Mina

Mina

Sessant'anni di storia in una voce

Da “Be Bop a Lula” a “Vento nel vento”. Epopea della cantante suprema della musica italiana, attraverso i suoi successi, le sue prodezze, le sue sperimentazioni temerarie e i suoi eccessi. Ritratto di sessant’anni di storia della musica e della cultura italiana attraverso una “unica” voce

di Claudio Milano

Una voce può essere un'invenzione. Una voce può essere una scoperta. Penso a Cathy Berberian nell'avanguardia. Penso alla Callas per come ha cambiato l'idea di tanto melodramma. E penso a Mina. C'è stato qualcosa di comune nel loro modo di concepire la voce, anche come esperimento.
(Luigi Pestalozza)

Ma chi è stato questo Pestalozza? Un disponibilissimo signore con cui ho diviso 20 anni fa qualche ora di confronto in merito alla musica elettronica (valutata storicamente come frutto di ricerche rivolte alla produzione di armi) e alla voce di Demetrio Stratos, da lui definita quella di un uomo che "non ha inventato nulla". Il critico di classica contemporanea che ha seguito da biografo l'intera vicenda umana e artistica di Luigi Nono (pur autore di tanta musica elettronica) e che, d'un tratto, decide di dedicarsi a... Mina (“Mina. Una forza incantatrice” di Franco Fabbri e Luigi Pestalozza, 1998).
Chi è Mina? Beh... chi in Italia ha dai 30-40 anni in su, certo avrà la sua risposta, poi, in quanti si siano dedicati, cultori a parte, alla sua immensa discografia, è altra storia. In merito a quanto Mina rock possa essere, per chi non l'avesse già fatto, provi ad ascoltarla cantare gli Afterhours; come giovane “Baby Gate” alle prese col rock'n'roll, o come interprete di pop sinfonico in “Non è Francesca” del 1975, “Musica” e soprattutto “Voglio stare bene”, ambedue del 1980, persino post-punk in “Capisco” (ancora del 1980) e poi saprà dirmi.

Grande Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana, 150 milioni di dischi venduti, primato assoluto di stazionamento ai vertici delle classifiche italiane, apprezzata da Maria Callas, Mirella Freni, Frank Sinatra, Louis Armstrong, Sarah Vaughan, Antony and the Johnsons, Mónica Naranjo, Liza Minnelli, Luciano Pavarotti, solo per fare alcuni tra migliaia di nomi della musica popolare, lirica, jazz (i più grandi italiani l'hanno lodata lavorando con lei da sempre, da Roberto Gatto, a Paolo Fresu, Franco Cerri, Danilo Rea, Renato Sellani, Antonio Faraò, Ellade Bandini), anche mondiale (Toots Thielmans), dagli anni 60 in poi, Mina Mazzini è la donna che ha cantato, con esiti alterni, talvolta entusiasmanti, altri discreti, in qualche caso, inascoltabili, “tutto” (all'incirca 1600 brani). Questo, pubblicando, dal 1960 in poi, da un minimo di uno, a 3 album l'anno, per un totale di 116, cantati in italiano (dialetti inclusi), inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, catalano, turco e giapponese. È considerata la più grande interprete nostrana di sempre e una delle massime mondiali, pur, a causa della paura dell'aereo (Lei sa), avendo mosso piede dal Belpaese solo all'inizio degli anni 60 (Spagna, Giappone, Venezuela, Olympia di Parigi, Argentina, Svizzera), se non per ritirarsi dalle scene, a vita privata, in quel di Lugano. Di lei, Louis Armstrong, ebbe a dire: "E’ la più grande cantante bianca al mondo", Sarah Vaughan aggiunse: “Se non avessi la mia voce, vorrei avere quella di una giovane ragazza italiana di nome Mina”, Liza Minnelli concluse: "E’ la più grande in assoluto".

La sua voce è stata quella di soprano di agilità (ora mezzosoprano, ma comunque e sempre “voce estesa”), capace di muoversi su un range di tre ottave (ma anche “qualcosa” in più). Una voce pur ricca di un'inestimabile quantità di armonici, che le hanno donato e le donano (a 78 anni compiuti) una potenza non comune e una quantità non descrivibile di sfumature. Ciò, se ne ha fatto in origine, cantante brillante (cosa ben combinata alla sua attività di donna di spettacolo), l’ha portata presto a divenire interprete altamente drammatica, in questo, paragonabile solo alla stimata Mia Martini e alla comprimaria Milva, più capace (come nessuna) però in un repertorio altamente colto, non tra le trame di una forma-canzone, che spesso l'ha resa ironica, ma un po' troppo "fuori tempo" e, non di rado, imbarazzante. Mina, invece, si è distinta in primis nell'ambito del vocal jazz ("adult pop"), di cui è stata maestra assoluta, usando la voce come strumento dalle mille sfumature, nell'imitazione di strumenti a fiato, pur spesso (ma fortunatamente, non sempre) con qualche auto-indulgenza di troppo, nella pronuncia falsata, mentale e nel trascinamento delle parole, cosa che le ha, nel male, assegnato il ruolo infausto di "regina del birignao", cosa che in ambito rock l'ha resa null'affatto amata da alcuni colleghi. Ricordo il commento laconico di un padre fondatore del progressive rock italiano, che, alle mie orecchie incredule, la definì "una vacca, volgare, vecchia e capace solo di urlare"...
Tanta attenzione mostra comunque che, pur nel rarissimo dileggio, in realtà spesso dovuto alla mancata accettazione di brani inviati a Lugano che la cantante stessa seleziona tra migliaia e la cui pubblicazione garantirebbe una pensione certa a chi ne è autore, Mina resta un caso unico al mondo e per molti versi impareggiabile.

Baby Gate, una rockstar in tv

Mina - Baby GateAnno 1958. L'Italia è in pieno “boom economico” dopo le rovine che la Seconda Guerra Mondiale, trascorsa da poco più di un decennio, ha lasciato. È l'Italia della Democrazia Cristiana, quella che vede trionfare all'Eurofestival la “nuova canzone d'autore”, con “Nel blu dipinto di blu” di Domenico Modugno. La televisione è “di Stato” ed esiste un'unica rete, Rai 1. È una televisione rigidamente in bianco e nero, che non porta solo intrattenimento, ma che mira all'alfabetizzazione (nel Sud, se ne registra una media del 26/27%, dal Censimento generale del 1951) con programmi come “Non è mai troppo tardi”, a cura del Maestro Alberto Manzi. La “musica nuova” che entra nelle case italiane è quella che trae spunto da quanto accade negli Stati Uniti, in un ambito jazz inteso come fenomeno di massa e capace di far muovere i piedi. Forte di un retroterra culturale maturato a suon di ascolti di Frank Sinatra, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, Elvis Presley, quasi tutti in seguito suoi ammiratori, Anna Maria Mazzini esordirà sul palco della Bussola di Marina di Pietrasanta, appena diciottenne, cosa non certo facile per una donna in quegli anni.
In breve tempo la giovane cantante diventa voce di una band dal nome Happy Boys: immediato il riscontro di pubblico, tale da condurla a diventare lei stessa principale attrazione col nome d'arte di Baby Gate. Non è il jazz a trainarla in questi primi, vertiginosi passi, ma il rock'n'roll di “Be Bop a Lula” (Adriano Celentano a questi lidi era approdato pochi mesi prima). L'esordio in televisione è con “Il Musichiere” di Mario Riva, da qui "Canzonissima", Sanremo, il primo, grandissimo successo mondiale con “Il cielo in una stanza” (1960) a firma Gino Paoli, i tour mondiali, “Studio Uno” di Antonello Falqui e poi.. la vita privata. Mina è la prima autentica “rockstar” italiana, destabilizzatrice di costumi. Usa un trucco assai importante, indossa minigonne, fuma, non solo, si unisce a Corrado Pani ancora sposato, quando è in dolce attesa dell'amato Massimiliano. Il pubblico la “perdona” rispetto ad ogni condotta e la elegge a portatrice di nuove istanze, di costume prima ancora che musicali. Da qui in poi, Mina sarà pura “istituzione”, l'emblema assoluto della televisione italiana tutta e, con essa, di una cultura in costante evoluzione che via etere viene veicolata al pubblico. Tutta la cultura, quella d'intrattenimento quanto quella più propriamente colta.
Un primo addio alle scene è annunciato nel 1972, quello definitivo è del 1978. Di fatto, Mina non ha mai abbandonato i suoi cultori. Memore dei suoi “Caroselli”, lo spot televisivo per la cedrata Tassoni è divenuto un classico pluridecennale e la sua voce continua a prestarsi a pubblicità tutt'oggi. Non solo, nel 2001 la cantante ritorna a presentarsi al suo pubblico tramite internet, con un video che raggiungerà la cifra record di 20 milioni di contatti. Un documento esteso a portare nelle case degli italiani “Mina in Studio”, in forma di Dvd, sarà campione d'incassi. Mina risponde a rubriche dedicate ai lettori di riviste nostrane, è ai vertici delle classifiche... Mina c'è, sempre, comunque.

Che dire di questo "alieno"? (Maeba). Che anzitutto, come chi ha iniziato la propria carriera tra la fine dei 50 e i primi anni 60, è stata troppo legata all'idea del 45 giri, come metodo promozionale di un percorso. Si è dovuto aspettare la fine degli anni 60 per iniziare ad ascoltare un'interprete vera e dei dischi di valore. Pochi, sinceramente pochissimi, ma anche molto belli.
La carriera della diva è disseminata di canzoni stupende, a brillare in un numero da 1 a un massimo di 4-5 per ogni album (fate il conto, 116 per una media di due tre canzoni a testa...), cosa che ha reso il suo lascito un qualcosa di legato alle sue metamorfosi vocali, a colpi di scena nella scelta del repertorio (tremendo sentirla cantare Michael Jackson...), ma non alla volontà di realizzare "Il" capolavoro. I lavori migliori non sono stati le ammucchiate di brani provenienti da autori diversi, ma quelli con una progettualità chiara e unilaterale.
Eppure, nonostante questo, la sua magnetica capacità scenica e la sua potenza interpretativa, dal vivo soprattutto, l'hanno resa immortale. Caso tanto più curioso per chi, da 40 anni in qua, le scene non le ha più calcate, se non “virtualmente”.

Capitolo I: Mina dal vivo

Solo tre gli album live pubblicati tutti e tre al club La Bussola. Questo se si esclude, il magnifico cd, allegato al box di Dvd "I miei preferiti – Gli anni Rai", anticipato dall'altrettanto indispensabile, ma a limitatissima tiratura, "Signori.. Mina!" del 1993, allegato alla rivista Raro, esclusivamente audio, ma tale da raccogliere l'intero archivio delle incisioni live per la Rai, tra jazz (con versioni di “In The Mood” e “Lullaby Of Birdland” da lasciare esterrefatti per proprietà di uno scat sviluppato al massimo potenziale tecnico), musica latina, canzone pop, musical, arie liriche (“Mi chiamano Mimì”), classica contemporanea (con Astor Piazzolla), chanson francese, folk e partecipazioni di sacra eccellenza.

MinaIl primo di questi live alla Bussola (Mina alla Bussola dal vivo) è del 1968. Si tratta di un gioiellino di valore già internazionale e con una Mina dalla voce cristallina, da cantante brillante, l'eco della Baby Gate, suo pseudonimo d'esordio, che fu. Il brano d'apertura, non a caso spensierato, ricorre a una revisione di un classico della canzone sudamericana di Vinicius de Moraes ed è seguito da “Regolarmente”. Ambedue sono nulla più che episodi piacevoli e si ricollegano all'immagine della Mina di "Canzonissima". È "Cry" il primo degli episodi imprescindibili delle sue incisioni nel locale della Versilia. Qui Mina è cantante jazz di prim'ordine, a volare da un'ottava all'altra, fino a un acuto conclusivo da brivido. Troppi "virtuosismi" rendono invece “Un colpo al cuore” difficile da seguire oggi. “Se stasera sono qui” è perfetta, non fosse che a sentirla sembra cantata da un'americana che sta cercando di imparare l'italiano, la cosa può irritare, ma di brano senza pretese drammatiche certo si tratta, seppure bellissimo. Più pulita e ben arrangiata è la bella “C'è più samba”, dalla penna di Chico Buarque De Hollanda. “La voce del silenzio” è certo un classico della sua produzione, ma non è questa la versione più bella, così condita da birignao poco affini alla natura semplice del pezzo. Il brano successivo, scorre senza lasciar memoria, ben altra cosa è invece "Allegria", forte anche di un arrangiamento eccellente (insieme a “Cry “e volendo, al pezzo di Luigi Tenco, l'episodio migliore del disco). A chiudere, la cangiante “Deborah”, di Paolo Conte, anche in questo caso, con qualche eccesso di troppo.
In breve, il disco di una brava cantante, ma non ancora di un'interprete completa. Quasi tutte le colleghe della sua generazione, si sarebbero fermate a questo step, da Rita Pavone a Iva Zanicchi passando per Ornella Vanoni, Patty Pravo, ma lo stesso discorso vale con voci più recenti, da Renga a Nek, a Giorgia, Alexia, Marco Mengoni, Amalia Grè, Giusy Ferreri, Piero Pelù, Anna Oxa... C'è da segnalare infatti un danno tutto italiano (persino il primo Demetrio Stratos non ne fu affatto immune), ovvero cercare riconoscibilità attraverso "il difetto potenziato all'inverosimile". Invece che "asciugare la voce per trarne l'essenza", la si riempie di orpelli di dizione, pronuncia, carattere che uccidono nobiltà invece di creare valore aggiunto.

Non è il caso della Mina che verrà, non del tutto perlomeno, perché il secondo capitolo alla Bussola, di appena 4 anni dopo, la vedrà al massimo delle potenzialità interpretative e senza errori di valutazione nella scelta della scaletta (facile disquisire col senno del poi...).
Qui, nasce Mina, quella che oggi conosciamo, su queste incisioni è possibile edificare la sua intera leggenda.
Dalla Bussola è il nome del disco, inciso con l'ausilio di una big band (meno elegante di quella del disco live precedente), definita grossolanamente "orchestra" (come nelle balere che furono), formata da alcuni tra i massimi jazzisti italiani dell'epoca, a gestire orchestrazioni mai troppo invadenti, dalle buone soluzioni armoniche, ma mai particolarmente raffinate, se confrontate con quanto all'epoca l'America poteva donare. La protagonista indiscussa è la voce di Mina, qui, al picco della maturità tecnica ed espressiva, non strumento tra strumenti, ma strumento a piegare al suo servizio gli altri. Questo particolare qui avvince, in quasi tutti gli episodi discografici a seguire sarà foriero di noia.
Una voce capace di acuti cristallini o soffiati, note gravi e intense, fraseggi jazzistici, trascinati o ritmici, una tenuta di fiato inaudita, transito dai timbri più rochi a quelli da soprano pop, senza peraltro la necessità di passare in maschera "lirica". Qui c'è l'autentico abbecedario dell'uso vocale. Non c'è nulla da scartare.
L'idea di mescolare un repertorio di cifra internazionale a quello della canzone d'autore italiana riesce alla perfezione nell'arrangiamento di tutto in chiave jazzy.
Gli highlight sono due brani italiani del repertorio, le incredibili versioni di "Fiume azzurro" e "Io e te da soli" (questa presente solo nell'edizione rimasterizzata per il quarantennale del 2012, caldamente consigliata) e la stupenda "You've Made Me So Very Happy".
Ma non c'è nulla che non valga encomio. Bellissime "Someday (You Want Me To Want You)" e "Fly Me To The Moon", emozionante "E penso a te" (con la cantante che scala le ottave per raggiungere picchettati in voce con un FA 5!), trasformata in chiave assai nera "Io vivrò senza te" (che in parte riporta alla mente la sua versione di "Deborah"). Dal bel medley che condurrà alla conclusiva "Io e te da soli", spicca anche una versione enorme di "Insieme". "Laia Ladaya" vira in Sudamerica e regala la Mina più giocosa, ma con arguta intelligenza e innegabile presenza interpretativa.
Un documento da avere, indipendentemente da gusti musicali e passioni, nella versione del 2012, Dvd incluso.

MinaIl terzo dischetto on stage, ancora alla Bussola (Mina Live '78), nonché il suo disco più amato dalla critica (segnalato dalla rivista Rolling Stone Italia all'81° posto tra i “dischi italiani più belli di sempre”) e dal pubblico, qui in delirio puro, avrebbe cercato una dimensione ancora più internazionale, ma esasperatamente eterogenea. Dimensione che alterna luci assai luminose: l'incipit da brivido di "Stasera io qui" (incisa in studio) di Ivano Fossati e dello stesso autore, "Non può morire un'idea", "Margherita" di Riccardo Cocciante, ad ombre assai scure: l'orrenda "We Are The Champions", la comica, per resa vocale, "Stayin' Alive", la sensualità da milf (elemento che dalla metà degli anni 70 in poi diverrà una costante non priva di encomiabile auto-ironia) di "L'importante è finire", "Amante amore", "Ancora tu" e della svaccatissima "El Porompompero", una brutta versione di "Città vuota" che sembra uscita dal repertorio della Carrà. Tutto questo consegnando un pur discreto documento, a mio avviso assai inferiore a Dalla Bussola, anche per qualche problema vocale incontrato nel tour (evidente all'ascolto l'ispessimento cordale), l'ultimo in scena, poi... il ritiro. Il “problema” su questo disco, spiace dirlo, è la cantante. Salvo qualche episodio, Mina si canta addosso, in modo manierista e talvolta volgare, al pari della "finta rivale" Mil-f-va in "Uomini addosso", un decennio dopo (nota: “Milfa” è il nomignolo con cui Franco Battiato chiama scherzosamente Milva, per dichiarata ammissione).
Ma badiamo al meglio. Episodio di pregio è "Lacrime napulitane", che testimonia come questa donna abbia bisogno appena della sua voce e uno strumento, all'occorrenza. Che col jazz Mina ci sappia fare, lo si sa, e si sono scritti trattati in materia, apprezzabilissima "Georgia On My Mind", vien da dire, che nella vita, la cantante avrebbe dovuto dedicarsi solo a quel genere. Inferiori alle incisioni studio, "Emozioni", "I giardini di marzo", la nasalizzata "Sì viaggiare"...

Capitolo II: Mina in studio

Tra i parti in sala d'incisione, senza voler nulla ai precedenti lavori - tutti con diversi brani di valore autentico, cosa che in futuro non sarà più prerogativa indispensabile - la perfezione formale di Mina Canta O Brasil del 1970. Bell'episodio davvero, con le splendide "Todas Mulheres Do Mundo" e "Cancao Latina", ma nulla qui è trascurabile, dagli episodi più festosi (davvero rimarchevole la versione ri-arrangiata di “La banda”), a quelli più malinconici. Un bel momento.

Mina - Lucio BattistiMinacantalucio (1975) avrebbe trovato tutte le facce dell'artista, grazie ai colori dell'arrangiamento e della direzione artistica del giovane Gabriel Yared (una delle tante scoperte, della Mina talent-scout), decenni prima, che il compositore vincesse un Oscar per la colonna sonora di "Il paziente inglese". Arrangiamenti sofisticatissimi, avanguardisti e di gran personalità, associati a una voce che rinuncia a ogni auto-indulgenza, aprendo le porte del Paradiso, nell'inciso di "I giardini di marzo", mostrandosi fragile e indifesa, davanti all'arrangiamento atonale (!) di "Non è Francesca", capolavoro degno d'essere eseguito nei templi della classica contemporanea, fino alla progressiva ipnosi di "29 Settembre" (autentica trasfigurazione surreale), i colori accesi di "Il nostro caro Angelo", l'intensità di “L'Aquila”. Un piccolo, grande gioiello, oltre che il più riuscito omaggio a Lucio Battisti.

Il capolavoro arriva, per opinione di chi scrive, con Mina quasi Jannacci (1977). Non solo, è a mio avviso il più bello di Enzo Jannacci autore, che, gettata la maschera da giullare, si rivela in tutte le debolezze, ma anche nella grandezza di narratore di un'umanità solo apparentemente ai margini. Quello che qui si racconta è un quotidiano che apparteneva a tutti quarant'anni fa come ci appartiene oggi, senza sconto alcuno e senza limature di sorta a metter lustrini a una vita amata e difesa coi denti, quanto passata con orrore, sotto una lente a mostrarne il livore.
Il canto è qui perfetto, celestiale pur nel dramma. “Rino”, strappa l'anima davvero, ma non sono da meno “Vincenzina davanti la fabbrica”, “La sera che partì mio padre”, “Vita vita” (dall'arrangiamento avant perfettamente centrato), “E sa vé”, così come il gioco di “Saxophone”. In “Sfiorisci bel fiore” è un canto popolare a commuovere, tra splendide armonizzazioni vocali. Ma tutto qui ha un valore socio-culturale enorme. Jannacci parla con parole semplici, semplicissime, che arrivano dritte al cuore. Discorre di alcolismo, depressione, alienazione operaia, morte per guerra, amori finiti o neanche iniziati, racconta la sua intera storia. È il disco che lui ma neanche Mina farà più. Cupo, contrito, persino cinico. Le sue melodie, come quelle di Piero Ciampi, sanno essere facili quanto assai sofisticate, anche quando avvicinano l'ironia più beffarda. Di questo, la sig.ra Mazzini aveva bisogno, di qualcuno che le cucisse un disco addosso, come farà Fossati con Mia Martini in "Danza" e il già citato Ciampi con Nada in "Ho scoperto che esisto anch'io". Gli arrangiamenti appaiono perfetti ovunque, eccezion fatta che per l'ambiziosa “Ecco tutto qui”, con un fraseggio pianistico (certo sorprendente) che ricorre al minimalismo di Philip Glass, qualche eccesso di fiati, fratture ritmiche progressive, ma davvero un azzardo, considerando la melodia, garbata ma troppo semplice per così tanta materia sonica appresso, peccato veniale, ma non sgradevole.
Un disco che rasenta la perfezione, pietra miliare che i generi li accarezza mentre li trascende, scrigno ingrigito da aprire con cura, come un diario abbandonato in soffitta, il racconto di un'Italia in vita che è presente quotidiano, ma che in musica, purtroppo, non esiste più.

