e romantica, ma soprattutto i Metamorfosi, che hanno registrato nel 1973 il primo capitolo della loro trilogia dantesca, “Inferno”.
(V. D’Onofrio)
Latte e Miele - Papillon (1973)
I genovesi Latte e Miele sono stati una delle band più legate ai suoni degli Elp che si siano viste in Italia. Tre album all’attivo, fra i quali il secondo resta certamente il lascito più significativo. Influenzati in modo quasi maniacale dalla musica classica, vi dedicano addirittura tutta la facciata B del vinile (“Sonata per pianoforte n. 8” di Beethoven, il terzo movimento della “Sinfonia n. 6” di Tchaikovsky e rielaborazioni di composizioni
vivaldiane). La facciata A, quella che li fa inserire nella scena progressiva, è un
concept album assolutamente
emersoniano, sulla storia di un burattino condannato a morte per essersi innamorato di una bambina. Questa favola nera, inno alla libertà individuale, figlia di “Pinocchio”, delle maschere di Pierrot e Petruska (la marionetta dell’opera omonima di Stravinsky), mostra ottime capacità tecniche, che si manifestano nell’
ouverture e nei sette movimenti distinti. Chiari anche i legami con le fiabe prog dei
Genesis.
(V. D’Onofrio)
Metamorfosi - Inferno (1973)
Tra i tanti musicisti che hanno cercato un confronto col monumento della letteratura italiana, la “Divina Commedia” di Dante, non poteva certamente mancare una band prog del periodo storico. I romani Metamorfosi hanno dedicato un’intera carriera a quest’impresa iniziando nel 1973 con “Inferno”, fra le perle della discografia del prog italiano. Forti della possente voce di Jimmy Spitaleri, ma soprattutto del fenomenale tastierista Enrico Olivieri, i Metamorfosi hanno rappresentato un fulgido esempio di rock influenzato dall’esperienza ipertecnica di Emerson Lake & Palmer.
Vari brani eccellono, dall’“Introduzione” strumentale, alla perfetta descrizione di “Caronte”, fino ai gironi aggiornati all’Italia degli anni Settanta (“Spacciatori di droga”), con riferimenti al Ku Klux Klan (“Razzisti”) e soprattutto, nell’epico finale, a “Lucifero”, mirabile esempio di quanto la tecnica possa conciliarsi con poesia e ispirazione.
(V. D’Onofrio)
Il prog antimperialista
In epoca di grandi ideologie era difficile non prendere posizioni senza essere etichettati di qualunquismo. Il prog italiano è segnato da alcuni lavori spiccatamente antimilitaristi. Gli
Area sono da considerare la band più politicizzata, rappresentativa delle caratteristiche (e delle idiosincrasie) dei movimenti anarchici e di estrema sinistra: capaci di immaginare un mondo totalmente alternativo a quello esistente, dominato dal capitalismo, e sostenitori della causa palestinese.
(V. D’Onofrio)Gli
Area sono stati fra le band più iconoclaste e sovversive del periodo che stiamo trattando. Già da questo loro esordio mostrano capacità e ambizioni che li pongono decisamente al di sopra della media, tanto da essere difficilmente etichettabili in una singola scena, grazie alla loro capacità di spaziare tra più generi, creando nuovi e irripetibili mondi sonori dai profumi mediorientali. Il titolo, che rimanda al triste motto che dominava i cancelli dei campi di concentramento nazisti, ricorda la politicizzazione di un album da inserire senz'altro nell'alveo del rock in opposition militante. È anche l'inizio della storia artistica di Demetrio Stratos, mancato prematuramente, dotato di una voce dalle potenzialità inavvicinabili per gran parte dei cantanti della scena.
Non si contano i classici: "Luglio, agosto, settembre (nero)", "Consapevolezza", "240 chilometri da Smirne", "L’abbattimento dello Zeppelin", commistioni di jazz, avanguardia, kraut e rock in opposition.
(V. D’Onofrio)
Area - Caution Radiation Area (1974)
Dopo “
Arbeit Macht Frei” non era facile ripetersi, ma gli Area ci riescono alzando la posta in palio, con un nuovo lavoro che li porta ancor più all’opposizione di ogni forma di arte asservita alle regole del mercato. Spingendosi verso un free jazz più radicale, riducono la presenza vocale di Demetrio Stratos
– udibile solo in “Cometa Rossa” e in una piccola parte della funambolica “Brujo”
– per dedicarsi a furiosi brani strumentali di una complessità quasi inaudita (“ZYG Crescita Zero”). Il jazz diventa predominante (“Mirage”), ma si arricchisce di elettronica per sfociare nelle sperimentazioni d’avanguardia di “Lobotomia”, presunto requiem per uomini ormai ridotti a consumatori decerebrati dal pensiero capitalista dominante, a cui gli Area si pongono in radicale contrasto. Un
concept integralista e sperimentale su temibili scenari atomici dove è abbandonato ogni concetto di melodia e di formato canzone classico, che era in parte presente nell'esordio.
(V. D’Onofrio) Campo di Marte - Campo di Marte (1973)
I
Campo di Marte nascono a Firenze nel 1971, da un'idea di uno dei chitarristi più tecnici della scena, Enrico Rosa. Il loro è l’unico
concept album spiccatamente antimilitarista prodotto dal prog italiano, con testi poetici descrivono le conseguenze della guerra che stravolge il paesaggio e la vita degli uomini. Il
sound ha momenti di estrema durezza che avvicinano Rosa a un
guitar hero hendrixiano, ma con legami massicci alla tradizione classica. Inoltre è presente una particolare dissonanza tra l’asprezza dei suoni
– con una chitarra che talvolta è al limite del noise (”Terzo Tempo”)
– e la vacuità della voce di Rosa.