Appena una citazione per Attila (1979), che si presenterà come ambizioso, libero parto (sin dalla scelta della pubblicazione di un doppio Lp, l'ennesimo e neanche l'ultimo, dopo una serie iniziata dal 1972), campione di vendite, ma non certo un bel disco, con le sole "Don't Take Your Love Away" di Isaac Hayes, brano che sfiora i 10 minuti di durata ed episodi dance-funky cantati in maniera egregia (“Shadow Of My Old Road”), la struggente ma troppo urlata “Un po' di più”. Questo è anche il disco dell'inizio di una decadenza continua, singulti dietro l'angolo a parte, dell'album all'anno, singolo o doppio, dal quale salvare poco o niente.

Decadenza che incontrerà il suo punto più basso nella rivisitazione di arie classiche Sulla tua bocca lo dirò (2009), fiasco colossale, soprattutto se confrontato con le prove di Alice, Giuni Russo, Antonella Ruggiero e Milva (con Berio, Piazzolla e nel repertorio brechtiano). Un lavoro di completa assenza di eleganza.

Cos'altro ancora? Kyrie (1980), certo! È un album discontinuo ma con episodi di autentico livello, che inaugura il nuovo decennio in modo inaspettato quanto gradito, attraverso sperimentazione autentica. Su tutti i brani, "Musica", con le sue trame dilatate e trasognate, ma anche la nobilissima "Quattr'ore 'e tiempo" di Stradella, la funambolica e decisamente prog "Voglio stare bene", "I Know You", "Capisco", su spoken word, post-punk, che rimandano ai Cccp, prima che questi si consegnassero alle stampe, ma che è a firma del giovanissimo Massimiliano Pani (!). C'è spazio anche per un'orchestrale, incantevole versione di "She's Leaving Home", che solo lei, poteva cantare così. È questo disco di livello tutto medio-alto, rovinato da un secondo capitolo, nettamente inferiore, l'unico, tra le "raccolte" di brani a firma di autori diversi e senza un concept, a essere apprezzabile, anche grazie ad arrangiamenti e produzione cristallini. Non solo, Mina qui canta e da far paura davvero. Certo, come detto, c'è più di qualcosa di trascurabile e la batteria elettronica, qua e là, provoca fastidio per stucchevolezza.

Napoli (il primo dei due volumi, targato 1996), regala arrangiamenti di raffinatezza impagabile e versioni vocali da brivido, con la cantante che si avvicina alla ricerca vocale tout court di Demetrio Stratos e Giuni Russo (che pure avrà parole di fuoco per lei, in seguito alla pubblicazione della versione di “Nada te turbe”, presente in “Dalla Terra”), cantando da muezzin in "Maruzzella", commuovendo al contempo nella bellissima "Core 'ngrato", accompagnata da un coro d'archi stupefacente.

MinaIl citato Dalla Terra (2000) è buona prova mistica, eccezion fatta per qualche episodio, inclusa l'iniziale "Magnificat" di Frisina, composizione sin troppo leggera per reggere il peso della selezione dei brani a seguire (durata anni), di ben altra fattura e che brilla per una grandiosa resa di "Pianto della Madonna", per sola voce e pianoforte (Danilo Rea...), pura perfezione. Si è in una dimensione che di popolare non ha che la nobiltà vera, così come in "Voi ch'amate lo Criatore".
Rapisce il madrigale di "Dulcis Christe", emozionante "Quando corpus morietur", anche se qua e là ciò che manca è leggerezza vocale, appesantita da età, la ricorrente parola “depressione” a emergere dalle interviste, e troppe, troppe sigarette.

L'allieva, del 2005, è un gradevolissimo, ma non ossequioso, tributo, al maestro Frank Sinatra. Disco swing assai intimista, registrato in presa diretta, con un quartetto jazz d'eccezione (Alfredo Golino, Massimo Moriconi, Danilo Rea, Andrea Braido). L'interprete risulta credibile nelle rese più sussurrate ("These Foolish Things"), nelle eccezionali "The Nearness of You" (su tutte),"All The Way", "Good-Bye","Angel Eyes", puntando sulle qualità interpretative e sulle sfumature del suo strumento, più che sulla potenza, toccando vette di cristallina purezza sonica. Curiosa, ma non priva di fascino, la versione quasi parlata di "My Way".
Solo, negli ultimi tre episodi, il canto viene liberato in parte, supportato da un'orchestra condotta da Gianni Ferrio e qui è "April In Paris", a brillare. È un disco da ascoltare senza la pruriginosa volontà di lanciarsi in paragoni con gli originali (cosa inevitabilmente fatta dalla critica nostrana), vista l'enorme divergenza d'intenti interpretativi alla base, come se si trattasse di brani incisi per la prima volta. Inutile dirlo, ma da questo capitolo, più che mai, Mina, manifesta il suo vero volto, quello, di raffinata e importante interprete jazz, madre formativa di tutte le signore del linguaggio afro-americano in Italia, Tiziana Ghiglioni su tutte.

Capitolo III: Le raccolte, le canzoni

Per chi ama le raccolte, oltre a quella, prima nominata (a tiratura limitatissima), degli archivi Rai, curata da Mina stessa e la tristemente fuori catalogo Signori... Mina!, è consigliata, la doppia antologia Del mio meglio 1 + Del mio meglio 2, dal facile titolo Minantologia, assai più che una semplice successione di brani, ma un'autentica selezione tra brani in studio, alternate take e brani live. Una buona collezione.
Come lo è, in forma più completa, inclusi annessi live e brani meno conosciuti, The Collection 3.0. L'ultima antologia, Paradiso (Lucio Battisti Songbook), dedicata al profondo legame artistico con l'aedo visionario di Poggio Bustone, oltre a essere essenziale compendio di una “cultura tutta”, dona una meravigliosa interpretazione di “Vento nel vento”, arrangiata da Rocco Tanica (Elio e le Storie Tese).
Un singolo da avere? Per chi ama il beat italiano, senza dubbio il perfetto "Un anno d'amore/ E se domani".

E poi, quante altre canzoni bellissime? Dai primi passi ad oggi, di seguito, una mia playlist ideale, di quelle che nessuna collezione potrebbe garantire, in quanto foriera, anche, di materiale “per niente facile” e spesso “a latere”, ma tale da valere una Storia unica e come tale, irripetibile. Sì, perché è triste dirlo, ma in musica assai più che nella vita, ci sono “storie e Storie” e quella di Mina è fatta principalmente di canzoni.

“Be Bop A Lula” apre questa selezione. La versione di Mina/Baby Gate e gli Happy Boys non ha nulla di differente rispetto a quanto proposto da altri artisti in giro per il mondo. Anzi, ben suonata, ma priva completamente della virulenza originaria del rock'n'roll, prende slancio solo in qualche esibizione dal vivo. La voce della cantante marca in maniera brillante le consonanti, mostra scarsi armonici sulle frequenze gravi e una dizione assai imperfetta (il comprimario Celentano nel cantare brani come questo inventa persino le parole). Appare però festosa e spensierata ed è a modo suo specchio di un'Italia alla ricerca di nuove forme di espressione, per dare ai giovani motivo di svago attraverso il ballo. A dirlo oggi, il passo dalle balere al rock sembra cosa semplice ma non tale da evitare resistenze da parte di chi ormai non più giovane difende il proprio territorio con arroganza. È la gente stessa a richiamare una necessità e, giovanissima, Mina se ne fa portavoce. Non c'è ombra di “bel canto” qui, nonostante Nilla Pizzi e Claudio Villa siano “le” istituzioni. Un passo acerbo, seppure importante e degno d'interesse storico.

Appena un anno, preceduto da un'autentica valanga di singoli e “Tintarella di Luna” diventa un vero e proprio fenomeno, tale da raggiungere il primo posto in classifica e consegnare il primo classico autentico nel repertorio della cantante, che, abbandonato lo pseudonimo Baby Gate, diventa per tutti, Mina. Il brano è rock'n'roll nostrano, manifesto di leggerezza ma anche d'invenzione di scrittura. Al ben noto tema traino, si alterna una prima variazione con apertura “di grazia” e tale da sposare beat e melodia aperta e briosa al tempo stesso, come Modugno insegna. La voce appare già cambiata. Dal rock'n'roll sono mediati passaggi in falsetto (la critica pop parla di “urlatori”), l'interpretazione mantiene una certa enfasi teatrale figlia del cabaret italiano dagli anni 30 in poi (Ettore Petrolini e soprattutto Lelio Luttazzi), la quantità di armonici è cresciuta e così il senso del ritmo. Come d'uso, il canto non disdegna finte cadenze “anglosassoni”. La band di suo si concede bei soli di elettrica e sax contribuendo a rendere il brano un vero gioiellino. Proponiamo un gustoso videoclip dell'epoca, tratto dal musicarello (film commedia con estesi contributi musicali, sulla scia delle pellicole di Elvis Presley) ''Jukebox - Urli d'amore'', diretto da Mauro Morassi.

MinaÈ nel 1960 però che il repertorio si arricchisce di due capolavori vivissimi e pur assai differenti per intenti: “Una zebra a pois” e “Il cielo in una stanza”.
“Una zebra a pois” è un vero miracolo. Brano che tra gli autori vede lo stesso Lelio Luttazzi, propone un arrangiamento degno dei più grandi classici della canzone americana. L'intro è pura romanza, la strofa ha enfasi ritmica afroamericana di mambo roboante e apre a variazioni ritmiche swing e di filastrocca infantile. Il tutto è ben più che esercizio di stile e richiede una capacità di esecuzione davvero importante, perché l'avvicendarsi delle variazioni è talmente vertiginosa da portare alla mente solo gli episodi ritmicamente più arditi di Yma Sumac. Mina sembra letteralmente volare sul brano, vive il ritmo come qualcosa di connaturato al suo sistema. La sua voce è assai cambiata, smette già i panni di voce di carattere e diviene “voce formata” dalla pratica e dall'ascolto, oltre che da una sigaretta per “riscaldare la voce” (dall'intervista a Giulia Fasolini e Massimo Guerini, “La voce artistica 2011”). Il testo del brano finge la filastrocca per bambini e di fatto è manifesto che celebra “la diversità”. Surrealtà pura che andrebbe rivista con occhi nuovi e non con quelli di un revival spensierato che va a mozzare gran parte del pezzo per tenerne solo la frase melodica più nota.
“Il cielo in una stanza” di Gino Paoli affianca una melodia semplicemente sublime a un sostegno ritmico jazzy dettato da batteria e pianoforte. Gli archi danno enfasi al tutto. Pur cristallina, la voce non si allontana dall'imitazione diretta di Modugno, andando ad accentare ogni vocale d'appoggio con un fare di maniera. Come detto, la canzone avrà successo planetario e stazionerà nelle classifiche italiane per 27 settimane. Il testo a leggerlo retrospettivamente è davvero leggero (l'accentuazione del sostantivo “immensità” e dell'aggettivo “infiniti” non rendono poesia ma parafrasi della stessa), seppur facente riferimento a un incontro consumato da Paoli in una casa d'appuntamento di Genova (illegale, essendo queste ufficialmente bandite dalla legge Merlin nel febbraio del '58), in una stanza dal “soffitto viola”. L'autore non era iscritto alla Siae, di cui è stato poi presidente indagato per evasione fiscale, e fu Mogol a tentare di convincere Mina a cantarla, visto il rifiuto di diverse sue “comprimarie”. A convincere la futura “tigre di Cremona” saranno le case discografiche e certo lei vantaggio ne trasse. Tra le tre versioni incise, la più diretta e coinvolgente è, per chi scrive, quella del 1988. Renato Sellani al pianoforte trasfigura la melodia in un incanto di fraseggi e armonizzazioni di un'eleganza sublime, che raggiunge l'acme interpretativo nella pirotecnica sezione finale. Mina, dal canto suo, si appoggia alle parole come a stringerle con tenerezza, quasi a non volerle abbandonare. “Immensa”, appunto.

Mina - Giorgio GaberLa quantità di singoli incisa diviene a questo punto sovrannaturale e pari ai successi conseguiti. I temi sono tutti di una leggerezza ormai perduta, quella leggerezza di chi aveva ancora grande voglia di affacciarsi al futuro con stupore, coraggio ed entusiasmo.
È il 1963 quando la cantante torna in Rai dopo esserne stata allontanata a causa dell'unione con Pani, ovviamente poco gradita ai costumi dell'epoca. Il brano che la consegna come interprete brillante ma anche pensosa è il beat di “Città vuota”, versione italiana di “It's A Lonely Town” di Gene McDaniels. Il canto iniziale appare profondamente cupo nel timbro, cosa fin qui non ancora attribuita alla voce-Mina. Nell'inciso, però, la voce vola su cristallini acuti in una progressione ascendente di grande effetto, per quanto permangano le caratteristiche del “finto inglese” nella pronuncia (che qui inizia a trasformare le vocali: “me” suona “mei”) e dell'appoggio marcato alla Modugno. Sua comprimaria in questi anni è principalmente Rita Pavone (notevole la sua “Cuore”) che mostra stesse cadenze e identico interesse per una musica di grosso impatto ritmico. La “rivalità” presunta con Milva è assolutamente risibile, in quanto questa è cantante che sin dagli esordi si distingue per un duplice repertorio, uno studiato per compiacere il pubblico (comunque tutt'altro che scontato, nel racconto di “L'ultimo tram” e nell'arrangiamento orchestrale di “Sbarre”) e che la vede, contralto, diretta discendente di Nilla Pizzi, e un altro dove è l'elemento teatrale, attraverso una ricerca che si spingerà assai oltre il semplice canto, a renderle gloria lontano dall'Italia, paese dove l'esser dichiaratamente comunisti era visto con grande sdegno se non da una ristretta intellighenzia.

Nel 1964 viene pubblicato un album omonimo. Il perché è chiaro, qui è il jazz a essere protagonista e Mina se ne fa interprete piacevole ma solo a tratti di lusso. “Stella by Starlight” è l'eccezione che fa la differenza. Sostenuta da un arrangiamento orchestrale tale da avvicinare la nobiltà di Duke Ellington e la briosità ritmica della musica latino-americana, la versione fa riferimento diretto a quella di Frank Sinatra, per quanto il brano sia già standard riconosciuto, suonato e cantato da Charlie Parker, Stan Getz, Nat King Cole, Ray Charles, Tony Bennett, Ella Fitzgerald. Mina lo interpreta con superba leggerezza timbrica, eleganza e padronanza assoluta degli intervalli che la conducono da frequenze medie ad acuti brillanti e ricchi di sfumature timbriche/armoniche.

MinaIl 1965 è l'anno più intenso per chi ama la voce di Mina come soprano leggero e per i “puristi” che identificano in questa fase la nobiltà a loro detta “maggiore”, del suo timbro. La cantante in seguito negherà alcun interesse per un canto “tecnico”, accreditando questo, con ironia e intelligenza, alla costruzione innaturale e iper-barocca della voce di Cecilia Bartoli. Eppure la Mina di questi anni è voce essenzialmente tecnica. L'interprete Mina, come già detto, arriverà più tardi. “Brava” ne è la testimonianza più lampante. Brano scritto dal maestro Bruno Canfora, si presenta come un puro esercizio di stile, per quanto gestito in maniera esemplare, tanto nella scrittura per orchestra che per l'interpretazione vocale a dir poco vertiginosa. Un vortice d'arpeggiati d'archi introduce il tutto. È orchestrazione che trae diretta ispirazione dalle colonne sonore per i film di Walt Disney. La voce inizia il suo percorso con dei ribattuti di Do 4, per poi lanciarsi in velocissimi fraseggi pari a scioglilingua che si fermano di volta in volta su trilli, cadute su note gravi da mezzosoprano (bisogna dirlo, con scarsi armonici), onomatopee, aperture di gran lirismo melodico, corredate da prove di bravura nel volare di ottava in ottava, emulando suoni strumentali e prove di fiato a lunghissima tenuta. Il finale ad effetto, che da qui in poi diventerà una sorta di costante (tutti i cantanti di “voce estesa” non ne sono stati immuni, da Yma Sumac a Tim Buckley, da Peter Hammill fino a giungere a Nina Hagen, Giuni Russo e Jeff Buckley. Diverso il discorso di Diamanda Galas, Meredith Monk, Bobby McFerrin, Mike Patton…), prevede un sovracuto Do 5. Una delizia per le orecchie e qualcosa di più di un semplice “brano pop”. Canfora probabilmente non è estraneo alla conoscenza del lavoro di Cathy Berberian e il suo direzionare Mina in quell'ambito sortisce un grande effetto. Da qui, per ammissione indotta e “accettata” in quanto ruolo, Mina diventa la più abile ugola d'Italia.
Eppure una cosa va detta: l'estensione vocale c'è qui e ci sarà in futuro, di gran rispetto, ma non miracolosa come si vuol far credere. Tutte gli interpreti pop/rock (ma anche jazz) in materia di “voce estesa”, nel risultato di superare i limiti del canto di registro, hanno prodotto suoni “brutti” se intesi nell'accezione del “bel canto”, “di carattere” se intesi in un'ottica jazz, blues o rock. Gli acuti di Tim Buckley sono stati prodigiosi, ma assai nasali in voce piena, peggio in falsettone e l'intonazione è spesso stata ondivaga (“Jungle Fire”), ma quanti hanno comunicato un senso di dramma così universale, proprio nella necessità di ampliare la tavolozza con cui dipingere cielo e terra attraverso la voce? Demetrio Stratos ha prodotto falsettoni veramente brutti in un'ottica di “bel canto” (in “L'abbattimento dello Zeppelin” non è certo Angelo Manzotti, o Philippe Jaroussky), di cui giustamente nulla gli importava, e i suoi suoni in acuto pieno erano spesso strappati e rochi, ma potentissimi, centrali, armati. Giuni Russo, cantando in voce piena era nasalissima e con un carattere tipicamente popolare, sgraziato (“Nell'orror di notte oscura”, il finale di “Crisi metropolitana”, “Lettera al Governatore della Libia”), nel passare in suono di testa sapeva essere perfetta come priva di armonici sulle frequenze meno spinte (ancora il finale di “Crisi metropolitana”, nel cantare “mi ami o no?”), eppure aveva un arsenale di colori. La stessa Cathy Berberian, nel cantare “Girl” dei Beatles, suonava farsesca, ma con consapevolezza. Un caso a parte rappresentano Yma Sumac e Bobby McFerrin. La realtà è che il termine “voce estesa” abbraccia ogni tipo di emissione, bella e brutta che essa sia, funzionale (nell'ottica di Gisela Rohmert) e non. Nell'imparare a produrre “subarmonici tuvini” e frequenze “di fischio” estreme, tutti (o quasi tutti) possono emettere sei, sette ottave d'estensione con qualche fisiologico buco in mezzo, non solo un Nicola Sedda. Ecco, Mina senza sapere tutto questo che è arrivato poco a poco, era dentro tutta questa discussione e c'era pienamente, come ci sarà in futuro, in rari episodi, ma ci sarà.
A questa prova di “bravura” fa eco un prezioso medley che raccoglie “Someone To Watch Over Me/ But Not For Me Lady Be Good/ The Man I Love/ I Got Rhythm”. La voce di Mina eccelle in particolare nella lettura di “But Not For Me Lady Be Good” e “The Man I Love”. Nella prima la cantante avvicina non di poco il canto di Sarah Vaughan, pur trovando una leggerezza ancora più marcata in acuto. Stessa cosa su “The Man I Love”, dove permangono qua e là qualche deriva di melodramma e, meno gradito, qualche carattere drammatico enfatizzato.

Discorso diverso per “E se domani”. Jazz ballad condita da arrangiamenti orchestrali di una cristallina purezza, il brano presenta una melodia magnifica quanto struggente. Il testo abbandona le classiche “certezze” della canzone fin qui affrontata per interrogarsi sulla possibile perdita di un amore, cosa all'epoca già destabilizzante. Mogol è qui paroliere sublime nell'indicare un senso di caducità degli affetti che Paolo Conte avrebbe portato alle estreme conseguenze con “Insieme a te non ci sto più”, affidata alla voce nasale (…ops, di carattere) di Caterina Caselli. “E se domani” è una canzone straordinariamente attuale, cantata con partecipazione emotiva sempre più intensa col passare degli anni. Pubblicata originariamente nel 1964 e poi come Side B di “Brava”, sarà re-incisa in più versioni, nessuna delle quali trascurabili, ma è dal vivo che il brano acquisterà una quota interpretativa di autentica bellezza, in particolar modo nei portamenti che conducono all'acuto liberatorio che ne è acme, anche di potenza, e che prelude a un finale malinconico e mesto. Uno dei pochi e primi standard jazz italiani tout court. Una meraviglia che fa storia a sé.

Si rallenta intanto la mole di 45 giri, perché da un pezzo i long playing stanno iniziando ad avere un riscontro commerciale d'interesse. L'Italia comincia ad apparire “fuori tempo” nelle proposte musicali. Nel 1966 Bob Dylan pubblica “Blonde On Blonde”, i Beatles “Revolver”, Frank ZappaFreak Out!”. L'aria ovunque è effervescente, da tempo. In Francia da quasi un decennio la nuova canzone d'autore ha prodotto capolavori inestimabili, non solo in quanto a scrittura musicale, ma anche in quanto a un'attenzione alla scrittura dei testi che è contestazione sociale senza sconto alcuno. Da qui a poco molte cose cambieranno e Mina se ne farà solo in parte portavoce, legata com'è a una televisione che diventa sempre più intrattenimento, seppur nobile.

Mina - Il 45 giri di Se telefonandoPer lei il 1966 è anzitutto una canzone e si chiama “Se telefonando”. Le musiche sono ad opera di Ennio Morricone, compositore e direttore d'orchestra che nel 1964 era entrato a far parte del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, collettivo di compositori classici fondato da Franco Evangelisti in risposta alla persistenza in Italia e non solo dell'attenzione a una musica “seriale”. Musica che aveva fatto della dissonanza, portata alle estreme conseguenze con la dodecafonia, un urlo contro le rovine seminate dall'ultimo conflitto mondiale. Luigi Nono, tra i massimi compositori italiani dodecafonici e pure estimatore di Mina, per la quale avrebbe tanto desiderato scrivere (desiderio negato dalla morte, che ce l'ha portato via nel 1990) ebbe ad affermare “dopo Hiroshima non può più esserci poesia”. Il serialismo veniva accusato di portare a un progressivo allontanamento della gente dalla musica classica, in un passato neanche troppo lontano sulle bocche di tutti attraverso le più note arie operistiche. Non solo, in America dove l'improvvisazione jazzistica aveva destabilizzato il classicismo puro, John Cage aveva affrontato da tempo i percorsi di alea e indeterminismo, avvicinandosi alle teorie orientali applicate al metodo compositivo. Cage stesso, approdato al movimento Fluxus, da cui Nuova Consonanza aveva tratto vaghi elementi, aveva partecipato al celebre telequiz “Lascia o raddoppia” condotto da Mike Bongiorno, in qualità di esperto di funghi. La sua partecipazione al programma televisivo era stata intesa dal compositore in qualità di happening, ossia “accadimento artistico in tempo reale e circoscritto al momento in cui si manifesta”. Un “accadimento” che gli fruttò in quanto concorrente, la non modica cifra di 5 milioni di lire (!).
In seguito alla sua performance da “concorrente”, Cage si era esibito nel concerto “Water Walk” nel quale aveva suonato come strumenti una vasca da bagno, un innaffiatoio, cinque radio, un pianoforte, dei cubetti di ghiaccio, una pentola a vapore e un vaso di fiori. La reazione del pubblico fu di sbigottimento, incredulità prossima al dileggio, emozioni pienamente appoggiate da Bongiorno. Il dialogo tra compositore e conduttore televisivo riportato integralmente su Wikipedia, è testimone di un'Italia televisiva arrogante “ombelico del mondo”, completamente estranea a istanze avanguardiste. Quando Bongiorno chiede a Cage se sarebbe rimasto in Italia o tornato in America, Cage risponde “Mia musica resta”, Bongiorno ribatte “Ah, lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui”. Cage ottenne certo il suo risultato, ma la sua musica “restò” in Italia solo in ristretti circuiti accademici e tra le file della Cramps di Gianni Sassi, per poi finire, come e più delle avanguardie del Novecento, come spauracchio in un calderone chiuso a chiave e saldato a fuoco con cura, affinché nulla ne potesse emergere.
Morricone respira quest'aria di diffidenza e, entrato da anni in Rai, si distingue per la scrittura di melodie di una potenza evocativa neo-romantica fuori dal comune e tale da renderle immortali nella memoria collettiva, in particolare nelle colonne sonore da lui scritte. Al tempo stesso il compositore è autore di canzoni arrangiate in modo rigoroso, personalissimo e con linee vocali di una grazia intramontabile. Il massimo condensato lo si ascolta in “Metti una sera a cena”, “Ridevi”, ambedue da “Dedicato a Milva da Ennio Morricone” (che arriverà però nel 1972) e in “Se telefonando”. L'apparentemente semplice melodia si ripete in un ciclo ascendente di modulazioni armoniche che sembra non avere fine. Il testo, opera di Maurizio Costanzo e Ghigo De Chiara, racconta con dovizia di particolari tangibili, senza desiderio d'astrazione alcuno, l'elaborazione del lutto di una storia d'amore conclusa. La voce di Mina compie il miracolo finale trasformando questa fine di una romanza, in catarsi pura. Un contemporaneo “inno alla gioia” con coscienza decadente.

Ma ancora il verbo jazz fa capolino in questa decade speciale. Nell'album Mina 2, ancora del 1966, compare un brano dal titolo “My Melancholy Baby”, scritto da Ernie Burnett e George A. Norton, portato al successo nel 1912 da William Frawley. È plausibile che Mina ne sia venuta in contatto tramite la versione di Judy Gardland. Ad ogni modo l'interpretazione che lei dona del pezzo è assolutamente personale e ricca di spunti interessanti. Augusto Martelli (aka Bob Mitchell) ne cura i sofisticati e raffinatissimi arrangiamenti. La voce dell'interprete, preannunciata da una carezzevole intro d'archi, vola subito su frequenze acute, accarezzate con superba leggerezza, per farsi carica d'armonici nel ricadere su frequenze gravi e volutamente sporcate, con un fare tipicamente “alla Fitzgerald” non appena compaiono gli ottoni a tuonare. Mentre gli archi conservano una dimensione quasi fiabesca, il canto sfodera una tavolozza di colori che trasfigura ogni parola in mille di mille. È un continuo saliscendi: in acuto leggiadria, sulle frequenze gravi un appoggiare i crescendo orchestrali. C'è spazio anche per un solo di tromba, sostenuto da ribattuti al pianoforte. Mina chiude con un'eleganza unica di timbro e fraseggio. Puro incanto.

Mina - Fabrizio De AndréNel 1967, Fabrizio De André è cantautore della scuola genovese ben poco noto. Ha pubblicato diversi singoli a partire dal 1963 e il suo primo long playing (di fatto una magnifica raccolta) è del 1966. Contiene una struggente ballata che racconta di un fatto di cronaca. La Gazzetta del Popolo, il 29 gennaio 1963, riporta la notizia del ritrovamento nel fiume Olona del corpo di una ballerina/prostituta, all'anagrafe Maria Boccuzzi, ferita a morte da colpi di arma da fuoco e lasciata annegare ancora agonizzante. De André, da sempre cantore di uomini e donne “ai margini”, rimane colpito dalla notizia e decide di “reinventare la vita e addolcire la morte” della giovane vittima. Il brano arriva alle orecchie di Mina, ormai già talent scout e agente di sé stessa, che decide di cantarlo proprio mentre Faber sta meditando di abbandonare la musica. Il brano si chiama “La Canzone di Marinella”. La versione incisa dalla cantante quell'anno, mi spiace dirlo, è davvero un calcio in culo alla poetica di De André. Mina col folk non ha nulla a che spartire, sta ancora asciugando un carattere vocale estetizzante che per nulla si addice alla semplicità disarmante quanto immensamente profonda del brano. L'arrangiamento le fa eco in modo da trasformare in una “favoletta” il crudo racconto di autentica poesia. C'è molta ignoranza in questa versione. La cantante ha ben intuito il valore di Faber, ma non se ne mostra all'altezza. Il pubblico neanche. Accoglie questa “favola contemporanea” con non poche reticenze e De André coi diritti Siae incassati potrà proseguire la sua miracolosa strada.
Vent'anni dopo, però, Mina è altra cantante, mentre il cantore/poeta genovese è assurto ad allori di pubblico e critica: viene così concordata una nuova incisione come unico inedito per la raccolta “Mi innamoravo di tutto”, pubblicata nel catalogo di De André. Bene, questa versione, non me ne voglia nessuno, è la più bella. Mina canta con Faber e le due voci si integrano in modo magnifico. Il folk si sposa al jazz in modo straziante. L'arrangiamento acustico è perfetto, per quanto Massimiliano Pani faccia di tutto per inquinarlo con tastiere dozzinali che fortunatamente fanno effetto tappezzeria. Danilo Rea sciorina un'intuizione dietro l'altra appresso al solido basso di Massimo Moriconi e alla batteria di Alfredo Golino. Mina appare danzatrice capace di volare dentro e fuori la griglia ritmica, con una sapienza che nessuna voce pop italiana ha mai saputo gestire, perché qui è il jazz che le vibra addosso, prima di dar fiato alle corde. Corde piene di malinconia oltremisura che trascinano le parole come in un melodramma sotto benzodiazepine. De André canta con passione vivida e àncora il suo canto alla sezione ritmica, come a guidare con forza e rabbia la linea melodica. La profonda tessitura da basso che gli appartiene e la sua secchezza drammatica fanno da fulcro attorno al quale la voce-Mina è libera di fluire in tutte le sue sfumature più nobili, dal sussurro al pieno armonico mai urlato, che chiude con un'armonizzazione sublime in sovracuto soffiato (sì, Mina ha prodotto centinaia di brani in acuto soffiato, in barba a chi la accusa di saper solo “urlare”). Capolavoro. Esempio di classe sopraffina. Il compianto cantastorie ebbe a dire a Vincenzo Mollica: “Ci vuole proprio un bel coraggio a cantare con Mina ‘La canzone di Marinella’, perché la sua voce è un miracolo. Credo che lei sia nata con la musica nel Dna, è come se avesse avuto una memoria prenatale della musica. Questo è un fenomeno tipico della genialità: quello di sapere prima di conoscere”. Io ribatterei dicendo che ci vuole coraggio a cantare le tue canzoni, Fabrizio, così semplici e complesse, che a mutarne una sfumatura rischi di cadere nel ridicolo e a eseguirle nel tuo modo ti si reca offesa, nonostante tu cantante mai ti sia definito. Mina, che hai lodato anche nelle prima lettura della tua arte, infine a cantarti c'è riuscita. Mi auguro per te che non ci sia alcun “mondo altro” dopo la morte a farti sbellicare dalle risa nell'ascoltare Franz Di Cioccio, che pure amico ti fu.

Mina a Canzonissima con Totò, Lelio Luttazzi e le gemelle KesslerIl 1968 è l'anno in cui il binomio Mina/Canzonissima raggiunge livelli inaspettati. Dedicato un album di canzoni leggere nel '66 al suo legame col programma Studio Uno, durante questo anno si esibisce in due gioielli di grazia esecutiva che in Italia non hanno precedenti, ma che anche all'estero non trovano corrispondenza per re-invenzione del linguaggio afroamericano con una naturalezza quasi imbarazzante. I brani sono “In The Mood” di Joe Garland (ma classico del repertorio di Glenn Miller) e “Lullaby Of Birdland” di George Shearing/George David Weiss. L'arrangiamento della prima non trova grandi divergenze con quanto inciso da Miller. Mina dapprima accarezza il canto del tema principe in maniera asciutta e senza alcun eccesso di carattere, per lanciarsi presto in uno scat ricco di sfumature timbriche, a fungere da strumento principale. La sua voce diventa strumento a fiato. Il tema, dopo le variazioni vocali, si ripete ben tre volte, col canto a diminuire progressivamente di potenza per riaccendersi in una variazione da capogiro fatta di scale discendenti e poi ascendenti, floride di abbellimenti (trilli e mordenti) fino ad un Re 5 finale da brivido. Un'interpretazione da lasciare ammutoliti.
Allo stesso modo, “Lullaby Of Birdland” la vede gestire un ritmo marcatamente sincopato su intervalli discendenti, accompagnato da schiocco di dita, con la voce ricca di sfumature timbriche e colori interpretativi. Qui, però, l'arrangiamento è ben più ricercato. Un bel solo di sax fa da ponte, seguito da un intervento di tromba. Poi il contrabbasso ad anticipare il flauto e la chitarra elettrica in uno sciorinare bellezza a profusione. Poi è la voce-Mina a disegnare vocalizzi di abbellimenti assortiti. Entra la batteria, si ripetono le imitazioni vocali degli strumenti a fiato pari a cinguettii, rientra la batteria e la voce torna a salire, seppur con qualche nota appena fuori fuoco, ma peccato assai meno che veniale. Il finale pirotecnico vede la cantante partire da un Do grave per proseguire in una scala di intervalli arditi fino a al Do 5. Che dire? È un anno magico.

Di “Cry” abbiamo già detto, ma qualche appunto in più certo ne renderà la grandezza più cara. Qui Mina affronta il linguaggio jazz con sfumature ancora più grandi, dalla sporcatura cercata a marcature ritmiche continue a sottolineare l'andamento dei fiati. La voce ha un vibrato ricercatissimo, chiara emulazione della tromba nello swing, sale in una ripetizione sincopata di un intervallo di terza a prova di fiato fino ad acuti cristallini che accolgono suoni blues, proseguendo con lo stesso andamento di una farfalla che danza roteando fino a spiccare il volo e chiudere con un fortissimo su un Fa 5 sovracuto. Sensazionale.

Ben tre singoli entrano di diritto tra le sue interpretazioni più nobili del periodo: “Vorrei che fosse amore”, “La voce del silenzio” e “Un colpo al cuore”.
Sono tre melodie bellissime. La prima, in particolar modo - a firma del maestro Bruno Canfora e di Antonio Amurri - è capolavoro vero. Si ripete il miracolo di “Se telefonando”. Il testo è semplicissimo ma non banale. Il tema, anticipato da un pieno orchestrale, si ripete due volte e la cantante lo gestisce come uno standard jazz, usando a modo suo, ma con una pienezza di medi di gran carattere, la voce come strumento a fiato. Si accende e si spegne in potenza nel decollare in acuto e trovare spunti riflessivi sulle note più gravi, accarezzate con dolcezza struggente. A chiudere una nota medio-acuta tenuta a lungo e in potenza, a integrarsi con l'orchestra tutta.
“La voce del silenzio” è un brano scritto da Paolo Limiti assieme a Mogol ed Elio Isola. Il testo di Mogol incontra già riflessioni di gran bellezza “e improvvisamente ti accorgi che il silenzio ha il volto delle cose che hai perduto”, recita nel momento che prelude al consueto acuto dell'inciso. L'arrangiamento suona oggi un po' pesante, soprattutto in certi interventi di fiati che nel volere essere contriti nella citazione bachiana a un Preludio dal Clavicembalo ben temperato, avvicinano un fare da “banda funerea”. Anche Mina carica l'interpretazione di eccessi di carattere, non tali però da rovinare una buona resa complessiva. Bella, in particolare, l'interpretazione tratta da Del mio meglio (primo volume).
“Un colpo al cuore” di Bigazzi/Capuano è brano che parte come una ballata e si sviluppa con un arrangiamento nobile e moderno (riemerge il beat), ricchissimo di colori e intuizioni. L'alternanza tra frasi ritmiche e momenti più lirici permette a Mina di liberare il suo intero repertorio vocale, da marcature ritmiche a dispiegamenti vocali in piena potenza, ma tali anche da affrontare graffiati senza alcuna volgarità. L'interpretazione è qui asciutta, perfetta, senza eccessi di carattere e complice anche il bel testo, rende il brano il più contemporaneo tra i tre.

Mina - Paolo LimitiNel 1969 Paolo Limiti va a consegnare alla cantante il “suo” capolavoro “Bugiardo e incosciente” pubblicato come singolo e sul cd che ne parafrasa il titolo. Capolavoro di testo, perché la melodia, di un'eleganza che va a consumare l'aggettivo “struggente”, è su firma di Joan Manuel Serrat (il brano è adattamento di una canzone pubblicata in Spagna due anni prima). La prova vocale di Mina qui abbandona ogni ricerca strettamente tecnica per raggiungere esiti esclusivamente drammatici. Si potrebbe ad ogni modo parlare di “virtuosismo drammatico”, perché la cantante, come in rari episodi passati, cura ogni sfumatura all'interno della singola parola, dandole colore, ritmo, accensioni, spegnimenti, sussurri, sospiri, crescendo mai stucchevoli. L'orchestra è inizialmente sostituita da una semplice chitarra acustica a cui vanno ad aggiungersi prima una sezione percussiva, poi il canto di una viola, in contrappunto ispirato. Man mano che il brano avanza, cresce anche l'arrangiamento, per tornare a lasciar spazio alla sola voce. Sì, perché qui Mina è diventata finalmente interprete matura. Probabilmente la bellezza delle liriche, a raccontare un amore concluso al quale non si riesce a dare la dimensione oggettiva di una “fine”, in modo quasi masochista (molto più che una premonizione di “Minuetto” a firma Franco Califano per la stupenda voce di Mia Martini), viene vissuta come qualcosa di proprio, profondo e intimo, e tale è la resa per chi ascolta questa autentica meraviglia. È questo un classico autentico con cui qualsiasi interprete degno di questo nome deve cimentarsi. Gli uomini, eccetto Carmelo Pagano, si astengono, vista la natura del testo; la canteranno invece Ornella Vanoni, Rita Pavone, Jula de Palma, Anna Oxa. Spiace fare confronti, ma non c'è termine di paragone alcuno. Questa canzone sembra scritta, cantata e arrangiata oggi, e questo, quarant'anni, dopo è segno di puro genio corale.
Curiosità, il lato B del singolo, “Una mezza dozzina di rose” vede Mina come co-autrice, cosa già accaduta in un paio di occasioni in passato. Che la cantante sia stata capace di scrivere per dar voce al suo sentire, è cosa ben poco nota, indipendentemente dagli esiti, invero modesti.

D'ora in poi quella di Mina diventa storia di album. Se n'è discusso prima, ma qualche brano in particolare merita un'attenzione maggiore.
Nel 1970 Mina canta “Io e te da soli”, a firma Battisti/Mogol. Il brano ha tutte le caratteristiche più nobili del repertorio della coppia della canzone d'autore italiana per eccellenza (il testo ha il classico populismo facilone del primo Mogol: “Cosa stai dicendo/ io sto già morendo”). La voce della cantante si affaccia con negritudine al pezzo, cantandolo con sporcature di colore assai efficaci, ma anche con la consueta “maniera” interpretativa. La versione in studio merita una nota di merito, per l'arrangiamento per chitarra di Franco Mussida, assai più che semplice turnista. La canzone incontrerà la sua massima resa nel citato Dalla Bussola del 1972. Qui la voce si fa interprete a tutto tondo del brano, non esaspera i colori, li distribuisce con senso di misura e l'anima “black” di Mina, vien fuori in tutta la sua potenza di armonici, anche nel lunghissimo fraseggio finale in vocalese a lunghissima tenuta di fiato, dopo due spettacolari break della Big Band, a lanciare il canto sul “non devi dirlo mai”, che appare una vera invocazione. Tutti i colori del mondo espressi in un quadro espressionista a tinte forti. Tutto appare più sicuro, vissuto, contestualizzato, nell'essere lontano dagli archi dell'arrangiamento di Gian Piero Reverberi e da cori troppo preminenti come nella versione su disco.