“Primo tempo” è la traccia più immediata dell’album, con liriche di alto livello e un basso particolarmente aggressivo. I campi di fiori in cui un bambino gioca felice si trasformano in cimiteri, con migliaia di croci tanto, tanto imponenti e numerose da oscurare il sole. Le ossa sono il solo raccolto di questa folle semina. Non c’è guerra giusta, solo follia e morte.
(V. D’Onofrio)
Religione e morale Gli anni Settanta italiani non sono stati solo l’epoca dei conflitti ideologici figli della contrapposizione tra capitalismo e comunismo, ma anche della presa di coscienza dei giovani di una loro alterità rispetto la precedente generazione, ancora schiacciata dalla morale cattolica. Gli ideali del Sessantotto cambiano radicalmente lo scenario e anche nel prog alcune band descrivono in modo molto personale il contrasto tra la loro educazione borghese e il nuovo modo di decodificare la realtà. In uno scenario tanto diversificato non c’è ovviamente spazio solo per la critica: gli Alphataurus difendono per esempio con fermezza i valori cattolici.
(V. D’Onofrio)
Alphataurus - Alphataurus (1973)
Pubblicato dalla Magma, l’etichetta di Vittorio De Scalzi dei New Trolls, l’unico album (se si esclude il secondo postumo) dei milanesi Alphataurus merita di essere riconosciuto tra le piccole perle perdute del pop italiano degli anni Settanta. Dotati di una tecnica invidiabile, i musicisti si cimentano in tre lunghi brani (“Peccato d'orgoglio”, “La mente vola” e “Ombra muta”) che mi muovono tra territori emersoniani e chitarre distorte ed energiche. I testi sono impregnati di tendenze catechistiche ("Una ragione per vivere c'è. La mente volta, non ti conosci più. Ora sai cos'è, la voglia di pregare, la forza di sperare, lassù qualcuno c'è"), elemento che forse non gli attirò le simpatie dell'intellighenzia militante dell'epoca. Da segnalare la fantastica cover antibellica apribile in tre parti in cui una colomba bianca, da sempre simbolo di pace, bombarda un mondo distrutto da un conflitto atomico.
(V. D’Onofrio)
Jumbo - Vietato ai minori di 18 anni? (1973)
Dopo aver suonato il basso nella band di Gianni Pettenati, Alvaro Fella fonda la sua band, i Jumbo. Riunito un gruppo di musicisti eclettico, ai limiti dell’hard prog, con momenti rabbiosi che rimandano ai
Biglietto per l’Inferno, giunge nel 1973 a “Vietato ai minori di 18 anni?”. Oltre a essere un Lp aggressivo, con uno spiccato animo blues, si differenzia in quanto autentica seduta psicoanalitica di Fella. Risulta chiaro come nel movimento giovanile degli anni Settanta italiani fosse importante la questione della libertà sessuale, in un paese ancora fortemente legato alla tradizione cattolica. I testi parlano di sesso, masturbazione, violenza, solitudine ed emarginazione, per i giovani che si sentono schiacciati da una mentalità opprimente e provinciale. Ovviamente questo, insieme alla cover in cui una bambina cerca di spiare la stanza da letto dei genitori, gli costò l’esclusione da ogni programmazione radiofonica. Un tassello alternativo ma fondamentale della scena prog italiana.
(V. D’Onofrio)
Semiramis - Dedicato a Frazz (1973)
I giovanissimi Semiramis entrano nella scena prog italiana grazie a un solo album, che si segnala per la bella cover apribile, disegnata dall’artista inglese Gordon Faggetter, di stanza a Roma, e per essere stati la prima band dell’allora sedicenne Michele Zarrillo. “Dedicato a Frazz” è un ottimo lavoro, tecnico e complesso, che si muove tra tentativi
crimsoniani e melodie che ricordano i Genesis. Si segnala anche l'ambizione di descrivere la storia di uno psicopatico di nome Frazz, abbandonato dalla società, che non ha altra strada di fronte a sé, se non il suicidio.
Tutti i brani sono piccole perle prog, da “Zoo di vetro”, che richiama l’opera teatrale di Tennessee Williams, alla
emersoniana “Per una strada affollata”, fino alla mini-suite “La bottega del rigattiere”. Il tecnico del suono è Luciano Marioni, all’epoca orbitante intorno ai musicisti della Bla Bla.
(V. D’Onofrio)
Alusa Fallax - Intorno alla mia cattiva educazione (1974)
I milanesi Alusa Fallax iniziano la loro breve carriera alla fine degli anni Sessanta come band beat, per poi separarsi e ritrovarsi nel 1973, pubblicando l’anno dopo il loro album d’esordio “Intorno alla mia cattiva educazione”. Il disco è un tentativo di opera prog che mostra le consuete vicinanze alla musica classica, mentre il legame più forte col mondo britannico è quello con i Jethro Tull e probabilmente con parte del folk revival.
Tra variazioni dinamiche, passaggi legati alla musica popolare e vaghi ricordi beat, il disco si dipana in ben tredici brani brevi che vanno visti come un unicum, una piccola sinfonia che avrebbe dovuto fare da colonna sonora a un’opera teatrale. “Intorno alla mia cattiva educazione" nasce quindi come mix di musica e teatro, con uno spettacolo che dal vivo veniva rappresentato tramite un fantoccio, emblema dell'uomo vittima di una educazione severa e bigotta, limite imposto dalla società alla propria e autentica libera espressione.
(V. D’Onofrio)
Biglietto per l’Inferno - Biglietto per l’inferno (1974)
L'unico album pubblicato dalla prima incarnazione dei
Biglietto per l'Inferno, prima delle varie
reunion, è uno dei dischi di culto del rock progressivo italiano, benché all'epoca sia passato sostanzialmente inosservato. La produzione era del resto già fuori tempo massimo: fra il 1973 e il 1974 tutto il prog svolta, scoprendo i sintetizzatori polifonici e nuove tecniche di registrazione, mentre l'album in questione sembra un disco hard rock registrato alla fine degli anni Sessanta, tanto il suono è ovattato e piatto.
Riesce comunque a ritagliarsi un suo spazio grazie ai testi, che mettono in luce i contrasti interni del cantante Claudio Canali (cattolico devoto, ma piuttosto avverso alla religione organizzata), le atmosfere nevrotiche, condite da declamazioni e acuti aggressivi (forse influenzati dagli
Uriah Heep), e la scrittura convulsa, densa di scatti e cavalcate proto-metal. La presenza sporadica del flauto fa spuntare paragoni coi Jethro Tull, a dire il vero poco fondati.
(F. Romagnoli) Fantascienza e filosofiaNel diluvio di idee del triennio 1972-74 si segnalano alcuni
concept album a tema fantascientifico, tra cui spicca la misconosciuta perla dei romani
Raccomandata Ricevuta Ritorno, il debutto dei Museo Rosenbach, ispirato dalla filosofia novecentesca, e “Ys” del Balletto di Bronzo, del resto legati al tema sin dall’esordio, “Sirio 2222”. L'album di Franco Falsini è strumentale, ma può rientrare nella categoria essendo affiliabile alla musica dei corrieri cosmici tedeschi.
(V. D'Onofrio) Balletto di Bronzo - Ys (1972)
Il
Balletto di Bronzo di "Ys" è praticamente una band al debutto: non c'è infatti molto in comune col precedente album, "Sirio 2222", pubblicato due anni prima. Fra i due la formazione si è rimescolata, con l'abbandono del cantante Marco Cecioni e del bassista Michele Cupaiolo, e l'ingresso di Gianni Leone (voce, tastiere). Leone imprime un drastico cambio di sonorità, componendo per intero il nuovo materiale (laddove "Sirio 2222" era stato firmato da autori esterni alla band), e lasciandosi alle spalle le scorie beat e hard blues. La nuova strada si dispiega fra stacchi ritmici forsennati, gran dispiego di tempi dispari, tastiere analogiche assortite (Moog,
Mellotron, organo elettrico), chitarre intrise di
fuzz, e la voce isterica di Leone che narra la storia dell'ultimo uomo.
Finito velocemente nel dimenticatoio, nonostante fosse uscito per la Polydor, l'album verrà gradualmente riscoperto a partire dalla fine degli anni Ottanta, grazie a una serie di ristampe giapponesi.
(F. Romagnoli)Raccomandata Ricevuta Ritorno - Per... un mondo di cristallo (1972)
La storia dei romani
Raccomandata Ricevuta Ritorno è una di quelle che lascia l’amaro in bocca agli appassionati del prog nostrano. Un solo disco nel 1972, diventato un oggetto di culto, nonché fra i migliori esempi di
concept album a tema fantascientifico/distopico. La grandezza dell'album sta in diversi fattori: la trama post-apocalittica che racconta una storia ricca di spunti di riflessione, i ritmi ossessivi e ripetitivi presenti in quasi tutti i brani, i richiami ad Arthur Brown e al
Bowie di "The Man Who Sold The World" e "
Hunky Dory", l'influenza fortissima della musica jazz, e il senso di desolazione, che descrive con precisione la storia di un astronauta tornato sulla Terra dopo vari anni, trovando un mondo distrutto da un conflitto nucleare. Il lungo tragitto in lande desolate continua ossessivo sino all’incontro con i pochi infelici sopravvissuti, descritti nella suite "Un palco di marionette", ormai ridotti a schiavi da un grande burattinaio che li comanda dall'alto.
(V. D’Onofrio)Museo Rosenbach - Zarathustra (1973)
I liguri Museo Rosenbach sono stati autori di uno degli album più amati dagli appassionati del prog italiano. A causa di una certa ingenuità, unita all’eccessiva politicizzazione degli anni Settanta, sono stati osteggiati per una presunta ideologia di destra, da loro sempre negata. Ma la citazione dello “Zarathustra” di Nietzsche e l’immagine di Mussolini nel collage della cover sono bastati per rendere difficile ogni loro passaggio in radio e a limitare al massimo ogni disponibilità di luoghi per esibizioni dal vivo. Da qui la scissione e il conseguente oblio.
L’album, invece, è spettacolare, con una delle migliori voci italiane (il cantante "Lupo" Galifi) e l'ottimo tastierista Pit Corradi. “Zarathustra”
– divisa in cinque parti tra alti e bassi, accelerazioni e decelerazioni
– ambisce a essere una delle migliore suite progressive italiane. Anche nei brani più brevi, come “Degli uomini”, “Della natura” e “Dell’eterno ritorno”, la musica è un tripudio al miglior prog che l’Europa produceva in quegli anni.