Mina - Battisti - MogolQuest'anno è però unanimemente considerato l'anno di “Insieme”, ancora a firma Battisti/Mogol. La melodia è celestiale e gioiosa, l'arrangiamento si muove minimale e ricco di spunti strettamente contemporanei. Il testo di Mogol, come d'abitudine, è quanto si può accreditare, con un fare tutto italiano, a “una signora”. Mina lo nobilita con una bella interpretazione seppure non parca di marcatissimi e noiosi birignao. Un classico, studiato a tavolino per essere tale e per conquistare classifiche.
Molto peggio il testo dell'altra ballata “Amor mio” (1971), della stessa premiata ditta, con rime baciate tali da risultare pari a “poeti da Ginnasio”. Mogol del resto si è sempre vantato di scrivere un testo in pochi minuti (“sono canzonette”), con sistemi metrici da anni Dieci. Quando la richiesta di impegno, non necessariamente politico, ma almeno tale da non ripetere la stessa solfa di decenni addietro, lo spingerà a scrivere le liriche di “La collina dei ciliegi”, “Questo inferno rosa”, “Abbracciala abbracciali abbracciati”, “Gli uomini celesti”, “Anima latina”, molte cose saranno cambiate e certo questi pezzi Mina non vorrà mai cantarli. La cantante riconosce il valore facile e al tempo stesso complesso delle creazioni di Lucio Battisti (non cita però Mogol) definendole nella lettera pubblicata per la raccolta “Paradiso” melodie per “i garzoni mentre vanno in bicicletta a consegnare il pane, i bambini e tutte le madri d’Italia mentre preparano il pranzo per i propri cari”. Questa “ode alla canzone facile” - quando la cantante si è spinta a interpretare il jazz prima detto, ha cercato le penne di cantautori dalla scrittura tutt'altro che facile e si appresterà a far suo Piazzolla così come Inni Sacri d'ogni epoca - ne conferma la profonda incoerenza e volubilità, oltre all'incapacità di valutare da sola il suo percorso, se non sostenuta da abili direttori artistici, che presto arriveranno.

Intanto però è la successione di singoli davvero imbarazzanti a tener botta (“Grande, grande, grande”, “Parole parole”, “La mente torna”). Canzonette, che hanno perso l'apparente innocenza dei brani del decennio precedente e che cercano una dimensione diversa solo nella confezione sonica, risultando ridondanti e buone solo per compiacere un pubblico acquisito.
A salvare la “qualità” di quanto proposto dal fenomeno Mina sono una serie di esibizioni del 1972. Superata l'epoca di Studio Uno, l'interprete è regina assoluta di “Canzonissima”. È qui che Mina delizierà il suo pubblico con un'interpretazione incandescente di “Balada para mi muerte” di e con Astor Piazzolla. Non me ne voglia Milva, che certo col suo disco capolavoro “Live at Bouffes du Nord” è stata massima interprete del genio sudamericano, ma nessuna ha cantato il pezzo citato come Mina ha fatto. L'interprete entra nel dramma del brano a muso duro e l'affronta con una passionalità asciutta e violenta, soprattutto nelle prime frasi più pensose. Quando il brano cresce e si apre armonicamente, la sua voce cresce a strappare il cielo a morsi, per poi riatterrare contrita. Segue uno splendido solo del Maestro, al bandoneon. Ritorna la prima frase del canto, marziale e Mina scava le parole per tornare a decollare e questa volta senza sconto alcuno, fino a un finale incandescente, reso dall'orchestra in chiave trionfale. Standing ovation. Piazzolla non aveva mai considerato il tango argentino in qualità di “danza”, ma come nobile forma d'espressione popolare espressa in varianti d'arrangiamento che la classica contemporanea europea accoglie nell'Olimpo. Mina con lui vi entra di diritto. È ormai interprete “affamata”, feroce, capace di rendere nella foga dal vivo assai più che tra le algide pareti di uno studio di registrazione. È già “contemporanea”, in un'ottica estranea al pop, o forse più contemporanea di un accademico qualunque, perché “anche pop”.

Ho già detto quanto grande sia a mio avviso il lascito di Dalla Bussola. Qualche parola in più la spendo per “Fiume azzurro”. Firmato da Luigi Albertelli ed Enrico Riccardi, il pezzo era stato già eseguito a Studio Uno e pubblicato su un 45 giri promozionale, ma è nella sensazionale resa in questo live che acquisterà le stimmate di classico interpretativo. La canzone ha lo stesso andamento ritmico foriero di modulazioni armoniche intensissime a firma Battisti. Invero complessa la strofa che esplode in un ritornello con la batteria a gestire un andamento frammentato non dissimile da quanto fatto da Giles per i brani più ariosi di “In The Court Of The Crimson King”. Il pezzo però ha un'anima black. Mina incanta nei pienissimo, nei quasi recitativi, nella leggerezza quanto in un graffiato davvero roboante. Si lancia nel finale in un vocalizzo jazzy che nella foga incontra una stecca, assorbita immediatamente dalla voce come parto necessario di un'anima in fiamme, nel raccontare che ciò che voleva “non le basta più” (tecnicamente si parla di “riparazione dell'errore” ed è cosa emotivamente ancora più ardua della perfezione leziosa). Pazzesca. Mina è una macchina vocale macinasassi, travolge persino sé stessa. Nessuna voce italiana avrà una proprietà di linguaggio della cultura afro-americana così marcata e radicata. Non Rita Pavone, che nella maturità (raggiunta a 68 anni) regalerà un pur nobile “Masters” (2013), non Farida, ricordata quasi esclusivamente per l'altezzosa “Rodolfo Valentino” di Battiato/Pio, non il tecnicismo “quasi asettico” di Giorgia, la volgarità popolana di Iva Zanicchi e i trascinati manieristi di Ornella Vanoni. Solo Mia Martini saprà avvicinarvisi negli album “Danza” e “Miei compagni di viaggio”, ma con una gamma tonale (non parlo di sola estensione, ma di sfumature) e un fraseggio appena più esigui. Poi, l'enfasi drammatica di Mina sarà storia a parte e degna del più grande plauso, di quelli che meritano una disamina a parte, altrettanto curata.

Mina - Baby GateNel 1974, la cantante incide un disco, Baby Gate, dedicato al padre e agli ascolti adolescenziali, il jazz e poi ancora... il jazz. Figura nel mucchietto di canzoni una magnifica “Amorevole”, titolata a Vittorio Buffoli, Vito Pallavicini, Pino Massara, ma passata agli onori grazie a Nicola Arigliano. Arigliano è stato outsider italiano tra tutti. Innamorato del linguaggio afroamericano che si divertiva a sposare con il contrappunto bachiano (cosa assai cara alla grande Nina Simone), aveva seminato pochi successi ma di autentico spessore. Mina lo incontra in Rai e decide di incidere “Amorevole” già nel 1959, ma è nel '74 che il brano prende quota. L'andamento mesto di questa versione, come creata a luci spente e in presa diretta, accarezza viso e anima come il testo suggerisce. Mina ha una voce che sembra quella di oggi. Si sofferma su ogni parola scarnificandola e vive autentico struggimento, quanto puro erotismo. Quando canta il secondo inciso, si avverte la caratura di un'interprete davvero grande. Il suono del canto si alleggerisce stentoreo per seguire la melodia e ricade su sé stesso, sporcandosi di fumo e abbandona un “senza te”, come se quella fosse davvero la fine di ogni cosa. Appena una forzatura nell' “abbandonati” finale irrita un po', ma è peccato veniale per un'interpretazione figlia della migliore Sarah Vaughan, ma con una “voracità” nel linguaggio canoro che si ostina a cercare il senso più intimo del suono e dei versi, tale da non avere precedenti reali. Renato Sellani al pianoforte disegna geometrie di grande slancio lirico. Le pause hanno peso più del suonato e questa è pura aristocrazia in musica. Un vero gioiello da celebrare, per quanto non certo tale da poter sperare in plausi da classifiche di vendita.
Qui c'è l'Italia più nobile e il linguaggio è di caratura internazionale. Basterebbe questa sola traccia per indicare come non c'è stata un'unica Mina dalle buffe pose e da forzature del canto, ma tante, tantissime Mina, che vanno indagate negli angoli più nascosti e meno celebrati dei dischi. Non come in quei dischi che hanno voluto consegnarcela attraverso i singoli, sempre uguale a sé stessa, cosa assolutamente erronea per chi vuole capire il “mistero” di tanta grazia di voce. Una voce certo formata anche dalla maniera (tentazioni liriche incluse), ma che si è allontanata presto e a dispetto di quanto da lei sempre affermato con puro, necessario autolesionismo, perché per rilanciarsi è pur importante “ridimensionarsi” anche nel negare quanto fatto, nel bene e nel male.

È il 1975. Finalmente è il turno di una direzione artistica di lusso e a occuparsene è Gabriel Yared. Formatosi all'Ecole Normale du Musique di Parigi, il compositore a metà anni 70 non ha un curriculum di quelli che potremmo definire “avviato appieno”, ma ha idee davvero nuove. Ha consumato gli interessi “didattici” relativi alla musica classica, per avvicinarsi alla scrittura contemporanea atonale e si è pure cimentato con la canzone d'autore. Quando approda in Italia alla corte di Mina per firmare gli arrangiamenti di Minacantalucio, è chiaro che il suo peso nel disco va ben oltre quello del semplice “riadattamento” del percorso di Battisti. Yared chiede a Mina di cantare in modo “vivo, presente, ma scevro di eccessi di coloriture”. L'esito è fin qui inedito... per Mina. Mia Martini aveva avvicinato con “Padre davvero” una modalità di canto drammatica quanto asciutta e cruda. Non era più dato d'esser sordi a quanto arrivava dall'Italia stessa.
I colpi di genio di questo disco, di cui pure si è detto, sono tanti, ma su due voglio soffermarmi: “Non è Francesca” e “I giardini di marzo”. Il disco è inciso nella chiesa sconsacrata di Sant'Eufemia a Milano e gli echi di uno spazio assai più ricco di risonanze di un semplice studio si avvertono eccome. “Non è Francesca” si apre con una spinetta che suona tra barocco classico e nuova classica. Mina inizia ad accarezzare con leggerezza il testo come a “cercare qualcosa che non c'è”. L'orchestra d'archi le fa da contraltare maestoso a introdurre un racconto che pian piano diviene sempre più cupo, non appena le armonizzazioni vanno letteralmente a liquefarsi in una scrittura atonale, che prepara a un finale annunciato dal canto stentoreo dell'interprete “lei vive per me”. Come a rappresentare l'affastellamento di pensieri per la perdita subita, l'orchestra si lancia in un finale, anche questo atonale e sostenuto da interventi di fiati pari ad avvisaglie nefaste, che prosegue in puro delirio fino a concludersi “cesoiato”. Impressionante davvero. Nessuno in Italia ha osato così tanto e con tale cognizione di causa nell'ambito del “pop sinfonico” (qui in realtà avanguardia), neanche i tanti celebrati padri del nuovo pop/rock progressivo nostrano. Niente suona stucchevole, il racconto è lineare e disegnato a tinte fosche. Il tentativo di legare la canzone popolare con forme “classiche”, in Italia come all'estero, assai difficilmente ha avvicinato la scrittura strettamente contemporanea. Ci sono state band che ne hanno tratto esiti nobili, ma la maggioranza è caduta in eccessi postmodernisti, mostrando l'alternanza “a quadri separati” di istanze rock o pop a roboanti tessiture classiche (“L'isola di niente” della Premiata Forneria Marconi). La scrittura di Battisti su questa traccia è quella di un menestrello medievale puro e come tale ha chiara ascendenza “antica”. Il lavoro di Yared, non fa altro che dare risalto a questa scrittura, alterandone il tessuto armonico come in alcuni madrigali di Gesualdo da Venosa, autore a lungo dimenticato e guarda caso riscoperto proprio intorno alla metà del Novecento. Una scrittura antica quanto affine alle armonizzazioni contemporanee. La voce-Mina è qui semplice strumento assieme agli altri, ma è capace di tratteggiare il racconto in modo autentico e spirituale. Tutto quanto scritto concorre a rendere il brano estraneo a catalogazioni di sorta e lo pone in un'area di “confine” (mi viene in mente il lavoro di John Cale su “The Marble Index” e “Desertshore” di Nico) che non è stata mai sufficientemente indagata a suo tempo e non lo è neanche oggi, se non nei solchi del più ispirato Scott Walker. Un rischio perfettamente compiuto e assolutamente ammirevole.
Riverente ma non ossequioso, l'arrangiamento per “I giardini di marzo” è organizzato per dar risalto a una voce che qui tocca davvero il cielo. Qualsiasi interprete estraneo al concetto di “canali di risonanza vocali” deve considerare questa interpretazione come un passaggio obbligato del proprio percorso. Più che una canzone sembra di ascoltare un'aria sacra e Mina si fa carico della voce di tutte le donne del mondo ad aprire le porte di quell'“immenso”, costantemente reiterato nel testo. Nelle bellissime scene quotidiane evocate dal testo “il carretto”, “i soldi già finiti”, il ricordo di una madre, “i ragazzi che vendono i libri all'uscita di scuola”, scene che vanno a incontrare l'altrettanto cruda realtà di chi “alla sera al telefono chiede perché non parli”, Mina canta con una voce quasi soffocata, ammalata di un vivere che non rende quanto chiesto. Appena un vocalizzo sospirato e la voce s'inchioda su un “Che anno è?” che contiene tutti gli armonici di tutte le possibili voci. L'orchestra si ferma di conseguenza come in un inchino e prosegue con la cantante ad appoggiarsi sulle vocali per rivelarle in tutta la loro potenza, pur leggiadra, non spinta e tutti i loro colori. “Infiniti”, appunto. Brivido allo stato puro. Ancora nell'inciso, Mina marca come a ferire con una lama le parole “vivere”, “immensi”, “dolcissime”, abbandona il canto su “non tremano più”, “amor per te”, “malinconie”. La consapevolezza triste del “coraggio di vivere” che “ancora non c'è” è resa come in una confessione appena sussurrata. Nella seconda strofa la voce acquista più determinazione, pur sofferta nel “dicesti: tu muori”, per rimanere ancora sola nello struggimento di “continuai a camminare lasciandoti attore di ieri”, poi... il miracolo si ripete nell'inciso, dove “ho nell'anima” diviene sgranato, roco. Lo confesso, raramente ho ascoltato qualcosa di così commovente.

MinaNeanche due anni, con appena due 45 giri dati in pasto al “consumo” ed è tempo di nuovi azzardi. Il 1977 è l'anno della gemma per eccellenza, Mina quasi Jannacci, ma anche di un brano strepitoso, “Ormai”, tratto da Mina con bignè, che assieme al primo citato disco su canzoni del cantautore milanese, andrà a costituire album doppio, ma vendibile anche singolarmente.
Il brano è accreditato a Andrea Lo Vecchio, meglio conosciuto come autore della celebre “Luci a San Siro” di Roberto Vecchioni. Di romanza contemporanea si tratta, con un abito sinfonico che non prevede la classica struttura della forma-canzone, ma un solo tema che, parco, si apre per esplodere in un crescendo di rara sensibilità lirica. Su “Ormai”, Mina non canta le parole, le “crea” dando a loro suono, sillaba per sillaba, un infinito senso di struggimento carico di erotismo a chiamare a sé non solo l'anima ma anche il corpo dell'amante perduto. Uno struggimento che trascina le parole fino a smontarle, riempirle di significato anche nella pochezza oggettiva delle liriche. Quando Mina canta “non vivo più ormai” si spalancano i cancelli di un Eden che abbraccia l'intera romanza italiana (e non solo) più nobile. È la creazione di una nuova forma di drammaturgia, di cui l'interprete, all'acme della maturità artistica, si farà portavoce insuperata e, forse, insuperabile.
Si è discusso in modo esteso di Mina quasi Jannacci, ma in merito a due brani, vorrei spendere qualche parola in più. Si tratta di “Vita vita” e “Rino”. Se è facile esprimersi in merito a un pezzo come “E sa vè” dove brilla l'intuizione del sardonico e “liberato” racconto (perché si è tutti indifesi e veri davanti alla fine) di chi guarda la vita sfuggirgli attraverso il valzer degli occhi di chi ha attorno a un capezzale, i due brani citati hanno, forse, una marcia in più. “Rino” ha di per sé un titolo che nel fare riferimento al diminutivo di un nome, suona strano e sgraziato. La violenta confessione del testo non è da meno. Con un “non sono ubriaca”, pausa, “questa sera” si apre ed è già storia a sé. Se l'arrangiamento pianistico sospeso tra nuova classica e jazz è nobilissimo, la voce di Mina è qui un monumento. Asciutta, dolente quanto cinica, teatrale ma senza alcun eccesso di carattere, si fa peso della lettera scritta di una madre al figlio. Esortazione a “farsi volere tutti il bene che a lei, madre, non hanno voluto” e al tempo stesso estremo saluto del figlio che con questa lettera la madre ricorda. Mina impersona ambo le voci in un unico canto, raccogliendo il massimo da 1'15” a 1'30”, cantando il “mamma ti saluto” dalla voce di un figlio e il nome dello stesso (Rino), pronunciato in un'esplosione di pathos raccapricciante e con improvvisa esplosione d'archi dopo un canto che nel ricordo mostra la perentorietà della vita dinnanzi al giungere improvviso e inaspettato di una fine tanto nominata ma che nessuno conosce se non nella percezione della paura di essa. Non credo che alcuna corda d'animo e di strumento abbiano mai donato tanta violenza realista. Qui Mina è sinonimo di genio assoluto.
“Vita vita” esordisce con soundscape e poi valzer da musica folk su fischiettio zoppicante. Anche qui gli archi introducono il canto, questa volta direttamente in acuto. Un canto sofferto e indolente, che si concede naturali anticipi sull'andamento ritmico, prima di una minima ma essenziale variazione armonica, ad anticipare il rientro della sezione strumentale e del fischiettio di cui prima. Pochissimi elementi, ma misurati alla perfezione.

Si è detto dell'ultimo capitolo alla Bussola, di una cosa però ho voglia di parlare, dell'incontro in musica con Ivano Fossati, destinato ad avere un seguito molti anni dopo. Il cantautore genovese aveva già avuto un ruolo importante nella definizione dei percorsi delle sorelle Bertè, per Mia Martini, in particolar modo, aveva concepito quel grande gioiello della musica pop italiana che era e rimane “Danza”, che sarà pubblicato di lì a poco. Se Mia entra nella musica di Fossati con brani inediti e con una modalità interpretativa completamente sua, Mina compie un'operazione diversa. Nei due brani presenti su Live '78, “Stasera io qui” (in studio) e “Non può morire un'idea”, caso più unico che raro nella discografia dell'interprete, Mina ricalca, per affinità elettive, Fossati stesso. Di lui sposa graffiati, portamenti, caratterizzazioni, andandone conseguentemente ad accentuare tanto pregi che difetti in eccesso, inclusa una certa nasalizzazione. L'esito è ampiamente black, centrato, assai carico (qua e là troppo) ma ricco di profonda emozione. Quando su “Stasera io qui”, compare la variazione con la sua apertura, si respira di meraviglia. Nei solchi dei brani si soffoca d'espressionismo, un quadro a tinte forti che rimane memorabile, a monte d'ogni considerazione.

Il 1979 segna il ritorno in studio con un album esteso. Da Attila, l'ho anticipato, il capitolo che segnalo è “Shadow Of My Old Road”. In tempi odierni in cui il ritorno alla musica black è una realtà oggettiva, è un piacere riascoltare il brano, forte di una produzione degna della Motown di fine anni 70. Mina qui veste i panni di una spensieratissima, divertita e pertinente interprete/usignolo della migliore disco-funky con evidenti richiami a quanto inciso da Barry White. Il brano è sostenuto da una solidissima ritmica (splendido il basso elettrico, usato anche con la tecnica dello slap) e interventi di fiati superlativi. Il synth è chiaramente figlio di un periodo a tinte analogiche, ma ben si presta, tanto negli arpeggiati che nelle linee melodiche accennate. La voce fa da contraltare con frequenze medie e acuti cristallini, ma anche con le ormai consuete note graffiate. Un misero testo viene usato come pretesto d'esplorazione timbrica e di fraseggi estremamente fluidi, che ormai non si ascoltavano da anni e che in questa chiave non saranno più una sua prerogativa .Uno di quei pezzi che, se ascoltati da Kamasi Washington, passerebbero tutt'altro che inosservati.

MinaTre i brani del 1980 su cui voglio spendere qualche parola in più, “Voglio stare bene”, “Capisco” e “She's Leaving Home”. Lo si è detto, Kyrie è album discontinuo, ma con alcune delle intuizioni più brillanti e avventurose della carriera dell'interprete cremonese. Negli anni a venire sarà sempre più rara l'attenzione a esplorare sentieri portatori di un certo rischio, che qui si manifesta e anche con notevole nonchalance. Si è detto dell'elegante e aerea “Musica”, di chiara derivazione progressive, ma certo “Voglio stare bene” va oltre. Ovviamente l'epopea del genere è ampiamente trascorsa, ma questa mini-suite è gestita con gran dono della sintesi e accenni post-punk. La fiabesca introduzione con barocche tastiere e flauto richiama direttamente alla mente la Premiata Forneria Marconi, che poco prima ha arrangiato con enorme successo il primo live di Fabrizio De André. Neanche a dirlo, ciò che fa la differenza è la cantante. L'altezzoso prologo vede Mina impegnata con un'impostazione che certo tiene conto di quanto pur inciso dai Matia Bazar con Antonella Ruggiero, ma anche dagli Opus Avantra con Donella Del Monaco. Un'impostazione lirica a sostenere dei La di tessitura leggera (invero un po’ stretti e appena striduli, perché la voce qui il “lirico” va a cercare, seppur con evidente ironia). Il canto è letteralmente “appeso in cielo” nel cantare “Voglio la fine delle necessità, sguazzare nell'abbondanza, voglio i bastardi tutti quanti di là per chiuderli tutti...” e precipitare da suono di testa a risuonatori ben più gravi sul conseguente “insieme”. Brivido. Prima variazione ritmica (il testo recita “liberata dal domani, liberata dal sé e dopo, liberata dalla sete, liberata dal contagio”) e grande apertura su note gravi, come nel succedersi di un racconto per archi dove il canto è violino, viola e violoncello con assoluta naturalezza. Segue una classica progressione tastieristica prossima a una lussureggiante fuga e tale da portare indietro a “Photos Of Ghosts” e “Storia di un minuto”. La voce fa eco ai suoni analogici su un ardito saliscendi con il testo frammentato in sovraincisioni assortite, cantando “Voglio stare bene” con uno slancio che di prog non ha niente, ma che già conosce il linguaggio del nascente post-punk italico. Tutto esplode infine in un rochissimo e liberatorio “respirare” che lancia un solo di chitarra. Atterra la corsa delle percussioni e le voci, divenute coro, ritornano all'austera solennità d'inizio, questa volta con un lirico vocalizzato. La cosa curiosa è che l'autore di questo pastiche, Simonluca, condensa il tutto in poco più di tre minuti di pura carica energica, esuberante e fantasiosa. Sarò sincero: se il brano avesse avuto altra interprete, non sarebbe stato minimamente lo stesso gustosissimo esercizio di classe. Da riascoltare, rivalutare, incensare a dovere.