(V. D’Onofrio)
Franco Falsini - Cold Nose (Naso freddo) (1975)
Messi in momentanea pausa i Sensations' Fix, che riattiverà già l'anno successivo, il fiorentino Franco Falsini si concede la sua unica prova da solista. A parte la mancanza degli altri membri della band, l'assetto non cambia: produzione del fedele Filippo Milani e pubblicazione su Polydor (in un tempo in cui anche le etichette più grandi coltivavano l'interesse per la musica sperimentale). L'assenza di basso e batteria fa paradossalmente bene agli arrangiamenti, che si svelano più evocativi e limpidi che in qualsiasi disco dei Sensations' Fix. Falsini suona tutto da solo, mescolando chitarre e tastiere elettroniche in un grande affresco di musica cosmica che sfida in contemporanea i
Tangerine Dream di "Rubycon" e il
Manuel Göttsching di "Inventions For Electric Guitar", senza peraltro arrivare in ritardo all'appuntamento (entrambi i lavori menzionati uscirono quello stesso anno). Si dice che Milani abbia anche girato un cortometraggio intitolato "Cold Nose", a oggi introvabile.
(F. Romagnoli)
Studio del folcloreI dischi di progetti come Aktuala e Canzoniere del Lazio si piazzano in realtà ai confini del prog italiano, rischiando costantemente di fuoriuscirne a causa delle forti ingerenze avant-folk e dell’assenza di strumenti elettrici. Benché il dubbio permanga, si è scelto di inserirli sia per l’eventuale difficoltà nel piazzarli in contesti diversi da questo, sia perché in seguito entrambi si sarebbero allineati maggiormente coi dettami del prog più classicamente inteso. In particolare i secondi, con "Miradas" (1977), forse un filo sopravvalutato rispetto all'originalità delle precedenti prove.
(F. Romagnoli)
Aktuala - Aktuala (1973)
I milanesi Aktuala, capitanati da Walter Maioli (flauto e oboe), hanno poco a che fare col progressive rock classico, ma fanno parte della scena progressive/folk/etnica che aveva nella
Third Ear Band il suo principale riferimento. Ingaggiati dall’etichetta Bla Bla, la stessa degli album sperimentali di
Franco Battiato (loro principale sponsor), proponevano un progetto con un’ambivalenza simile a quella dei Third Ear Band: sperimentale e innovativa, ma allo stesso tempo legata alla tradizione. Il principale richiamo era quello alla musica indiana. Faceva parte della band il percussionista
Lino Capra Vaccina, che cinque anni dopo pubblicherà uno degli Lp principali del minimalismo italiano, "Antico adagio". Maioli ha continuato la sua nobile ricerca nei suoi lavori successivi con gli Aktuala ("La terra" nel 1974, "Tappeto volante" nel 1976) e collaborando nel 1990 col Museo di Storia Naturale di Milano, in uno studio sulla musica preistorica.
(V. D’Onofrio)
Canzoniere del Lazio - Lassa stà la me creatura (1974)
Sensazionale lavoro di ricerca antropologica, riprende una manciata di brani folk dell'Italia del centro-sud, rielaborandoli ed espandendoli. Capitano così tarantelle pagane per esorcizzare il veleno della tarantola ("Antidoto"), canti a due voci con improvvisazioni di organetto e sonagli ("'Ncominciai a non avé più bene in vita mia"), antichi rituali con tamburi e sassofoni che imitano cornamuse ("Processione"), cortei funebri con cori epici e assoli di violino ("Lu povero Antonuccio") e canti di mietutura con divagazioni ai limiti dell'avantgarde jazz ("Canti a mete di Barbarano").
Pur mostrando attenzione alle più recenti intellighenzie della musica italiana e internazionale, il disco risulta sorprendentemente rispettoso delle sue fonti, e non smarrisce neanche per un attimo il fascino atavico del nostro folclore. Tutte le canzoni vennero registrate dal vivo in studio, sotto l'attenta supervisione di un insospettabile Ricky Gianco. Ristampato in edizione Sacd nel marzo del 2018.
(F. Romagnoli)
Ai confini col jazz La commistione fra jazz e prog ha avuto principalmente due volti: la scuola di
Canterbury e il jazz-rock chitarristico della Mahavishnu Orchestra, entrambi più o meno confinanti con la jazz fusion creata in quello stesso periodo dal circolo di
Miles Davis, Joe Zawinul e Herbie Hancock. In Italia queste diverse scuole hanno dato vita a uno dei frangenti più particolari del prog europeo. La band più
canterburiana, tanto da dedicare il suo album a un fantomatico
alter ego di
Robert Wyatt (Roberto Viatti), sono di sicuro i liguri
Picchio dal Pozzo, mentre sull'altro frangente spiccano i Perigeo, capaci addirittura di entrare in classifica a più riprese, verso la metà degli anni Settanta. Fa infine scuola a sé il potente funk partenopeo dei Napoli Centrale di James Senese.
(F. Romagnoli)
Dedalus - Dedalus (1973)
Rifiutata inizialmente dalla propria etichetta, l’opera dei Dedalus rappresenta una singolarità all’interno del panorama italiano. Pubblicato nel 1973, questo Lp cattura perfettamente le istanze sperimentali del jazz, in modo non poi tanto dissimile da quanto stavano facendo i
Soft Machine o i nostri Perigeo. Gli interventi chitarristici di Marco Di Castri (chitarra, sax) e del violoncellista Fiorenzo Michele Bonansone danno vita a cinque brani strumentali in perfetto equilibrio con la sezione ritmica di Furio Di Castri (basso) ed Enrico Grosso (batteria).
Con la partecipazione del percussionista degli Aktuala, Renè Mantegna, il disco si apre con “Santiago”, numero jazz fusion con un organo distorto che vira dritto verso Canterbury, offrendo un gustoso anticipo del roboante violoncello, che rimanda alle derive più mistiche della scena. Il pezzo più riuscito del novero è “CT6”, quattordici minuti in cui ogni artista ha modo di apportare il suo contributo senza mai eccedere in superbia.
(V. D’Onofrio)
Perigeo - Abbiamo tutti un blues da piangere (1973)
I romani
Perigeo furono forse il miglior gruppo di rock progressivo strumentale in Italia. "Abbiamo tutti un blues da piangere" è il loro secondo album, probabilmente il più eclettico. Guidati dal bassista Giovanni Tommaso, che si concede qualche linea di canto inintellegibile nell'iniziale "Non c'è tempo da perdere", trovano punto di forza nei suoi temi jazzistici e nelle capacità tecniche dei comprimari: Franco D'Andrea si destreggia perfettamente sia col pianoforte classico, sia col Fender Rhodes, la batteria di Bruno Biriaco sa dosare silenzi e tratti caotici, mentre il chitarrista Tony Sidney piazza pochi assoli elettrici al punto giusto, preferendo altrove ricami acustici. I sassofoni di Claudio Fasoli donano la giusta dose epica agli intrecci sottostanti.
Proprio il frequente ricorso agli strumenti acustici rende l'album atipico in un'epoca in cui il jazz-rock spinge verso le sfuriate di chitarra (Mahavishnu Orchestra) e la jazz fusion verso l'elettronica (Herbie Hancock).
(F. Romagnoli)Arti & Mestieri - Tilt (Immagini per un orecchio) (1974)
Combo piemontese ancora oggi esistente, guidato dal batterista Furio Chirico, gli
Arti & Mestieri nascono nel 1973 e riescono a partecipare al festival di Parco Lambro l'anno successivo, imponendosi all'attenzione di Gianni Sassi, che li iscrive alla sua Cramps Records. In breve si giunge all'album d'esordio, culto del rock progressivo italiano più legato al jazz-rock. La proposta è prevalentemente strumentale, eccetto qualche sporadica linea cantata dal violinista Giovanni Vigliar, e più o meno ogni membro si ritaglia il suo spazio per dare spettacolo, pur senza dimenticare il proprio ruolo all'interno della tessitura generale. Il tastierista Beppe Crovella ricorre talvolta al Mellotron, strumento inusuale in ambito jazz-rock, essendo poco adatto ai virtuosismi. La composizione non è sempre a fuoco e la scaletta risulta fin troppo omogenea, ma la maestria tecnica dei membri è fuori discussione e le lodi ricevute tutto sommato comprensibili. Produce Paolo Tofani degli Area.
(F. Romagnoli)
Napoli Centrale - Napoli Centrale (1975)
Il cantante e sassofonista James Senese, figlio di un'italiana e di un soldato afroamericano, è uno dei più noti strumentisti della florida scena napoletana anni Settanta. I Napoli Centrale sono il progetto che, a più riprese, ha occupato un ruolo centrale nella sua vicenda artistica (pur senza dimenticare il lavoro come turnista per
Pino Daniele). Fondati nel 1975, vedono nelle proprie fila il batterista Franco Del Prete e due americani trapiantati: Mark Harris (tastiere) e Tony Walmsley (basso). L'omonimo album d'esordio è un travolgente
j'accuse, un coacervo di prog, jazz fusion e funk, con testi riguardanti i problemi che da sempre affliggono il Sud: sfruttamento, povertà, spopolamento. La voce ruggente di Senese, il suo instancabile lavorio di sax, i
groove convulsi della sezione ritmica, le tastiere che corrono liquide nel tumulto generale, e almeno quattro grandi classici: "Campagna", "'A gente e' Bucciano", "Viecchie, mugliere, muorte e criaturi" e "Vico Primo Parise n. 8".
(F. Romagnoli)
Roberto Colombo - Sfogatevi bestie (1976)
Tra gli album più significativi influenzati dal jazz-rock
canterburiano e dalla jazz fusion di Miles Davis ci sono certamente i primi Lp del musicista milanese Roberto Colombo. Artista poliedrico, nei suoi primi anni di carriera ha prodotto almeno due opere – “Sfogatevi bestie” (1976) e “Botte da orbi” (1977)
– che rappresentano un caso emblematico di musica al confine tra il jazz e il prog, di grande complessità, ampiamente influenzata dall’ironia e dal freak rock più maturo di
Frank Zappa, nonché dal jazz massimalista dei
canterburiani Centipede. Non mancano momenti cinematici che ricordano alcune colonne sonore del grande cinema di genere italiano. Il punto di forza sta nel trovare una perfetta congiunzione tra tecnica e spensieratezza, tra cultura e ironia, obiettivo che spesso è un’irraggiungibile chimera. A tal proposito, tra i punti più alti sono da segnalare i vorticosi dieci minuti con citazioni
zappiane di “Caccia alla volpe”.
(V. D’Onofrio)
Aldo De Scalzi, fratello di Vittorio dei New Trolls, è oggi uno dei più richiesti compositori di colonne sonore per la televisione italiana. In un lontano passato è stato il fondatore della Grog Records, ricordata in particolare per aver distribuito gli album dei Celeste e dei Picchio Dal Pozzo. Proprio in questi ultimi militava De Scalzi come tastierista, coadiuvato da Andrea Beccari (basso, corno), Paolo Griguolo (chitarra) e Giorgio Karaghiosoff (fiati). L'omonimo album di debutto dei Picchio dal Pozzo giunge molto tardi, quando la scena prog italiana è agli sgoccioli, e pur con alcuni ovvi riferimenti alla scena di Canterbury, si distingue per eccentricità e qualità di registrazione, con un
sound tecnologico evocante spazi sconfinati. Spiccano i due pezzi più lunghi, "Seppia" (con i suoi oscuri
groove di sintetizzatore e l'ancestrale richiamo del corno) e "Napier" (un pullulare di flauti, sax, percussioni e schizzi elettronici). Poche le parti cantate, spesso filastrocche.