Allo stesso modo “curioso”, l'esordio in scrittura di Massimiliano Pani con “Capisco”. Qui la cantante ha un salmodiare iniziale da spoken word estremamente convincente (nel corso della canzone poi stucchevole) che esordisce dopo una briosa intro per pad di batteria elettronica supportata da accenti sincopati per band rock tipo, seguiti da un andamento funky. La cosa curiosa è che... Mina mentre canta “Capisco un fagiano baciarmi la bocca, capisco un vitello perder la madre, capisco un gabbiano leccare vernice, capisco un orologio ammazzare la vita”, sembra Lindo Ferretti. Tornano caratteri disco music a colorare l'ingresso dell'inciso, dove il canto diviene aggressivo e diretto, ritmico e con una progressione di ribattuti per lasciare poi spazio a un bellissimo break di chitarra ritmica acustica, basso vigoroso (Paolo Donnarumma) e conseguente solo di elettrica dal suono ricercatissimo e doppiato in fraseggio da voce in sovracuto leggero al pari di un cinguettio.
Energie” di Giuni Russo sarebbe stato pubblicato l'anno successivo, ma in questi solchi e in quelli più ispirati di “Kyrie” c'è un'introduzione di percorso.

“She's Leaving Home” è di suo creazione celestiale e qui il riadattamento della sezione d'archi è assai pertinente e centrato, nonostante, si sa, i fan dei Beatles non accettino sia toccato il millesimo di una virgola di quanto prodotto dai Fab Four. Mina non se ne fa un problema e centra qui la sua migliore interpretazione del loro repertorio. La voce dell'interprete che si sdoppia nel ritornello raggiunge picchi di una purezza immacolata e tale da trovare confronto possibile con la sola e primissima Barbra Streisand. Viene mal di gola a immaginare come quei sospirati sottilissimi siano stati emessi, a non voler disturbare, ad accarezzare con dolcezza il racconto sonico e del testo. L'orchestra, da par suo, raggiunge la perfezione in un arrangiamento, ad opera di Mario Robbiani (che per esso riceve pure un telegramma di congratulazioni a firma Lennon/McCartney), dalle armonie puramente cameristiche e pur colorate da sostituzioni jazz affidate al pianoforte. La chiusa incontra echi vocali misteriosi sui “bye bye” in acuto, mistero accentuato dagli accordi finali sui tasti d'avorio di Victor Bach. È il caso di dirlo: capolavoro di portata internazionale.

Degli anni 80 citerò un solo altro capitolo, che arriva dopo la bella rilettura di “Nature Boy” di Eden Ahbez.
Capitolo nuovo e a mio parere il migliore, della collaborazione con il duo Riccardo Cocciante e Giorgio Calabrese. Il brano, del 1986, ha titolo “Secondo me” e al pianoforte c'è, ancora una volta, Renato Sellani. Dello struggimento è stato tante volte detto e non si dirà mai abbastanza, tra le pieghe di un “secondo me si sta arrendendo qui l'eroica fedeltà” e in quella che si presenta come progressione armonica tra le più avvincenti del repertorio. Una melodia che accenna costantemente un esplodere che si palesa, infine e in acuto, da manuale ma per collassare su sé stesso e ritornare all'esposto iniziale. Una struttura circolare. Nulla che abbia a che vedere con una forma-canzone tradizionale, tutto che possa essere ascritto al nugolo delle grande intuizione di un recital francese colto a portare Jacques Brel alla corte della grande tradizione operistica italiana.

Quando tutto sembrava scorrere senza alcuna necessità di lasciare una minima variante su tema degna di lode, arrivano gli anni 90 a portare una nutrita manciata di gemme.
Se il truce racconto domestico in forma di tango di “Il corvo” (1991) era parso riuscito in buona misura, in particolar modo nelle aperture, sarà il 1996 l'anno di un ritorno in gran forma. “Volami nel cuore”, da Cremona, è un classico della canzone nostrana. Alberto Testa/Manrico Mologni, e Gualtiero Malgoni siglano un vero capolavoro di “adult music” nostrano. Una melodia perfetta, condotta con arrangiamenti tutto sommato retrò, perché figli di anni 80 ormai alle spalle da un pezzo. Nonostante questo, la voce è qui così “tanta”, perfettamente a suo agio nella vertigine ascensionale a cui il pezzo conduce progressivamente, da far da sé quanto la produzione riesce a ottenere solo in parte. Questa “ruggine di vento” sa essere carezza ricca di un'emozionalità con pochi pari.

Mina - NapoliSarà però il primo disco a concetto dopo tanti anni a riportare la qualità a livelli complessivamente di gran pregio.
Ne abbiamo già trattato e lo farò nel dettaglio, Napoli Vol. 1 (definito dallo stesso Massimiliano Pani, in un'intervista al Mattino, come disco “raffinato e coraggioso”) è un gioiello e due pezzi nel mucchio sanno fare la differenza, “Core 'Ngrato” e “Maruzzella”.
Nella prima torna un'orchestra da camera a fare da comprimaria al canto. È certo versione rispettosa, per quanto resa quasi a voler attestare il valore della canzone partenopea a quello di capitolo della tradizione operistica italiana tutta. Vi riesce di slancio, con esiti mille volte più convincenti di quanto fin qui ottenuto dai Tre Tenori, pochi mesi prima dell'uscita del disco in concerto al Wembley Stadium e poi negli Usa, al Giants di New York, col loro recital più memorabile. La solennità dell'overture orchestrale è qualcosa di magnifico e la direzione d'orchestra sa essere asciutta nella resa, quanto carica d'emozione. La voce ferma l'aria arricciando l'anima in un pugno contrito, sui soffiati leggerissimi di “core, core 'ngrato” al minuto 1'22” e basterebbe solo questo squarcio a raccontare il perché questa voce sia un monumento mondiale. È come se in quel piccolo anfratto di musica, la voce-Mina, qui registrata in presa diretta, come sull'intero disco, nel tornare con la mente a una giovinezza perduta, giovane si facesse per qualche assurdo corto-circuito. “E nun ce pienze cchiu” diviene liberazione affidata al canto con un'orchestra in crescendo improvviso, ma comunque arretrata, come a designare un'unica, nobile protagonista, Mina.
“Maruzzella” non è da meno, per quanto ogni purista del verbo napoletano qui non si sia astenuto dal dire la sua e con fare sdegnato. Mina è anche questo, però, una donna capace di osare e con ostinata caparbietà, qui ci riesce, altrove no (“Sulla tua bocca lo dirò”, dove il tentativo di avvicinare l'altare operistico con mezzi classici d'arrangiamento e voce pop irrobustita proprio non gira). Su questo brano l'intro orchestrale con voce fatta muezzin è superlativa, nelle corde di chiunque altro/a, sarebbe risultata posticcia, pretenziosa, brutta. Qui invece giganteggia come a dire “io posso tutto” (o quasi, aggiungerei). Il sopraggiungere di un combo jazz, in un improvviso cambio di quadro e registro emotivo ha suggestione cinematografica, suona riuscito completamente anche in fase di produzione, nel bilanciamento di volumi. Pur nel recupero dell'antico (o forse anche per questo), il brano suona ultra-moderno, nell'accezione di “contemporaneo” tout-court, qualcosa da dare in pasto ai musicologi più accaniti nell'indagine della musica come “indagine e accadimento”. È inumano quel concepire il passaggio dalla rarefazione evocativa di un'altro mondo a un intimo e apparentemente, fumoso, svogliato racconto a seguire. Un cinico night-club che dopo il secondo minuto incontra un curioso campionamento vocale e il rientro orchestrale a render tondo il cerchio dell'interpretazione. Ma non è ancora finito: sui versi “cchiù forte 'e ll'onne quanno 'o cielo è scuro”, la voce trova una caratterizzazione altra, quasi un'eco a sottolineare l'urto del cuore che, come dice il testo, “sbatte”. Sul finale il canto diventa stentoreo nel piegare il limite dell'intonazione con un fare espressivo completamente nuovo. Un'interpretazione di gran lusso, tra le più sofisticate mai partorite.

Qualche anno dopo (nel 2004), Giuni Russo pubblicherà “Napoli che canta” e sarà un'altra storia, pur più dispersiva, degna di assoluta attenzione, per quanto resa con mezzi assai più esigui.
È il 1997, anno del magnifico duetto con De André su “Mi innamoravo di tutto”, quando Mina entra in studio per cantare “Tre volte dentro me (Dentro Marilyn)” degli Afterhours. La voce canta le strofe doppiata su due registri contralto/soprano, prima di esplodere nell'inciso. L'abrasiva scrittura di Manuel Agnelli, qui trova un'interprete spaventosa nella resa dell'urlo rock. A vederla su palco, avrei immaginato questa donna credibile al pari di Layne Staley. L'assolo di chitarra elettrica nel brano è da pura vertigine, come lo è il secondo inciso, quando al canto graffiato in voce piena si sommano echi di straziati “respira!”. Memorabile davvero. Chissà se nella rievocazione del fenomeno grunge questo pezzo saprà trovare più spazio di quanto fatto da Nada molti anni dopo. No, purtroppo. Mina fa comodo anche e soprattutto a giovani autori, ma è ormai un'istituzione così “grande” da risultare “vecchia”, anche quando tale non è affatto.

Un “leggero” fluire verso il cielo di frequenze pari a squittii apre il rifacimento di “Suona ancora” dei Casino Royale. Brano invero anonimo di suo, ma qui la confezione fa la differenza e questa confezione ha un merito, quello dell'incredibile talento delle Voci Atroci. Nei 7 minuti di un pezzo che scorre assai agile, la voce-Mina, non di rado a imitare l'ormai consacrata Giorgia (con la quale duetterà nel 2007), trova un consolidato jazz mood mandato in acido nella sezione che conclude la prima sezione del pezzo (4'10”) a ripetere “suona ancora”. Divertentissimo tutt'oggi. Un gioco per niente scontato che “crea dal nulla un brano inesistente di suo”, da chi il rischio lo vede come una meta, non come un baratro.
La cosa curiosa è che il disco esce in contemporanea (ottobre 2007) al memorabile “Registrazioni moderne” di Antonella Ruggiero, dove la cantante genovese rivede in modo vincente il proprio repertorio con al suo seguito, tra gli altri, Subsonica, Bluvertigo, Scisma, Ritmo Tribale, Banda Osiris, Timoria. L'esito è di quasi totale offuscamento del passo mosso dall'interprete di Cremona. Bizzarro, ma vero. A distanza di vent'anni e più, però, i due brani citati meritano grande attenzione.

Deve trascorrere qualche anno perché torni un nuovo capitolo “a concetto”. L'anno del Grande Giubileo (2000), iniziato con l'apertura della Porta Santa durante il cerimoniale di vigilia natalizia, per mano di un sofferente Giovanni Paolo II. Le iniziative musicali e artistiche che si susseguono nell'anno annunciato da veggenti come quello della “fine del mondo conosciuto” e di un “Millennium Bug” (o Y2k Bug), di fatto avvenuto, ma per fortuna con esiti ben meno catastrofici di quanto previsto, sarà ben più “disastrosamente annunciato”. Ben poca cosa si salverà (davvero encomiabile “Musica Coeli” con Tosca, Vincenzo Zitello, Federico Sanesi, Franco Parravicini, Stefano Melone, Mario Arcari, Riccardo Tesi). Dalla Terra di Mina sarà tra queste.

Mina - Dalla TerraNel 1999, nella Basilica di San Lorenzo Maggiore, a Milano, Giuni Russo esegue un sensazionale brano scritto in coppia con Maria Antonietta Sisini e su testo, invero non particolarmente noto (“Nada te Turbe”) della mistica carmelitana Teresa d'Avila, beatificata nel 1970. Il pezzo raggiungerà l'acme interpretativo in una magnifica esecuzione pubblicata nel live ”Signorina Romeo” del 2002. Sono poche, tutt'oggi, le composizioni su questo testo (il primo noto è di Taizè, del 1986) e Mina nel 2000 ne pubblica una siglata da Monsignor Frisina. La misura tra i due brani mostra il gran divario con quello della Russo, a discapito di Frisina, e dà luogo a una polemica mossa dal soprano leggero, scomparso 15 anni fa. La Russo, in un'intervista su Rockol, accusa neanche troppo velatamente Mina di plagio e la taccia come “incapace nel sentimento religioso”, non solo, con la sua proverbiale caratterialità arriva a sfidarla a duello mediatico per un confronto di misura tra le due composizioni. Ora, che la Russo si fosse completamente dedicata a un repertorio ascetico da qualche anno, ben prima della comparsa della sua malattia, è cosa risaputa, sulla fondatezza o meno delle sue affermazioni non è dato sapere nulla, perché tra le due composizioni non c'è alcun nesso, se non il testo.
Una cosa è certa: Dalla Terra non è disco riuscito nella totalità, ma tale da annoverare dei momenti esemplari e tutt'altro che avulsi da partecipazione emotiva. Quanto la partecipazione emotiva sia segno di un credo religioso o meno, poco importa alla storia delle musiche tutte, perché l'intimità che tra alcuni solchi del disco emerge è tale da valere, ancora una volta, una carriera.
Di “Pianto della Madonna”, “Voi ch'amate lo criatore”, parlerò. Se interessante è la gestione a canone di “Quando corpus morietur”, su arrangiamento d'archi di Gianni Ferrio, pur con una voce priva d'adeguata leggerezza timbrica, è nei primi due brani citati che il legame formale e spirituale raggiunge compimento assoluto. Il primo è su scrittura originaria di Monteverdi, ma la rilettura ridotta, complice un'ispiratissimo Danilo Rea, trova un climax completamente estraneo a tempo e spazio. La voce è assoluta protagonista, ricca di un ventaglio indescrivibile di sfumature, dal sussurro flautato ad accogliere in grembo e dunque “di pancia”, lo strazio del primo “Iam moriar” all'esplodere in un lungo acuto liberato, pari a un Golgota intero. Una sorta di legame cercato e reso tra cielo e terra, tra percezione materiale del dolore che si fa cinematografica e neo-realista quanto trascendente per grazia, per mezzo di pianoforte e voce “madre tra le voci tutte”. Adesso più che in passato, ricorre la necessità di far ricorso al termine “contemporaneo”, nell'accezione di “musica colta” qui in atto, grazie a una rilettura che ha del miracoloso.
“Voi ch'amate lo Criatore” (Laudario di Cortona” – sec. XIII) trova il segreto di una confessione e come tale si stempera, fermandosi su “la speme mia e dolce acquisto”, accendendosi di illuminata partecipazione per ripiegarsi immediatamente dopo su “fue crocifisso per li peccatori”. C'è un soffio in tutto il canto, un soffio stentoreo, che nell'incontrare i versi “stare enchinato”, in riferimento al capo del Cristo spentosi, diviene strappato, come a non avere fiato a sufficienza per rilasciare suono. L'intera elencazione dei particolari del figlio qui cantato si fa custode di un segreto di emissione a sé stante, pur non facendo ricorso ad alcun virtuosismo, neanche accennato. È un'enfasi teatrale di chi ha fatto di Stanislavski il suo maestro, conscio o meno non ci è dato saperlo. Austerità dignitosa, di chi ha bisogno di richiamare a sé l'attenzione della gente tutta, torna nel canto dei versi “voi ch'amate lo Criatore”, a chiudere invocazione, l'ascolto. Ancora Rea al pianoforte e ancora la stessa convinzione: se Mina avesse tenuto un recital a concetto, per solo pianoforte e voce, al pari di Milva per quanto tedioso sia far paralleli, avrebbe consegnato alla storia un disco definitivo tra gli altri. C'è ancora tempo e materia vocale per pensarci. Questo, intanto, è puro genio.

Si è già scritto del ritorno alle scene, seppure attraverso un documento video, con il brano “Oggi sono io” (2001) di Alex Britti e della sbrigliata perentorietà di carattere con cui la cantante si riconferma interprete afro-americana d'eccellenza, anche in questo episodio.

Nel 2002, episodio tra i più appartati dell'album Veleno, l'interprete affronta “Mente”, brano di Gianni Ferrio e Samuele Cerri, a integrare al suo interno il Preludio n° 4 di Chopin, guidato da Antonio Faraò. Una di quelle cose pubblicate come a corollario, né più né meno. Sentire il canto di Mina, anche sgranato per librarsi su frequenze cristalline e su Chopin, è qualcosa di una nobiltà non descrivibile. Facile il parallelo con “Luna indiana” di Battiato, nella resa di Alice, ma qui c'è un sentimento diverso, assai meno austero. L'ingresso di un'orchestra d'archi (e poi l'oboe sublime di Federico Cicoria) a esporre il racconto diventa carattere d'ulteriore bellezza. Mina è presente nel canto con un'estraneità disarmante, come se l'infedeltà raccontata, fosse l'abitudine consolidata per eccellenza. È cantare davvero le pagine di un elenco telefonico, ingiallite dalla monotonia di un tempo sempre uguale a sé stesso. Ecco, Mina interpreta questo brano così e vi riesce come nessuno avrebbe potuto. La sua canalizzazione del suono, centralissima e con un'apertura totale dei canali di risonanza alti, è tale da garantire un'intonazione senza una minima, neanche lontana sbavatura. L'assenza di dramma infuso rende il brano drammatico per paradosso, cosa che evoca, anche per cadenze della melodia, un uomo, Robert Wyatt, con tutto il “pensar eretico” che ne possa derivare.
Con esiti eleganti ma non sempre a fuoco nel legame tra interpretazione e scrittura dei pezzi, Daniele Silvestri, Zucchero, Ivano Fossati, Renato Zero, Bruno Lauzi, Giancarlo Bigazzi, tra gli altri. “La seconda da sinistra” di Silvestri, ad esempio, è un gran bel pezzo, ma l'intenzione del canto non gli rende giustizia a sufficienza, qui sembra davvero Mina sia passata per caso da uno studio d'incisione e non basta neanche il nobilissimo arrangiamento di chitarra classica a ritagliare qualcosa di più di un “interessante”. Di contro, “Succhiando l'uva”, a firma Zucchero/Saggese/Vergnaghi, pur suonando al pari dell'inedito di una cover band di Fornaciari, è un brano piacevolmente leggero, appesantito da qualche eccesso di carattere del canto. Eppure una cosa le va riconosciuta... quanta autoironia!

MinaNel 2005 torna un album tematico ed è ancora notevole il risultato, nonostante la critica si riveli ben poco accogliente. È di L'Allieva che si sta parlando, di “The Nearness of You”, “Good-bye”, “April in Paris”, si scriverà nel dettaglio.
Nel soffiato di “The Nearness Of You”, lieve come la più dolce e sensuale delle piume, capace di oscillazioni di frequenza pari a quelle di un diapason scosso, Mina trova la bellezza più immacolata del suo canto. Un suono angelico, che nel finale dona un crescendo di puro brivido. Un classico, per una voce che è “il classico”.
In “Good-bye”, il canto parte fumoso e scoperto ad anticipare lo swing lentissimo della jazz band (straordinario davvero Massimo Moriconi al contrabbasso). È uno sciorinare eleganza di “tocco vocale”, tale da far cose impossibili a chiunque ma senza alcuna esibizione tecnica percepita. È un gioco di sfumature, come un negativo guardato sotto una lente d'ingrandimento fino alla più nuda delle scarnificazioni. È la voce di una ragazzina, quella che si percepisce, ma una che ha abbandonato tutto alle spalle, per riscoprire i propri amori, sé stessa in primo luogo.
È un'orchestra ad aprire “April In Paris”. Alla direzione, ancora Gianni Ferrio, straordinario come sempre. La voce apre svogliata e controvoglia sembra affrontare anche gli acuti, a tratti centratissimi e cristallini se emessi in leggerezza, strappati, a voler cadere subito su frequenze più gravi, quando emessi in potenza. Enfatizzati i gravi, come a voler essere accolti dalla laringe a farsi gigante. Tra questi solchi, Mina è un'arricciarsi d'anima, un parlare con una profondità tratta da racconto domestico, abituale ma sempre diversa. Mai comune, in realtà costantemente alla ricerca di perfezione di linguaggio, come se tutto quanto detto e fatto e non fosse abbastanza, a prescindere. Tra questo modo interpretativo, privato (nel senso di intimo) e ridotto agli estremi, c'è quel viaggio mai fatto in un'America, dove a suo dire “sarebbe stata una tra le tante”. Peccato dover riconoscere che no, così non sarebbe stato, per nulla. Lo sappiamo, però, “sarebbe stato” non vuol dir nulla, ognuno è quello che è e altro non sarebbe potuto essere, nel bene e nel male e se tanto da dire c'è su Mina, benissimo così, che non è mai abbastanza.