(F. Romagnoli)
Il cinema dell'orroreI
Goblin fanno sostanzialmente storia a sé, in quanto band legata a doppio filo alle musiche per i film horror, in virtù delle quali sono esistiti. A riprova di ciò, il materiale che hanno pubblicato indipendentemente, estraneo al commento dei film, è passato del tutto inosservato. Una piccola curiosità: sotto la guida di Enrico Simonetti, la band curò anche le musiche di "Gamma", storico sceneggiato di fantascienza della Rai, andato in onda per quattro puntate a partire dall'ottobre del 1975.
(F. Romagnoli)
"
Profondo rosso" non fu solo un grande successo al botteghino, e non fu solo il film da cui, verosimilmente, nacque il concetto moderno di horror, con la ricerca sistematica del cosiddetto
jumpscare. Fu anche il trampolino di lancio di una band talentuosa, che sarebbe passata alla storia per il suo sodalizio con le pellicole di
Dario Argento, oltre che per la qualità delle musiche, ricollegabili, almeno nella parte iniziale della carriera, al mondo del rock progressivo. Il vinile contenente il sottofondo del film, uscito per Cinevox, entrò in classifica nel maggio del 1975 e si arrampicò fino al secondo posto, mentre il 45 giri del celebre tema principale si impose al numero 1 e ci rimase per quattro settimane. È musica che risulta ancora oggi disturbante, col suo ricorso a giri di basso ossessivi (influenzati dal
Mike Oldfield di "
Tubular Bells"), ma anche fortemente originale, soprattutto per gli scatti della batteria, vicini all'avanguardia jazz, e l'ampio utilizzo di dissonanze.
(F. Romagnoli)
Il pop radiofonico
I flirt fra la musica leggera italiana e il rock progressivo furono continui, in un senso e nell'altro: dagli Alunni del Sole, che con la loro musica romantica e un po' melensa si addentrarono tuttavia spesso e volentieri nelle timbriche tipiche del prog, ai New Trolls, che terminata la stagione dei concerti grossi e della sperimentazione si dedicarono al pop nostalgico di "Aldebaran", passando per i Dik Dik, ex alfieri del beat nostrano, che nel 1972 pubblicarono “Suite per una donna assolutamente relativa”. In rappresentanza di questa terra di mezzo sono stati scelti i Pooh, magari mai davvero progressivi, ma influenzati da quell'universo per diversi anni, in maniera piuttosto evidente.
(F. Romagnoli)
Pooh - Un po’ del nostro tempo migliore (1975)
Dal 1971 di "Opera prima" al 1981 di "Buona fortuna", i Pooh hanno pubblicato almeno un album all'anno. Con unica eccezione per i diciotto mesi che separano "Parsifal" da "Un po' del nostro tempo migliore". Non stupisce che la lunga pausa abbia loro permesso di alzare l'asticella dell'ambizione e pubblicare il disco più maturo fino a quel momento. Continuando sulla scia di "Parsifal", mettono a punto un pop orchestrale e maestoso, dalle tendenze progressive evidenti, ma sempre tenute al guinzaglio, rimanendo nei canoni della forma canzone e della vendibilità a portata di radio: un po' come dei Moody Blues senza gli stacchetti sperimentali. Il risultato è abbastanza convincente da perdonare gli eccessi di "Il tempo, una donna, la città" e la spudorata ripresa dell'introduzione di "
While My Guitar Gently Weeps" dei
Beatles in "Eleonora mia madre". Spiccano la strumentale "Mediterraneo", la ballata filosofica "Oceano", e la marziale "1966", segnata da notevoli virtuosismi di chitarra.
(F. Romagnoli)
I solisti Come si accennava nell'introduzione generale, le carriere dei cantanti solisti non sono particolarmente adatte al mondo del rock progressivo, e non è un caso se qualsiasi lista sull'argomento è quasi sempre composta interamente da band. Tuttavia, ci sono molti artisti che hanno voluto tentare l'esperimento e esplorare quel mondo per uno o due dischi, prima di rientrare (o di entrarci per la prima volta, come nel caso di
Alan Sorrenti) nel solco di una carriera più ordinata e rispondente ai canoni della canzone. Il caso commercialmente più eclatante fu ovviamente quello di
Lucio Battisti, ma anche
Franco Battiato ottenne buoni riscontri, entrando nella top 10 con "Pollution", nel marzo del 1973.
(F. Romagnoli)
Claudio Rocchi - Volo magico n. 1 (1971)
Claudio Rocchi ha soltanto diciotto anni quando debutta su album come membro degli Stormy Six, nel 1969, con "Le idee di oggi per la musica di domani". Li molla quasi subito, prendendo le distanze dalla quella musica beat fuori tempo massimo. Nel 1970, grazie all'interessamento del produttore Alberto Salerno, pubblica la prima opera da solista, "Viaggio", registrato a quattro mani insieme a Mauro Pagani. Il colpaccio
– almeno fra gli addetti ai lavori
– arriva però un anno più tardi, con "
Volo magico n. 1". Il primo lato del vinile è occupato per intero da una suite di folk progressivo, con una lunghissima introduzione acustica segnata da percussioni e cori eterei, mentre il gran finale è un tripudio di rock distorto e catartico (partecipa alle chitarre il giovane italo-brasiliano
Alberto Camerini).
Sul secondo lato spicca la gemma mistico-filosofica "La realtà non esiste", due minuti e mezzo per soli pianoforte e voce. La riprenderà anche Franco Battiato, oltre quarant'anni dopo.
(F. Romagnoli)
Franco Battiato - Fetus (1972)
Franco Battiato piombò sulla scena della musica sperimentale italiana come un fulmine a ciel sereno. Sebbene in seguito lo stesso autore abbia guardato ai suoi primi album con diffidenza, accusandoli fra le righe di essere piagati dalle ingenuità di un'epoca sbiadita in fretta, i quattro titoli pubblicati fra il 1972 e il 1974 appaiono ancora oggi solidi (sono semmai quelli dal 1975 al 1978, dedicati all'avanguardia più oltranzista, a risultare esagerati). "Fetus", album di debutto, è forse il più diretto del Battiato antecedente la svolta pop, di cui non a caso affiorano lontani sentori ("Una cellula"). Il protagonista della maggior parte della scaletta è il sintetizzatore Vcs3, che si divide fra passi atmosferici ("Energia") e violenti muri sonori (la
title track), insinuandosi ora in brani vicini al classico rock progressivo, ora in collage di nastri manipolati e rumori trovati. È del resto noto che Battiato, durante quel periodo, abbia subito l'influenza di Karlheinz Stockhausen.
(F. Romagnoli)
Album leggendario per il rock progressivo italiano, e in retrospettiva quasi controproducente per la considerazione critica dei successivi lavori di
Alan Sorrenti, spesso accusato di essersi svenduto alla
disco music e al pop più corrivo verso la fine degli anni Settanta (non che ciò abbia preoccupato più di tanto il suo portafoglio). Polemiche che oggi come oggi, per quanto "Tu sei l'unica donna per me" possa risultare svenevole, appaiono tutto sommato reazionarie. Registrato da un Sorrenti ventunenne, "Aria" è strutturato come "Volo magico n. 1" di Rocchi: una lunga suite sul primo lato, e tre canzoni più o meno dilatate sul secondo. L'aura sacrale è dovuta principalmente ai quasi venti minuti della
title track, esplorazione vocale fra acuti e variazioni impossibili, da far tremare i polsi a
Tim Buckley e
Peter Hammill, col magico violino del sodale
zappiano Jean-Luc Ponty a guidare un solido arrangiamento progressive folk. Batteria e percussioni a cura di Tony Esposito.
(F. Romagnoli)
Lucio Battisti si era già affacciato sul rock progressivo nel 1971 con "Amore e non amore" e in seguito nel 1973, con "Il nostro caro angelo", ma è solo con "
Anima latina" che entra pienamente in quel mondo. Disco dall'approccio sperimentale, portò i primi forti scricchiolii fra Battisti e Mogol, per via della voce mixata a volume basso o pesantemente effettata, che rendeva difficile la comprensione dei testi. Il fatto di non aver generato brani rimasti nell'immaginario collettivo ha portato al falso mito dello scarso riscontro commerciale, ma in realtà il 33 giri rimase al primo posto in classifica per ben quattordici settimane. Oggi è comunque considerato dalla maggior parte dei critici il miglior album di Battisti, pareggiato soltanto da "Don Giovanni" per la fase al fianco di Pasquale Panella. Una mitologia pienamente meritata, grazie a brani complessi e graziati da una produzione per l'epoca estremamente avanzata, fra tempi dispari, influenze latine e sintetizzatori paranoici.
(F. Romagnoli)
È da poco stato pubblicato il brano che chiude la carriera di Franco Battiato, "Torneremo ancora", scritto a quattro mani con
Juri Camisasca. Si è così chiuso un cerchio lungo quarantacinque anni, dato che proprio Battiato produsse l'album di debutto di Camisasca nel lontano 1974. Disco di avant-folk percussivo, progressivo forse più per i timbri degli strumenti che per le strutture dei brani, "La finestra dentro" si piazza nella corrente di Rocchi e del primo Sorrenti, ma con un approccio nettamente più malato. Se in Rocchi l'elemento principale era la speranza e Sorrenti era pervaso dalla malinconia, Camisasca canta di uomini marci e cadenti, che perdono il controllo del proprio corpo e della percezione della realtà ("Un galantuomo"), quando non mutano direttamente in mostri
kafkiani ("Metamorfosi"). Tuttavia, come già Rocchi, anche Camisasca riesce a piazzare una struggente ballata pianistica che riflette sulla condizione dell'essere umano: "Ho un grande vuoto nella testa".
(F. Romagnoli)
1977 - SiparioIl canto del cigno del prog italiano classico può essere datato nel 1977. Anno che comunque dona dischi iconici del movimento, come “L'apprendista” degli Stormy Six, gruppo simbolo del cambio di prospettiva che stava avvenendo (la loro ricerca culminerà tre anni più tardi con “Macchina maccheronica”), “Gudrun” dei Pierrot Lunaire, con i suoi forti legami con la musica d’avanguardia, e il debutto dei
Locanda delle Fate (“Forse le lucciole non si amano più”), probabilmente l’ultimo capitolo della stagione del rock sinfonico locale.