Il miracolo interpretativo si ripete nel 2010, anno dell'album Caramella. Il pezzo ad aprire il lotto, “You Get Me”, è una black-ballad pari a una “nursery rhyme”. Dolcissima, manco fosse uscita dal repertorio (minore) di Paul McCartney, la melodia, ad opera di Teitur Lassen, accoglie la nobiltà di un duetto con Seal. Un adult pop raffinato e arrangiato alla perfezione.
Nel disco figurano brani scritti da Paolo Benvegnù e Massimiliano Casacci dei Subsonica. Ancora una volta si avverte assai spesso discrasia tra voce, canzoni e produzione.

Centrato appieno è invece il brano “Questa canzone”, da Piccolino del 2011. Qui Mina smette di cercarsi altrove e canta come sa. Il pezzo (Mario Nobile/Paolo Limiti) è un piccolo gioiello: parte lagnoso, ma si riscatta immediatamente con evoluzioni armoniche sofisticate e mai sgraziate, tali da lasciar respirare perfettamente la melodia. Nell'apertura al minuto 1'15”, “no, non ti tradire con la gente”, il canto si fa leggerissimo. Qualsiasi interprete italiana qui avrebbe sbraitato, Mina accarezza e ferma il momento, valorizzandolo con armonici d'incanto. Nella seconda apertura: “volevo solo dirti ancora”, il canto si apre per divenire strozzato e far sentire il rumore di adduzione delle corde vocali e ripiegarsi lentamente e poi in modo assai sentito sul “mai” di “non è passata ...”. Incanto che si ripete e in maniera esponenziale nella chiusura della frase musicale che si fa estenuata. Il breve ponte acustico rilancia il primo esposto melodico, raccontato con accorata presenza. Una piccola, grande meraviglia. Si gioca un po' nella promozione e col muovere una campagna mediatica a cercare l'autore della “bellissima canzone senza paternità”. Autore che nessuno sembra conoscere (il pezzo pare emerga da un nastro senza nome alcuno ad accertarne meriti). Chi ne è autore, l'ho scritto, era di casa.

Nel 2004, Tiziano Ferro scrive “A chi ti dice” per la boy-band Blue. Un successo grande che diviene una prova di classe vocale esagerata nelle voci di Mina e Fausto Leali (ottobre 2016).

Il 10 febbraio 2017, invece, accade qualcosa di curioso sul palco dell'Ariston, a Sanremo. Così come la contestata e a ben vedere a ragione, versione di “Nessun dorma”, aveva aperto l'edizione del Festival della canzone italiana per eccellenza nel 2009, la presenza di Mina all'Ariston è andata progressivamente ad aumentare grazie anche a... Tim e alle sigle dei suoi spot. Nell'anno citato Mina presta la voce, prima nel recitare qualche parola e poi nel cantare “All Night”, brano del dj austriaco Marcus Fureder, danzato dal ballerino JSM. Nel 2018, sullo stesso palco, Mina appare in qualità di ologramma in una “Opera digitale intergalattica”, a cantare “Another Day Of Sun” e la cosa lascia alquanto sorpresi, per la qualità del pezzo, parte della colonna sonora del film “La La Land” e per la consueta sbrigliatezza nel gestire lo swing come fosse aria respirata quotidianamente.

La cosa si ripete ancora nel 2019, col pezzo “Kiss The Sky” di Jason Derulo e questa volta, complice anche il fatto che il brano è da ascrivere al novero di successo consolidato, l'interprete vola su frequenze non avvicinate dai tempi di Kyrie, con un'enfasi nera che lascia sbigottiti, anche se qui si può parlare di energia, carattere, ma forse è il caso di dire davvero che l'esito è stridulo, può piacere o meno. In tutti e tre i casi è la natura ritmica a emergere e la capacità di Mina di possedere un sovrumano senso del ritmo nelle corde, cosa a lei naturale. In assenza di voci capaci, non solo nel carattere, ma anche nella tecnica, c'è chi si chiede se sia stata Mina a vincere, di diritto, le ultime tre edizioni della gara canora.

MinaLa forma vocale, dopo anni di stentoreità palesata nelle pubblicazioni di inediti, è tanto più evidente nel disco Maeba. Un brano, il secondo singolo, qui si attesta di diritto tra i più singolari e al tempo stesso validi della produzione dell'interprete, tanto per la materia sonica che per un'interpretazione che ha del miracoloso. Parlo di “Il tuo arredamento”. Accreditato a Zorama Mariano Rongo, “Il tuo arredamento” è un brano dalle progressioni armoniche care al rock progressivo anni 2000 e dunque più asciutto, quanto iniettato di soluzioni elettroniche, hard-rock e ritmicamente solide, al punto da poter figurare di diritto in un disco dei Muse, ad esempio. Il testo di suo, non è da meno e avvicina la scrittura surrealista di Pasquale Panella, nell'intendere quotidiano agito in associazioni mentali ed emotive. La voce parte da contralto, incontrando un noioso birignao nel pronunciare “la finestra”, durante la prima strofa. Unico peccato veniale. Una prima modulazione armonica spinge il canto in zona centrale e tutto cambia. Vertigine, ulteriore modulazione e si sale su frequenze da soprano. L'elettrica ha suono indie-grunge a tutto spiano. La seconda strofa rinuncia al primo esposto grave e proietta il canto con ancora maggiore slancio, complice anche un bel suono d'organo Hammond. Il canto si sente, è divertito, ma incontra una gran tavolozza di colori. Parte il ponte con un bel solo di chitarra in wah wah, ritorna il “mostruoso” ritornello, la batteria affogata in tonnellate di effetti a cercare circolarità e spazio, il canto ad aggrapparsi al cielo in ostici intervalli di sesta maggiore e con grazia. A chiudere, un sospiro e suoni noise. Sembra irreale, quasi la telecronaca di un incontro di calcio ad alto tasso agonistico, i quadri si rincorrono in un rapido arrotolamento di bobina, ma signori... è davvero Mina! Pani definisce il brano “incantabile” e la cosa non ha dell'assurdo, anzi. Questa è una delle migliori prove vocali di Mina, da sempre e non solo in quanto a doti tecniche, ma anche in quanto a capacità interpretative. Fa davvero strano sentire la voce che in alcuni punti si addossa una sorta di pianto, come a rimarcare la fatica mentale più che fisica, nello scorrere rapidamente tanta materia. Davvero, un gran momento!
Altro bellissimo pezzo del disco è “Troppe note”, scelto come terzo singolo. Questa volta la firma è di Franco e Viola Serafini. L'arrangiamento è superlativo, il team ha indovinato la strada da seguire e ha capito non solo che bisogna spingere sul nuovo, ma che bisogna farlo in modo inedito per risultare credibili. Tutto fresco, ritmato, la linea melodica non disdegna ribattuti continui, la voce è doppiata su due ottave e occasionalmente trattata elettronicamente. Le armonie non hanno paura di osare, pur in un ambito squisitamente “pop”. Mina si diverte e si sente. Funziona anche l'intervento orchestrale in mezzo al pieno sonico. I suoni son proprio belli, il mastering limpidissimo. Emerge il fantasma del duo Battisti/Panella nelle strofe, ma il ritornello si muove per altri lidi. I cori sbarazzini sono un po' posticci, unica cosa che a tratti non funziona. Il resto è da antologia, inclusi i contributi strumentali, tutti, nessuno escluso. Un pezzone, indubbiamente.

Il 2 novembre 2018, in occasione dell'anniversario della morte del genio italiano profanato nella memoria da insulti (Ostia, 2016: “Pasolini: ma quale poeta e maestro. Frocio e pedofilo, lui era questo!”, Maurizio Boccacci di Militia) e ostracismo, Mina posta su Twitter un suo messaggio, che ovviamente richiama polemiche, come a dire che a parlare di Pasolini oggi si rischia di far danno, perché lo si fa troppo poco: “Oggi Pier Paolo Pasolini divide ancora la sinistra, di chi lo ricorda per le sue grandi opere, e di chi ricorda a tutti che pagava i minorenni. Tristezza infinita”.
Ma intanto qualcosa in musica era già in programma, una raccolta certo, dedicata al sodalizio con Battisti. Una delle migliori, senza dubbio. Nel mucchio spicca un inedito. Mina canta “Vento nel vento”, da “Il mio canto libero”. Ancora una volta la scelta è quella di non affrontare il brano in maniera istituzionale e l'esito è avvincente. La contemporaneità della canzone in modo strettamente odierno è ben resa. Cantautorato che incontra elettronica, soluzioni fusion a definire l'arrangiamento e cori black sul ritornello. Bei fiati, basso elettrico dal fraseggio mosso e colorato, batteria dal tocco preciso e assai solido, pianoforte in un bellissimo ponte strumentale, bel suono di elettrica e canto... semplicemente da manuale. Non c'è una nota d'eccesso interpretativo a cercarla col lanternino, la cura per le sfumature qui si fa maniacale. L'ingresso ha un soffio marcato nella voce a renderla di un colore pure black, si scende d'intervalli e si accoglie pathos insieme a sporcature perfettamente integrate nel suono, per volare su un sensibilissimo vibrato a declamare con passione “tra le tue braccia calde anche l'ultima paura morì”. Il ritornello è cantato a voce piena ma senza forzature, anche il passaggio in sovracuto è ottenuto con totale eleganza. Il testo di suo fa il resto. “E la stagione nuova dietro il vetro che appannava fiori'”, scrisse Mogol, ed è bello sentire queste parole giovani “stesso desiderio di morire e poi rivivere”, da una voce giovane di colore e d'animo. C'è spazio anche per un bel vocalizzo in sovracuto a lanciare la sezione strumentale a chiudere, prima di un vento campionato che sa d'assenza. Splendido, davvero.

La messa a fuoco nel “nuovo in musica”, non poteva non confluire se non nella partecipazione a un lavoro della musica italiana odierna per eccellenza e lo fa con “Angeli e demoni” di Mondo Marcio. Rapper certo, ma qui in casa trap. Ovviamente il testo scorre in una sorta di flusso alcolico reso ancora più cosciente in profondità di contenuti e Mina ben si presta al ruolo di “donna del gangster” di turno, che per l'occasione (il gangster) canta con un accento pari a quello di Don Lurio. Non solo funziona, il brano diventa assai presto un tormentone. La voce di Mina si fa disillusa e credibilissima nel ruolo.

Fin qui, la Storia e certo, solo un piccolo racconto di essa, da spettatore con un groppo in gola, che a viverla bisognerebbe essere lei Mina e con lucidità nel raccontarla tutta, senza aver paura di perdere qualcosa, che nulla c’è da perdere, solo da accogliere ancora.
Questa storia, che racconta 79 anni di vita e quasi 61 di carriera, non è conclusa e forse non lo sarà mai. Certo, la visibilità internazionale guardata di traverso e come dal buco di una serratura per una parte così grande della carriera, dovuta all'assenza da palchi, forse non restituirà alla “voce Mina” il riscontro internazionale che merita e i giovanissimi, forse ancora, neanche vi si avvicineranno. Perché? È in schifo tramontata, o così sembra, l'epoca delle “grandi voci” per lasciar posto a quella delle “voci della stanza accanto”. Certo anche, segno dei tempi, si è passati dal milione di copie vendute per ogni disco a qualche decina di migliaia, eppure il “fenomeno Mina” è miracolo dall'Italia al mondo tutto, almeno quanto disastrose scelte. Ad ogni modo necessarie queste, come tutto lo è quando non riusciamo a dare altro eppure tutto si sta dando. Che dire degli imbarazzanti duetti con Celentano? Della continua necessità di far cassa e dare a figli e nipoti, innegabilmente capaci e pure simpatici, una presenza costante nello showbiz? Tutto tanto e troppo, comunque, nel bene quanto nel male, che poi, male... fosse questo il male. A dire “avrebbe avuto”, con cognizione del poi, si fa in fretta, meglio pensare all'oggi e lo si sta facendo meglio di quanto si possa immaginare.
Mina è anche manager, ma non tale da poter guidar da sola baracca e burattini, neanche Madonna è così dispotica con il mondo e permissiva con sé stessa. Massimiliano Pani si è assunto una responsabilità immane, alla quale ha fatto da eco il ben noto successo commerciale che gli va riconosciuto, a priori, assieme a un innegabile coraggio. Oltre a questo, non poco per tener botta in un tragitto così lungo, rimangono una per niente parca lista di brani, che a scorrerla tutta bruciano gli occhi, la bocca dello stomaco e il fiato si consuma; qualche disco e le meravigliose copertine. Un caso a parte queste, in qualche caso persino esposte in Gallerie d'Arte Contemporanea, cosa inaugurata con Attila, che, come detto, segna l'esordio dello stesso Pani come autore per la madre, prima ancora che come produttore. Ma poi... a chi attribuire responsabilità di scelte artistiche rimane comunque un punto interrogativo. Inutile e sciocco cercare “responsabili” di quella che grossolanamente viene definita “assenza di penne illuminate”, cosa risibile e arrogante, vista la mole di nastri inviati all'indirizzo a portata di tutti sul web. Cosa ridicola vista la lista dei desideri di chiunque abbia aperto bocca per cantare, prima elencata in forma di “canzoni monumento”. Scelte sono state e vengono fatte tuttora e appartengono a un team, di successo, ma non sempre artisticamente condivisibile, il che è un dato di fatto, non me ne voglia nessuno, che pure le cose più sciocche son riuscito ad amare, comunque.

Vasco Rossi scrisse per lei “Donna particolare” (1983), brano rimasto tutt'oggi inedito. A chi le ha chiesto (articolo pubblicato il 14 settembre 2012) su Vanity Fair il perché del non aver cantato Franco Battiato, pur avendo “cantato tutti”, Mina risponde “Tutti tranne Francesco De Gregori, tranne Antonello Venditti, tranne Edoardo Bennato, tranne Angelo Branduardi, tranne Francesco Guccini, tranne Ligabue, tranne Biagio Antonacci, tranne Tiziano Ferro (nota: poi cantato, così come sopra scritto). Dimenticavo: tranne Caparezza, che adoro.”
Eppure... quella voce, che “tutto” (o quasi) contiene e che asciuga il mal di vivere, lo stesso dell'amato Cesare Pavese, non può e non deve abbandonarci. Tim del resto, ce lo ricorda ogni giorno...

Curioso… Avevo concluso il mio racconto del 2019 su Mina citando Elisa che di lei parlava come un esempio di perfetta dizione. La pubblicità Tim per il Natale usa una piccola citazione da “Stella stai” di Umberto Tozzi e ripete la parola “scivola” più volte. Peccato diventi “s(c)ivola”. Ci si ironizza su all’infinito a parlar di dentiere ma di fatto la piccola traccia funziona perché paradossalmente non piace a nessuno ma rimane impressa. Si racconta che l’idea sia nata da qualche battuta all’interno del team di Lugano in seguito allo “scivola” pronunciato in “Il tuo arredamento” di Zorama Mariano Rongo (assieme a “Luna diamante”, ultima reale grande incisione di Mina) e che la cantante stessa abbia voluto ironizzarci appresso reiterando la cosa otto volte già nel titolo. Al brano segue un altro spot della compagnia telefonica con la celebre “I sogni son desideri” (dalla “Cenerentola” disneyana) meno brillante ma tale da lasciarsi apprezzare per l’interpretazione sulle frequenze più acute, il resto ammorba.

Nel mentre lo storico progetto underground Le Forbici di Manitù di Vittore Baroni pubblica in un memorabile slancio multimediale (vinile con un artwork che è un almanacco a raccontare in creazioni inedite il meglio dell’illustrazione e della mailing art degli ultimi decenni + un video arty in Dvd-r per ogni brano del disco) “Zona Minata”. È il primo disco in assoluto che osa impiegare esclusivamente brani cantati da Mina. Al disco partecipa mezzo underground italico di spicco (e non solo) tra nomi e pseudonimi: Uncodified, Sigillum S, Capricorni Pneumatici, Bruno Cossano, Samora, M.B., Nocturnal Emissions, Mind Invaders, The Haters, Noisedelik, Nightmare Lodge, My Cat Is an Alien e dunque, senza trascurare nessuno oltre a chi citato, Bruno Dorella, Corrado Altieri, Enrico Marani, Eraldo Bernocchi, Ivan Iusco, Massimo Olla, Maurizio Opalio, Paolo Bandera, Roberto Opalio, Russolo, Piermario Ciani, l’artista multimediale inglese Nigel Ayers, il musicista statunitense Tom Mix e l’artista inglese Caroline K deceduta nel 2008. Il progetto accoglie la più estesa esposizione Le Forbici di Manitù & Friends. Un disco (in senso stretto) che chi ama Mina odierà senza mezzi termini, chi è nel circuito underground o avantgarde digerirà d’un sorso senza fatica e, semmai giudizio dovesse far emergere, porterà ad andarsi a benedire col tempo. Il valore estetico dell’album ha senso rispetto all’idea che lo genera. L’idea è quella di cantarsela e ballarsela sulle macerie di un mainstream come oggi lo viviamo andandone a recuperare le origini culturali tutte. Un estremo manifesto della poetica in un’epoca in cui questa parola sembra aver perso ogni senso.

È nel settembre dello stesso anno che viene annunciata la realizzazione di un disco di inediti di Mina a firma Fossati e cantato in duetto con la cantante naturalizzata svizzera. Fossati precisa che si era parlato di un disco comune nel 1996, ma che etichette discografiche hanno creato disagio a sufficienza da non permettere l’avvio di un progetto, partito poi nel 2017 dopo il ritiro dalle scene del cantautore e in seguito a un’accorata richiesta della sig.ra Fossati: “Se non accetti di cantare con Mina chiedo il divorzio” (cit.).
Intanto il 6 novembre viene pubblicato il primo singolo dell’album “Tex-Mex” e chi si aspettava un nuovo “Danza” (Mia Martini, 1978, scritto prodotto, arrangiato e in parte pure suonato dall’autore genovese) capisce subito che è meglio lasciar perdere.

Un caffè in due, qualche stella di carta e nel buio del cielo è già domani. Ecco perché siamo qui.
(da "L’infinito di stelle")

È il 22 novembre 2019 quando Mina Fossati viene pubblicato dalla Pdu/Sony.
E dunque… un ritrovarsi, in fondo. Dopo quell’occasione accennata nel live alla Bussola del 1978 (Mina Live ’78) e qualche incontro successivo prima elencato, un ritorno a partire da ciò che è rimasto e non da quello che potrebbe essere, un po’ a far conto con sé stessi a far care le piccole cose e senza troppe pretese. E che sia Fossati dunque per ciò che si conosce e Mina per ciò che si sa, che va bene comunque a chi va bene. Al pari di due vecchi amanti che si ritrovano per un’ultima (?) sera.
Risultato? Mina Fossati è uno dei più brutti dischi della discografia di Mina e il peggiore di quella di Fossati. Uno di quelli che potrebbe sfigurare alla cerimonia del tè con burraco di peggiore fattura o nelle case di signore finto-classe di una certa, senza alcun pregiudizio nei riguardi di alcun mondo. Ci sono dei brani da salvare? Certo, comunque e ovviamente. Che diamine! Qui ci sono in mezzo due geni e alcuni dei più grandi professionisti in circolazione (e qualcuno in mezzo genietto lo è pure, senza diminutivi).
“Luna Diamante” su tutti senza dubbio e poi “La guerra fredda”, “Come volano le nuvole”. A voler esser generosi “L’infinito di stelle” e dalla versione deluxe, “Settembre” cantata dal solo Fossati. Nulla più. In accordo con una monografia, questa, che è di canzoni che parla più che di album, è dei tre pezzi a mio avviso più riusciti che dirò.
“Luna diamante” è uno di quei brani pop tra i più illuminati che Fossati abbia scritto nella sua carriera e che Mina abbia cantato. In mezzo alla tanta approssimazione di esposizione della pubblicazione, pure questo è passato e ingiustamente come “tormentone della peggio”, complice il ruolo centrale che ha nell’accompagnare la scena centrale di “La dea fortuna” di Ferzan Ozpetek ma così non è, così non deve essere. La melodia qui è semplicemente sublime, la voce indulge in qualche eccesso teatrale di troppo nelle strofe a cercar sporcature con le corde vocali false che manco Marina Fiordaliso, ma quando Mina giunge all’inciso scarnifica le parole come ad arricciare l’anima al pari di crine d’arco e tutto comunque emoziona in perfetta aderenza al testo a potenziarlo all’ennesimo espressionismo. L’arrangiamento esula dal resto del disco e trova la grazia misurata di Celso Valli che nella sezione finale del secondo e terzo ritornello sembra alterare la percezione del tempo con un rubato in glissati e sfalsamenti di sezioni orchestrali di pochi secondi, cari assai più alla musica classica contemporanea che al pop tutto. E poi la voce vibra, vibra a smuovere tutto il possibile. Non ci sono parole per descrivere tanta potenza comunicativa ancor più amplificata da un canto sgranato dal tempo in rughe fatte puro graffio all’anima. Un traguardo più che un limite, davanti al quale Fossati si presta a un solo breve vocalizzo finale a bocca chiusa, all’unisono su due ottave diverse, a inchinarsi non ossequiosamente davanti all’interprete tra tutte.
Meno ispirati, ma comunque d’interesse, i brani “La guerra fredda” e “Come volano le nuvole”. Nel primo albergano atmosfera da peggior bar di Caracas al ralenti, un arrangiamento centratissimo col basso fretless di Moriconi ad arrivare dritto alla pancia, incipit di Fossati alla voce divertito e assai “presente”, pesante caduta di stile nel testo con “l’amore si vende a milioni di copie”, roba che manco la trap quella brutta, ma il racconto regge. Quando arriva il refrain, la voce di Mina sembra una benedizione e davvero tutto si fa aereo e strettamente moderno. Grande momento di chitarra classica nel ponte prima dell’ultimo ritornello. La coda strumentale gioca su pochi ma calibratissimi suoni di notevole atmosfera e resa.
In “La guerra fredda” la voce di Mina all’inizio è assai impastata nella dizione, troppo, quella di Fossati è quella di sempre. La melodia è bella, il testo di più, l’arrangiamento centrato ma non lascia trasparire la sensazione di sapere passo per passo cosa accadrà e questo non fa classico, solo un pochetto di noia ingiustificata rispetto a tanta grazia di scrittura. Nonostante tutto, l’emozione trasuda e in ciò è la grandezza della scrittura di Fossati e di una voce che comunque, c’è.
La pubblicazione vende più di 50.000 copie (a infoltire i più di 150 milioni di album venduti nel mondo complessivamente) aggiudicandosi il titolo di disco di platino.

Intanto… in piena pandemia, il 25 marzo scorso, per gli 80 anni della Regina della canzone italiana, dai balconi delle case popolari in Viale Ungheria a Milano, c’era gente che cantava “Fiume azzurro” e in tanti (io incluso) si sono aggiunti in coro.
È arrivata poi l’estate e mentre Tim rispolverava “Brava” con successo e stupore di chi tra le nuove generazioni quel piccolo prodigio non l’aveva mai ascoltato, appariva la milionesima compilation su YouTube (Estate con voi 2020), senza far notizia. Eppure a dire “guardate che io ci sono e che se siete musicisti sappiatelo, per ogni brano che depositate, per ogni concerto che fate, per ogni apparizione televisiva o trasmissione radiofonica io per la Siae incasso una discreta quota come massima contribuente”.
Si vocifera persino di una sua direzione artistica del Festival di Sanremo 2021 (siparietto a parte di Al Bano che si autocandida dichiarando di volere una sola donna al suo fianco, Lei), cosa non rifiutata ma a quanto pare non accolta dalla Rai. Il Festival viene riassegnato ad Amadeus che chiama come co-conduttore quell’Achille Lauro (“un ragazzo intelligente e sensibile” dice Pani a Il Messaggero, dopo una proposta di collaborazione in duetto con la cantante) che intanto, invitato a scrivere un brano per il nuovo disco dell’interprete, risponde: “Ho venduto l’anima a un diavolo e il mio cuore con dentro chi amavo solo per questo. Al suo servizio regina”.
Mina annusa chi sa o può far spettacolo come se per lei fosse l’aria nel sonno… Il nuovo disco dicevamo… per lo stesso viene espresso il desiderio di un brano a firma Vasco Rossi, ma non c’è alcun comunicato in materia dopo l’episodio del brano del cantautore/star unicamente italiana rifiutato da Mina stessa molti anni prima.

È Natale 2020 quando Tim pubblica in televisione “il musical per i 100 anni di Telecom Italia”. Enorme dispiego di mezzi, non solo di animazione computergrafica, un brano passabile (questa è Tim ovvero “This Is Me” dal film musical “The Greatest Showman” del 2017) cantato oggettivamente stra-bene, roba che nessuno di quelli che non seguono il percorso della “signora della Voce” possa indurre a fare i conti con la sua anagrafica, ma a questo punto la noia si fa suprema. Mina risulta alla mente di chi ascolta non più una di quelle artiste che “fanno pubblicità”, ma una di quelle che finita una carriera passa alle televendite. Ovviamente non è così, è l’affermazione di istituzionalità e la promessa che questa non avrà mai fine. Mina ha visto ridurre a caricatura e dimenticatoio il teatro-voce di Milva alla corte di Strehler (e Brecht riletto)/Berio/Piazzolla/Alda Merini/Battiato; a spettacolo televisivo comico le ultime (dis)avventure di Ornella Vanoni e Patty Pravo; ha visto finire nel dimenticatoio il mito della Pizzi. Allo stesso modo ha capito che non poteva contare sulla svolta integrale di percorso di Giuni Russo, Antonella Ruggiero, Alice, Carmen Consoli e ben sa che a essere un mostro jazz come Tiziana Ghiglioni non c’è da guadagnarci null’altro che soddisfazione personale e la sincera venerazione di musicisti.
È passato il tempo per finir male come Mia Martini e ricavarne gloria; è stata troppo “nobile” per riscattare in modo altro un glorioso passato, pop come han cercato di fare (ognuna a modo suo) Rita Pavone, Orietta Berti, Loredana Bertè; non è abbastanza giovane per re-inventarsi del tutto in chiave pop come Elisa, Giorgia; non è la popstar adolescenziale che rimane Laura Pausini; non ha l’appiglio “maudit” di Nada, la militanza politica di Fiorella Mannoia, l’arroganza altera di Anna Oxa, l’aggressività popolare di Gianna Nannini. Si può dire (forse) che è “stata troppo” per permettersi di fare un unico disco autenticamente underground nella sua vita, cosa che le manca ma in cui non crede, altrimenti di Lucio Battisti avrebbe cantato almeno mezzo brano nel mucchio a quello che è avvenuto da “Anima Latina” in poi, giusto per fare un nome a lei vicino. Ricordo in materia su Blow Up. una rubrica di nome “Mission It’s Possible” in cui si auspicava in modo dada un “Mina canta Cave”: giuro che ho avuto paura, ma che ad aver immaginato come produttore il Re Inchiostro Nick, la cosa mi avrebbe fatto ridere di gioia per un secolo di vite a venire. Magari con Antony Hegarty che la adora e che pure con Battiato ha lavorato? L’affinità c’è, è possibile un’adeguata direzione orchestrale e ci sono brani della “voice of the Century” inglese che potrebbero prestarsi in chiave dance al gusto di Pani.
Solo una chance in un mondo che ormai dimentica tutto, pure Dio in ogni declinazione o un mantra in un battito di ciglia: diventar Santa, essa stessa motore di mercato, ritratto della sovraespozione mediatica pur in un’assenza/ubiquità e la santità bisogna giocarsela fino all’ultimo dei giorni, senza riserva.

Ad ogni modo, Tim anche basta, no? Non fosse per un pur certo progetto discografico TimMina. Intanto, a pochi giorni dal suo centenario, il 4 gennaio 2021 Tim ha un crash.
Nasce online una nuova moda su YouTube. È il “reaction to”. Persone comuni ma anche e soprattutto insegnanti di voce e musica si prestano ad ascoltare brani di artisti proposti in filmati tutti inverosimilmente al primo ascolto diventando influencer. Dall’Italia chi ascoltare in primis da portare all’estero? Beh, Mina ovviamente! ThisisJoky1989 è l’utente più prolifica in quanto a video pubblicati, ma è questa una moda in crescita che si sta diffondendo in tutto il mondo. Joky (mi scuso ma non so se è un pseudonimo o un nome reale) non ha dubbi, per quanto faccia fatica a capire l’italiano nell’ascoltare Mina si esalta per “il suono” e non c’è un brano di lei che venga avvicinato, rispetto a cui non abbia puro encomio frase per frase. Lei ha capito tutto, perché Mina è questo, uno strumento fatto corpo/essere umano che indaga il suono e la sua possibile emissione per ogni frazione di secondo e quando pure la razionalità appresso al canto va a farsi benedire, il sistema Mina risponde come a essere una cassa di risonanza suprema, ad abbracciare tutte le armoniche possibili in nuance espressive pari a uno spettrogramma dell’anima. Mary Setrakian, dal canto suo, in qualità di insegnante di musical nel descrivere quel capolavoro che è “E se domani”, tratteggia non solo qualità vocali ma ogni minimo accenno di gestualità dell’interprete nel video del pezzo filmato per la tv spagnola del 1966, individuando come a suo tempo fece Fellini la stessa capacità di curare, come per il canto, ogni singolo istante dell’esposizione.

È il 27 novembre quando viene pubblicata la 52esima raccolta dell’interprete. Un doppio album con doppio titolo Cassiopea/Orione (2020).
Marianne Faithfull ha dichiarato che il modo migliore per guardare indietro la propria vita sono le canzoni e le foto, probabilmente perché a vedere quello che c’è nel mezzo ci sarebbe anche da star male. Ebbene, l’operazione è ancora una volta quella di mettere assieme fotografie in un puzzle diverso per mostrare a tutti come, volendo, anche quando c’erano rughe si era belli lo stesso, non è del resto l’epoca del FaceApp? Un’operazione che stavolta riesce abbastanza. Ci sono in mezzo anche due inediti e qui, si ritorna felicemente a parlare di jazz.
C’è una versione di lusso di “Un tempo piccolo” (Franco Califano/Alberto Laurenti/Antonio Gaudino). Il brano presentato da Califano al Festival di Sanremo nel 2005 e poi riproposto dai Tiromancino, si sa, è bello tanto per il testo autenticamente poetico che per la melodia che gli appartiene. Mina gli dona una chiave fusion un po’ retrò, ma con il classico canto che non trascura mezza sillaba. Attenzione di phonè per suono delle parole, per quello del canto, per possibile risposta del corpo nell’emissione, intenzione nel volersi far strumento-voce senza alcun eccesso, indolenza ma epidermica partecipazione nell’interpretazione. Classe unica e risultato di confezione altrettanto encomiabile, pur nella sua leggerezza, perché ovviamente in tanti son qui a cercar miracoli quando i miracoli si possono fare anche nell’assoluta semplicità di manifestazione.
Nel “Cielo dei bars” (Fred Buscaglione/Leo Chiosso) è invece il più direttamente jazzy dei due, con Danilo Rea e Moriconi in grande evidenza. Lei qui torna a essere strumento a fiato che frammenta ogni sospensione di suono e soffia gli acuti come a tingerli di zucchero filato. Ogni tanto si graffia ed è un graffio da “whisky al fondo del bicchiere”. I coretti “io Pani” anni ’50 a far da onomatopea qua e là sono di un patetico, ma di un patetico tristemente troppo udito (lo so, direte “divertenti” e va beh…). Bastava qualcosa in meno ma la struttura è solida, emerge, accarezza, conforta, dona puro piacere d’ascolto.

Poi, e con altrettanto stupore, non è arrivato il disco in studio di Natale. E questa, tra tutte le cose, è quella più sorprendente. Che sia un pietoso omaggio a centinaia di migliaia di morti divenute spettacolo più di lei (indipendentemente da posizioni ufficiali, riduzioniste o complottiste), mentre in Svizzera si continua a sciare accettando il sacrificio di una generazione “non produttiva” al pari di persone con patologie pregresse (disabili inclusi e la Signora ha 80 anni) a favore di chi non vuole si sappia dove finiscono curiosi guadagni? Lei se li è meritati, non c’è dubbio.

Aspettare quattro anni per un nuovo disco in studio di Mina è cosa del tutto inedita nella lunga carriera della cantante, ma del resto in questo piccolo lasso temporale è accaduto di tutto. Il mondo è cambiato e ci si è ritrovati tutti già vecchi in un lampo. Non solo, Mina divorzia da Tim e non la si sente più con ossessiva costanza in televisione, in radio, nelle metro. Dichiara di voler cantare un brano composto per lei da Vasco Rossi e uno scritto da Achille Lauro, ma il primo non la degna d’attenzione, il secondo la consacra “regina”, ma senza poi farne nulla.

Qualcosa però accade, oltre a improponibili raccolte di materiale edito o almeno ascoltato su qualche media e accorpato in modo discutibile (la veniale Dilettevoli eccedenze del 2022 e il bruttarello Beatles Songbook dello stesso anno), viene data alle stampe (solo in vinile, su Usb e come Nft art) l’intera sessione live in studio del 2001 nota come “Mina in studio”, che come Dvd, ora fuori catalogo, era divenuta uno dei massimi feticci dell’interprete.

Arriva con inediti e con un brano nuovo inciso allo stesso modo nel 2021 e non a caso la release prende il nome Mina in studio 2011-2021. Il brano nuovo (“Accarezzame”) aggiunge grazia su grazia ma il disco nel suo complesso è un capolavoro senza tempo, tanto nei momenti con la band fusion ad accompagnare la sua voce, che nei preziosissimi momenti orchestrali.
Clamorose, oltre alla ormai celebre “Oggi sono io” di Alex Britti, “Ma come hai fatto” di Domenico Modugno, “The Nearness Of You” cantata in punta di cielo con una grazia e una sensualità da Oscar, “Tu si’ na cosa grande” con una introduzione in acuto da autentico sconcerto (così del resto si chiamava l’album in cui il brano fu introdotto originariamente lontano da quella sessione) e a seguire vocalizzi arabeggianti che sembrano tratti dal racconto di un muezzin, com’era stato per l’interpretazione di “Maruzzella” su Napoli Vol 1. Basterebbero questi grandi capolavori a fugare ogni dubbio sull’autenticità del progetto, che su supporto fonografico perde per fortuna il suo accento più gigione e radical chic per trovare maggiore asciuttezza. La band è sensazionale, ma su tutti il plauso più grande va a un superbo Danilo Rea, tanto al pianoforte che alla fisarmonica.

Devono spegnersi 83 candeline, per celebrare 65 anni tondi carriera con un nuovo album in studio che arriva con una notizia tale da far dormire sonni poco tranquilli a molti suoi fan: Mina duetterà in un brano con Blanco, che pochi mesi prima sul palco dell’Ariston di Sanremo ha distrutto la scenografia di fiori a lui dedicata e interrotto l’esecuzione di un suo brano per lanciare il video “L’Isola delle Rose” (o almeno questa è una delle tante narrazioni associate all’evento, assai contestato). Mina e Massimiliano Pani dal canto loro, come avevano fatto con Achille Lauro, diranno del giovane cantautore che “è molto sensibile”, ma di fatto il pezzo arriva presso gli studi di Lugano a un passo dalla pubblicazione dell’album che viene bloccata per inserire il singolo già arrangiato e di ottime potenzialità radiofoniche, a cui la cantante dona la sua voce inconfondibile e una coda non prevista, incantevole. All’uscita del brano poi, di fatto nessuno ha alcunché da dire e il successo è grande, o meglio, il più grande dal 1973, cinquant’anni dopo l’ultimo singolo al primo posto in classifica (“E poi…/Non tornare più”)! Non sarà così invece per l’album, che in classifica non andrà oltre la quarta posizione, che Blanco supererà cavalcando la vetta per qualche tempo col suo “Innamorato”.

La promozione di Ti amo come un pazzo (2023) viene tutta incentrata attorno alle dinamiche di registrazione, composizione, arrangiamento e scelta del singolo (Blanco e Mina non si sono di fatto mai incontrati). Michelangelo, produttore di Blanco, appare costantemente al fianco di Massimiliano Pani. Si inventa la storia del concept-album ispirato ai feuilleton, ovvero ai fotoromanzi, se non fosse che il disco contiene un brano che con le canzoni d’amore nulla ha a che spartire (“Don Salvato'” di Enzo Avitabile) e che quasi tutti i dischi di Mina non parlano d’altro che d’amore.
Il brano introduttivo fa da apripista al mood complessivo. È notoriamente un nuovo capitolo dedicato a Özpetek, si chiama “Buttare l’amore”, è arrangiato in modo superbo con un Luca Meneghello alla chitarra acustica davvero sensazionale. I cori, invece, sono tremendi, ma così poco presenti da rappresentare un peccato veniale. La linea melodica non è affatto male, ma l’interprete si canta pesantemente addosso e l’esito è persino farsesco, sembra un’imitazione di Loretta Goggi. Le parole appaiono masticate, pronunciate con dentro tanto fiato, curate in un dettaglio teatrale che del teatro coglie solo la forma, non la sostanza. La quantità di birignao presenti è non elencabile. Spiace, ma nella mia opinione qui non si riesce purtroppo a far centro.
I suoni profondamente Novanta di “Come la Luna” lasciano dubitare l’autore sia Zucchero Fornaciari, piuttosto che uno di quelli accreditati. Mina, dal canto suo, fa proprio il verso al cantautore emiliano anche in una certa gutturalità del canto che trasforma le “e” in qualcosa che somiglia a una “u”.  La chiarezza degli attacchi del canto nell’inciso invece è magnifica, quasi adolescenziale nel suono. Il brano termina con un accenno di solo di chitarra che si stempera in una brevissima coda.
Si è fatto un gran parlare dell’interpretazione di “Don Salvato'” dalla penna di Enzo Avitabile. Funzionano tanto l’arrangiamento fusion (splendido l’ostinato di basso campionato a cura di Pani) che l’interpretazione, anche se la pronuncia della cantante di napoletano qui non ha proprio nulla. Davvero brutto, invece, l’“Ave Verum” che chiude il pezzo. Una scelta non felice, quella di inserirlo in un disco di canzoni d’amore con le quali non ha veramente nulla a che spartire e che probabilmente avrebbe richiesto molto più spazio alla sezione strumentale che non alla biascicata declamazione vocale.
Fortunatamente, almeno per un discorso di affinità e di contestualizzazione, con “Fino a domani” si cambia completamente registro. La bellissima e ariosa melodia di Federico Spagnoli mette assieme Claudio Baglioni e Renato Zero. Quando il pezzo decolla, Mina fa il miracolo e trasforma tutto in un gioiello di interpretazione drammaturgica. Per carità, nulla di nuovo (se il brano fosse uscito nel 1985 o nel 1992, nessuno si sarebbe accorto della differenza di ere geologiche trascorse in musica nel mentre) ma un momento piacevole da ascoltare.
Qualcosa invece cambia davvero con “Zum pa pa”, brano che si attesta tra i migliori dell’intera discografia della cantante e come il vertice assoluto dell’album in questione. L’interpretazione sulle strofe è assai marcata nel suo essere “recitata”, più che cantata. Ricorda un po’ il sussurrato bofonchiato di Nina Simone in “And Piano!” e non a caso il pezzo ha proprio bisogno di pochissimo per assumere senso tra le continue trascolorazioni armoniche. Bello anche il testo, che interroga uno spettatore al circo sul fatto che possa essere lui “equilibrista o bianco coniglio”.
“Tutto quello che un uomo” è la cover di un brano di Sergio Cammariere e più che brano jazz sembra una farsa brechtiana dello stesso. Mina in punta di piedi e con i suoi vibrati si insinua tra le note a far del suo canto strumento a fiato appresso al pianoforte di Ugo Bongianni e ai cori quasi da cartoon di Pani. Una sorta di “gioco”, non proprio memorabile ma indubbiamente ben fatto, elegante siparietto da piano bar d’alta classe.
“L’orto” riprende il gioco che era stato in passato nelle “‘A Minestrina” (da Maeba, 2018), “Bell’animalone” (da Bula Bula, 2005), “Ma che bontà” (da Mina con bignè, 1977) o gli episodi battistiani più scherzosi (“Luci-ah”). Diverte ed è fatto assai bene. Grande Mina nella sua interpretazione ma Pani ai cori è davvero superbo. Bello l’arrangiamento che mette in mostra particolarmente Luca Meneghello alle chitarre. Irresistibile il finale.
“Lascia” è invece il brano che sa davvero di vecchio. È una ballata adult pop di vecchio stampo che nelle armonizzazioni del ritornello ricorda un po’ “Uomini soli” dei Pooh. Nulla di che, anche se l’interpretazione è notevole e non “lascia” spazio ad alcun dubbio. Per chi non è avvezzo al pop, il brano può risultare veramente asfittico. Segue “Non ho più bisogno di te” col suo bolero che nella prime due battute della strofa (non vogliatemene, ma a Lugano che ci crediate o no si ascolta proprio di tutto) si ricollega alle distese desertiche evocate da Nick Cave nella sua “Loverman”, risultando però pacchiana, melensa e senza averne vagamente né stimmate né singulti schizoidi. Mi chiedo sinceramente da dove sia nata un’idea così malsana a chi ha selezionato il brano e l’ha arrangiato.
A questo punto del disco si avverte il bisogno di un po’ di sprint, quello che fin qui non è emerso in mezzo brano del disco, e arriva il famigerato singolo di Blanco, “Un briciolo di allegria”, per otto settimane consecutive al primo posto della classifica Fimi dei brani più venduti e tormentone per eccellenza della primavera 2023. La produzione di Michelangelo mette tutto in ordine e regala un brano non proprio indimenticabile ma fresco, ben fatto, tamarro al punto giusto, che lascia spazio a tutte le nuance della voce di Mina, relegando il giovane trapper a una sorta di gatto spelacchiato dai falsetti sfiatati, senza armonici, calanti e dalla pronuncia costruita fino all’inverosimile (“come foto Polaroid” è davvero imbarazzante). Invece la conclusione a cappella del pezzo da parte della “Tigre” è davvero da brivido quanto la ripresa del canto a 1.34. I timbri assieme reggono, ma tra le due voci c’è un abisso, incolmabile.
“La gabbia” di Maurizio Morante è lasciata solo su cd o sulla versione in digitale (!) ma regala l’altro capolavoro della release, nonché l’interpretazione più densa, tale da condurre veramente alle lacrime. Una funerea romanza, magari sgranata a tratti nel canto, ma Dio mio che voce e che anima pulsante appresso a quella! Mina è talmente intensa da risultare repulsiva qui. Genera una commozione prossima all'imbarazzo e in questo, unico brano del disco, vien voglia di dire “no, come lei non ce ne sono e non ce ne sono state così”. Le uniche cose sgradevoli del pezzo sono gli inutili cori e dei piatti orchestrali per giunta campionati… Mah.
Non finisce qui! L’altro pezzo escluso dal vinile è “Povero amore” (anche questo destinato a Özpetek, ma in questo caso per il film “Nuovo Olimpo” e non per la serie televisiva “Le fate ignoranti” a far da eco al famoso film del regista) che sciorina il migliore arrangiamento, quasi e piacevolmente techno-pop, a rievocare i migliori Matia Bazar di fine 80’s. Bella la melodia, meglio nelle strofe che nell’inciso, dove invece il canto trova nelle aperture una crepuscolare malinconia che aleggia per l’intero disco. Nell’arrangiamento spiccano in modo positivo anche il basso elettrico di Lorenzo Poli e soprattutto il sax tenore di Gabriele Comeglio.