(V. D’Onofrio)
Locanda delle Fate - Forse le lucciole non si amano più (1977)
L'unico album dei Locanda delle Fate è da molti considerato il canto del cigno del rock progressivo italiano, essendo uscito nell'estate del 1977, quando ormai solo giganti come Orme, Pfm e Banco riuscivano a creare un dente nel mercato discografico, pur concedendo sonorità meno ostiche che in passato. La nomea di opera passata sotto silenzio, con relativo fallimento commerciale e scioglimento repentino della band, non risponde al vero: l'album uscì per la Polydor e ottenne una discreta pubblicità, con tanto di esibizioni per la Rai, arrivando a raggiungere il numero 25 nella classifica settimanale di "TV Sorrisi e Canzoni" (niente male, se si conta che nomi storici come Area e Napoli Centrale non hanno mai centrato un simile obiettivo). In scaletta sette brani di rock sinfonico e ampolloso, guidati dai levigati flussi delle tastiere di Michele Conta. Meno entusiasmanti la voce rauca e i testi simbolisti di Leonardo Sasso, benché funzionali alla lubrificazione dell'ingranaggio.
(F. Romagnoli)
Pierrot Lunaire - Gudrun (1977)
Nell’anno del canto del cigno del progressive italiano viene pubblicato il secondo album della band romana capitanata da Arturo Staltieri. Dopo un buon debutto nel 1974, è la volta di “Gudrun”. L’ambizione della band li porta a superare radicalmente i territori tipicamente prog per dedicarsi a citazioni di classica e avanguardia del Novecento, come ci dicono già il nome della band (richiamo a Arnold Schönberg) e il titolo dell’album (richiamo a Richard Wagner). Se prog c’è, è nei tratti più dinamici che fungono da cucitura agli svariati momenti lirici, alle ripetizioni minimali
à-la Terry Riley, e agli arditi richiami settecenteschi (“Plaisir d’amour”). Tra collage sperimentali e mix di elettronica e musica lirica, “Gudrun” rappresenta un punto di arrivo del prog italiano che ha ormai superato se stesso, alla ricerca di nuove strade da battere.
(V. D’Onofrio)
Il nostro percorso iniziato nel 1970 può considerarsi concluso nel 1977, anno di cambiamenti e reinvenzioni. Chi meglio dei leggendari Stormy Six, membri del movimento rock in oppposition e cofirmatari del manifesto di Chris Cutler? Tutta la loro carriera è un continuo reinventarsi, passando dagli esordi beat e psichedelici con un giovane Claudio Rocchi, per arrivare a diventare simboli della commistione di generi diversi, dal folk alla complessità progressive. Percorso già iniziato negli anni precedenti con “Un biglietto del tram” (1975), trova un punto di arrivo in “L’apprendista”. È un lavoro di assoluto rinnovamento, grazie ai geniali sperimentatori Tommaso Leddi e Franco Fabbri, dove si elaborano le esperienze figlie delle frequentazioni con le band RIO e della canzone politica italiana. Una nuova via che chiude una stagione di libertà che cerca di aprirne un’altra, lasciando un testimone che in pochi saranno capaci di portare avanti.
(V. D’Onofrio)
I minoriUn veloce sguardo alle band capaci di attirare l'attenzione degli appassionati, ma non importanti quanto le già trattate, o perlomeno non del tutto attinenti all'universo prog. Per esempio, i liguri Garybaldi, band del più noto
guitar hero italiano del periodo, Bambi Fossati, autori di due album (“Nuda” del 1972 e “Astrolabio” del 1973), molto legati all’hard blues psichedelico di
Jimi Hendrix. Si segnala anche l'iconica cover di “Nuda”, disegnata da un giovanissimo Crepax. Più assimilabili al krautrock cosmico gli Albergo Intergalattico Spaziale, col loro album omonimo del 1978, o il progetto Telaio Magnetico di Lino Capra Vaccina, Franco Battiato, Juri Camisasca e Mino Di Martino (“Live '75”). Vicini al mondo hippie, fin dalla cover, gli italo-tedeschi Analogy (“Analogy”, 1972), come anche il progetto Living Music ispirato alle idee e ai libri di Allen Ginsberg (“To Allen Ginsberg”, 1972). Più prossimi al prog classico i romani Buon Vecchio Charlie, nella cui formazione suonava un giovane Richard Benson.
Altri album oggetto di discussione sono sono “Uno” (1971) dei Panna fredda, l’omonimo dei Saint Just (1974), band di Jenny Sorrenti, “Topi o uomini” (1972) dei siciliani Flea, “Io non so da dove vengo e non so dove mai andrò. Uomo è il nome che mi han dato” (1972) dei milanesi De De Lind e "Generazioni" (1975) degli Edgar Allan Poe, ispirati dal poeta americano. Chi ricerca il versante del prog legato all’avanguardia probabilmente apprezzerà “Introspezione “ (1974) dei
Opus Avantra o “Concerto delle menti” (1972) dei
Pholas Dactylus.
(V. D’Onofrio)Le copertineUna delle caratteristiche del rock progressivo, ereditata probabilmente dal jazz e dalla musica psichedelica, è stata quella di considerare il vinile un’opera d’arte in sé, non solo un mero contenitore di musica. L’idea della cover come opera d’arte trova nel prog uno sviluppo decisivo (le cover di
Yes o
King Crimson su tutte). Anche in Italia questo fenomeno si sviluppa e trova come vertice alcune cover apribili in due, a volte persino in tre. Segnaliamo alcune fra le più rappresentative, benché non necessariamente provengano dagli album che sono rientrati nella selezione.
(V. D’Onofrio)Garybaldi - Nuda (1972)
Orme - Uomo di pezza (1972)
Quella Vecchia Locanda - Quella vecchia locanda (1972)
Trip - Atlantide (1972)
Alphataurus - Alphataurus (1973)
Metamorfosi - Inferno (1973)
Orme - Felona e Sorona (1973)
Raccomandata Ricevuta Ritorno - Per... un mondo di cristallo (1973)