È un album, Ti amo come un pazzo, caratterizzato in larga misura da buoni temi, arrangiamenti quasi perfetti e un canto quasi sempre letteralmente divino, ma è anche un lavoro che risulta malinconico all’infinito, come a contemplare una vita intera che se ne va. È innegabile che un disco così alle orecchie di un giovane possa risultare come un ritratto di Dorian Gray conservato male. Un album anche “rassegnato”, che ferisce solo in un paio di episodi ma che nel complesso appare come l’unico disco di inediti di Mina da molto tempo in qua che si lascia ascoltare dall’inizio alla fine senza generare moti di eccessivo entusiasmo o imbarazzo.
Basta? Sì, arrivati al 72° disco di inediti, basta. Un plauso al team tutto. La sensazione è che nel tentativo di avvicinare le nuove generazioni con un solo brano, questo disco abbia relegato definitivamente Mina a un passato, pur glorioso, cosa che Maeba aveva scongiurato e certo complice un cambiamento culturale epocale avvenuto nel mentre, ma anche per errore di valutazione.
Oppure, basti semplicemente leggere questo stralcio di intervista del 1978:
Rita Madaro: "Hai paura di invecchiare? Musicalmente si intende...”.
Mina: “Assolutamente no. Faccio quello che faccio. Finché va bene, va bene. Quando non va più bene, grazie, è stata una cosa divertente e piacevole. Fine. La mia vita è un'altra, non sono certo le canzonette a riempirmela”.

Appendice

 

Alcune opinioni espresse nei confronti di Mina da artisti internazionali, non solo del mondo musicale, nel bene e nel male.
Di quanto detto su di lei da Fabrizio De André, delle critiche mosse da Giuni Russo e di tanti altri commenti al suo percorso si è già scritto in questa sede, ma a conclusione di quanto da me donato in qualità di sincero omaggio, di chi in lei vede una madre elettiva, ma anche e per davvero un parallelo con la sua madre vera, vorrei citare una serie di affermazioni fatte da artisti di livello internazionale sul caso Mina. Credo che ognuna di queste, a monte del contenuto, raccolga una sorta di devozione, espressa in maniera più o meno rispettosa, come si fa con un Dio, tanto in preghiera che in bestemmia.

In una premonizione assai più che realizzatasi, Gilbert Bécaud (1966): “Tu, Mina, hai un unico difetto. Quello di essere nata in Italia. Se tu fossi nata in Francia, a quest’ora saresti un monumento nazionale. Come lo è stata la Piaf. Come è Brigitte Bardot. O la Moreau. E la gente, i giornalisti, i fotografi, consapevoli e grati di quell’evasione dalla realtà che tu dai con la tua voce, con le tue canzoni, col tuo innegabile fascino, ti sarebbero grati. Ti dimostrerebbero ammirazione. In Italia no, lo sai anche tu. Più diventi brava e più il pubblico, la gente, chissà perché, si accanirà contro di te per distruggerti”.

Dario Fo: “Quel suo modo di muoversi, apparentemente fuori tempo, l’alzare le braccia e farle roteare come in una serie di pose plastiche, sono cose solo sue, che arrivano prima ancora della voce”.

Federico Fellini, ancora nel 1966: “Vorrei provarla come attrice. Mina ha la faccia della luna. Gli occhi sono dolci e crudeli. La bocca chiama dal cielo le comete: basta un fischio”. È importante notare come a chiamare Mina dietro a una macchina da presa furono anche Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Francis Ford Coppola. Lei ebbe a dire “Il cinema non m’interessa e mi sono resa conto di non saper recitare”.

Mia Martini, dopo aver assistito all'ultimo concerto alla Bussola: “Credo non abbia paragoni nel mondo di noi bianchi. La Streisand? Ma figuriamoci: Mina non fa easy listening, il suo è jazz, quasi sempre, anche quando canta ‘Insieme'”. In un'intervista rilasciata alla fine del 1994, ebbe modo di dire: “Secondo me, è la più grande artista in assoluto che abbiamo in Italia, sono pazza di lei, io amo la recente produzione, anche se non mi sembra che lei sia molto presente. E vi confesso che desidererei cantare qualcosa con Mina. E se dovesse tornare a cantare dal vivo, ci andrei a piedi in pellegrinaggio, in processione con gli altri fan”.

Nilla Pizzi: “Mina è la più grande di tutte, la migliore. E proprio per questo non può scomparire nel nulla. Ha l'obbligo di farsi vedere, sentire. Non bastano i suoi dischi. È lei in carne e ossa che vogliamo” (citato in Nino Romano, “Mina. Mito e mistero”, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1996).

Riccardo Muti, in merito al Nuovo Teatro degli Arcimboldi, il 17 dicembre 2002: “L'Arcimboldi di Milano potrebbe diventare quello che la Carnegie Hall è diventata a Londra: un prestigioso palco che possa ospitare anche star di prima grandezza del jazz e del pop, come Mina e Barbra Streisand”.

Carlo Verdone, su Rockon.it, il 31 agosto 2016: “L’unica vera grande artista che abbiamo”.

Patty Pravo, in occasione del suo sessantesimo compleanno (aprile 2008), in un'intervista su Tv Sorrisi e Canzoni, afferma: “Con la sua voce potrebbe innovare, invece le sue ultime cose sono banali. Lo fa solo per i soldi”. Una critica ancora più diretta sarà mossa al disco “Sulla tua bocca lo dirò”, in uno scambio di battute con Pippo Baudo, su Rai 1.
Sullo stesso disco si esprimerà negativamente persino l'Osservatore Romano.

Rettore, su Libero.it, l'11 settembre 2008, sentenzia in riferimento alla presunta mancanza di un repertorio recente adeguato a Mina, “canta come una lavandaia” e poi ancora a Scalo 76, su Rai 2, il 18 ottobre 2008, “sgargarozza”. Le colorite affermazioni fanno riferimento al repertorio certo, ma anche a una modalità interpretativa. La “Dada della musica italiana” aveva cantato “Grande grande grande”, nel 1996, durante il Festival della Canzone Regina, su Canale 5, in un modo assai parodistico e pure con i mezzi per farlo, intonazione a parte. La cosa viene in seguito ampiamente rimodellata con un “solo io e Mina possiamo cantare le mie canzoni”, con chiaro riferimento a comune ironia e capacità di gestione ritmica di un brano.

Liza Minnelli a “Porta a Porta” del 9 ottobre 2008, su domanda di Pippo Baudo “qual è la canzone italiana che ti ritorna sempre in mente?”, sembra cogliere la palla al balzo per dire ciò che più le sta a cuore: “Io penso sempre a Mina... lei è la più grande cantante che io abbia mai sentito” e poi ancora “lei sta alla musica come De Niro alla recitazione... lei è l'unica”.

Claudio Abbado, il 9 novembre 2009, su La Repubblica.it: “Luigi Nono avrebbe voluto comporre un pezzo con la sua voce. Mi basterebbe anche un solo suono, una sola nota, mi disse. A me sarebbe piaciuto dirigerla, l'ho sempre ammirata”.

Il 25 marzo 2010, il quotidiano La Stampa prova a contattare cantanti a Mina coeve, nell'arco degli ultimi 60 anni. Viene testualmente riportato “Hanno risposto subito ragazze della new generation (Noemi, Nina Zilli, Malika Ayane...), hanno richiamato due grandi dame come Caterina Caselli e Ornella Vanoni, le ultime gentildonne.
Telefoni spenti invece fra alcune signore della canzone contemporanea. Zitte la Pausini e Giorgia (intenta alle poppate). Silenzio da Mannoia, e pure la brava Carmencita Consoli ha snobbato sms e telefonate”.

Di fatto Giorgia un suo pensiero su Mina l'ha espresso in maniera chiara e diretta, su Rai 1 (“Doreciackgulp”, Tg 1, 5 aprile 2014), con un sentitissimo omaggio. Non solo, Laura Pausini dopo tanti tributi all'interprete di Cremona, anche in duo con Eros Ramazzotti, il 12 luglio 2007 aveva già dichiarato: “Sogno un duetto con Mina, non ha mai cantato con un’altra donna”. Un riconoscimento tra i tanti “telefoni spenti” che pur avranno avuto i loro motivi per non averlo acceso, lo stesso che le “ragazze della new generation” e le “ultime gentildonne” portano.

Ornella Vanoni, dopo aver malinconicamente fatto riferimento alla fortuna di un affetto duraturo, che a lei non è spettato: “Non solo è una grande cantante, ma quando è arrivata ha portato la gioia nella musica leggera”.

Caterina Caselli: “È stata ed è una istituzione. Una persona di carattere”.

Irene Grandi: “Pur avendo un'incredibile tecnica e un talento spiccato, Mina dà molta importanza all'interpretazione delle parole”.

Malika Ayane: “Quando la ascolto mi sento di una inutilità totale”.

Noemi: “Una canzone è come un vestito, e lei è una sarta perfetta”.

Nina Zilli: “La vedo come una divina sulla cima di un Olimpo”.

Emma Re dal canto suo, parla di un intero recital a Mina dedicato, a Parigi, per conto di Pierre Cardin.

Gino Paoli in merito a “Il cielo in una stanza” ("Un Giorno da pecora", Radio2 – 19 novembre 2010): “La Bruni è l'unica che ha cantato il brano senza farlo diventare una cosa diversa. Meglio Carla Bruni, perché Mina canta ‘Il cielo in una stanza' e l'elenco telefonico allo stesso modo. Non so se sa quello che canta oppure no, canta come se fosse uno straordinario strumento tecnico, come un flauto o una chitarra”.

Holly (chi ne ricorda? Cantata da Lou Reed, in “Walk On The Wild Side”), da un'intervista rilasciata a Paola Jacobbe nel 2010 e pubblicata su Vanity Fair, il 27 ottobre 2013. Dice Paola Jacobbe: “Mi chiede di Mina, cantante che adora. E poi, con lo sguardo verso il terrazzino, mi invita a cantare con lei 'Il cielo in una stanza'. Sa le parole a memoria, come chi ha conosciuto non uno, ma mille soffitti viola”.

Antony Hegarty, dopo la partecipazione sanremese, su Il Giornale (15 febbraio 2013) ebbe a dire, parlando di Battiato: “Franco è il mio migliore amico italiano. Però mi piace da matti anche Mina”.

Per i suoi 75 anni Rolling Stone Italia, pubblica il 25 marzo 2015, alcuni pensieri a Mina dedicati, da parte di alcuni dei più grandi artisti internazionali di sempre:

Mick Jagger (2002): “Persone come me, Tina Turner, Paul McCartney e, in Italia, gente dalla voce d’angelo come Mina, abbiamo mantenuto la nostra vitalità adolescenziale perché non abbiamo ceduto a compromessi di alcun genere…”.

Elvis Costello (2002): “Mina è la più grande cantante italiana e non capisco come abbia fatto ad accorgermene così tardi. Mi ricorda Dusty Springfield. L’ho scoperta per caso, mettendo il naso – e l’orecchio – tra i dischi di mia moglie, che studia la vostra lingua e cura uno show radiofonico in cui figurano spesso pezzi italiani. Per Mina ho avuto una specie di folgorazione e sono andato subito a comprarmi tutti i suoi album. E poi, adoro l’Italia…”.

Andy Warhol (1972): “Mina? Un’attrice nata, simbolo della civiltà tecnologica, fantasma lunare, aggressiva e un po’ pop…”.

Céline Dion (2010): “Luciano Pavarotti mi parlava sempre di Mina e non certo solo quando eseguimmo in duetto la versione inglese di ‘Grande grande grande’. Anch’io sono nata nel mese di marzo, come Mina; anch’io penso alla sua voce come a un grandissimo, inimitabile dono della natura, il riflesso di un’anima”.

Johnny Marr degli Smiths (2011): “Stavo guardando un vecchio documentario della Bbc su Ennio Morricone e nel sottofondo si sentiva una canzone. Ho fatto un po’ di ricerche e ho scoperto che si trattava di 'Se telefonando' di Mina. Ne sono rimasto stupefatto. Sostanzialmente è Morricone condensato in tre minuti e Mina è una ragazza ribelle davvero forte, una specie di Lesley Gore italiana. L’audacia di questa canzone è eguagliata dalla sua personalità e dal talento”.

Su di lei, ancora...

Milva, a Rai 1, intervistata da Paola Perego il 21 ottobre 2010: “Mina era la più dotata”.

Iosonouncane, su Rockit, il 4 giugno 2015 “Quando canta Mina si sta tutti in silenzio”.

Iva Zanicchi, il 30 agosto 2018 e dopo valanghe di commenti negativi a sottolineare “facilità di costumi” (“lei ne ha avuti tanti, ci ha dato tanto...” a #CR4 La repubblica delle donne) di Mina e “maggiore dote vocale” in casa Zanicchi (IRIS, Roma, 26 marzo 2012 “La più grande del passato è Mina per la sua musicalità. Ma la voce di Iva Zanicchi se ne fa venti di Mina… se parliamo di jazz e spirleggiate, la più grande è lei. Quella che canta in modo pastoso, naturale, sono io”) afferma: “Ne avevo una grande ammirazione... ha sbaragliato tutti con la sua voce, il modo di gesticolare, così moderna”.

Elisa, su Rai 1, intervistata da Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, 11 novembre 2018: “Tutte le cantanti studiano Mina. Anche per come lei affrontava tutti gli alti con la sua estensione incredibile, e per la sua dizione”.

…No, questa storia non solo non è finita, è destinata a diventare ancora più luminosa. Ne ho scritto soltanto perché altri più bravi di me facessero altrettanto e, soprattutto, meglio di me.

Bibliografia consigliata:
Franco Fabbri e Luigi Pestalozza - Mina. Una forza incantatrice (Euresis, 1998)

Mina

Discografia

Album in studio e dal vivo
Tintarella di luna (Italdisc, 1960)
Il cielo in una stanza (Italdisc, 1960)
Due note (Italdisc, 1961)
Moliendo cafè (Italdisc, 1962)
Renato (Italdisc, 1962)
Stessa spiaggia, stesso mare (Italdisc, 1963)
Mina (Ri-Fi, 1964)
Studio Uno (Ri-Fi, 1965)
Studio Uno 66 (Ri-Fi, 1966)
Mina 2 (Ri-Fi, 1966)
Sabato sera - Studio Uno '67 (Ri-Fi, 1967)
Dedicato a mio padre (Pdu, 1967)
Le più belle canzoni italiane interpretate da Mina (Pdu, 1967)
Mina alla Bussola dal vivo (live, Pdu/Durium, 1968)
Canzonissima '68 (Pdu, 1968)
I discorsi (Pdu, 1969)
Mina for You (Pdu, 1969)
...bugiardo più che mai... più incosciente che mai...(Pdu, 1969)
Mina canta o Brasil (Pdu, 1970)
...quando tu mi spiavi in cima a un batticuore... (Pdu, 1970)
Mina (Pdu, 1971)
Cinquemilaquarantatre(Pdu, 1971)
Dalla Bussola (live, Pdu/Emi, 1972/2012)
Altro (Pdu/Emi, 1972)
Frutta e verdura (Pdu/Emi, 1973)
Amanti di valore (Pdu/Emi, 1973)
Mina®(Pdu/Emi, 1974)
Baby Gate (Pdu/Emi, 1974)
Minacantalucio (Pdu/Emi, 1975)
La Mina (Pdu/Emi, 1975)
Singolare (Pdu/Emi, 1976)
Plurale (Pdu/Emi, 1976)
Mina con bignè (Pdu/Emi, 1977)
Mina quasi Jannacci (Pdu/Emi, 1977)
Mina live '78 (Pdu/Emi, 1978)
Attila (Pdu/Emi, 1979)
Kyrie (Pdu/Emi, 1980)
Salomè (Pdu/Emi, 1981)
Italiana (Pdu/Emi, 1982)
Mina 25 (Pdu/Emi, 1983)
Catene (Pdu/Emi, 1984)
Finalmente ho conosciuto il conte Dracula...(Pdu/Emi, 1985)
Sì, buana (Pdu/Emi, 1986)
Rane supreme (Pdu/Emi, 1987)
Ridi pagliaccio (Pdu/Emi, 1988)
Uiallalla(Pdu/Emi, 1989)
Ti conosco mascherina (Pdu/Emi, 1990)
Caterpillar (Pdu/Emi, 1991)
Sorelle Lumière (Pdu/Emi, 1992)
Mina canta i Beatles (Pdu/Emi, 1993)
Lochness (Pdu/Emi, 1993)
Canarino mannaro (Pdu/Emi, 1994)
Pappa di latte (Pdu/Emi, 1995)
Cremona (Pdu/Emi, 1996)
Napoli (Pdu/Emi, 1996)
Leggera (Pdu/Emi, 1997)
Mina Celentano (Pdu/Emi, 1998)
Olio (Pdu/Emi, 1999)
Mina Nº 0 (Pdu/Emi, 1999)
Dalla Terra (Pdu/Sony, 2000)
Sconcerto (Pdu/Sony, 2001)
Veleno (Pdu/Sony, 2002)
Napoli secondo estratto (Pdu/Sony, 2003)
Bula bula (Pdu/Sony, 2005)
L'allieva (Pdu/Sony, 2005)
Bau (Pdu/Sony, 2006)
Todavía (Pdu/Sony, 2007)
Sulla tua bocca lo dirò (Pdu/Sony, 2009)
Facile (Pdu/Sony, 2009)
Caramella (Pdu/Sony, 2010)
Piccolino (Pdu/Sony, 2011)
12 (American Song Book) (Pdu/Sony, 2011)
Christmas Song Book (Gsu, 2013)
Selfie (Pdu/Sony, 2014)
Mina-Celentano - Le migliori (Clan/Pdu/Sony, 2016)
Maeba (Pdu/Sony, 2018)
Mina Fossati (Pdu/Sony, 2019)
Dilettevoli eccedenze (antologia, Pdu, 2022)
The Beatles Songbook (antologia, Pdu/Warner, 2022)
Mina in studio (Pdu, 2001-2021)
Ti amo come un pazzo (Pdu, 2023)
Raccolte consigliate
Del mio meglio n. 1 (Pdu/Emi, 1971)
Del mio meglio n. 3 (Pdu/Emi, 1973)
Signori... Mina! (Raro Records, 1993)
Minantologia (Pdu, 1997)
I miei preferiti - Gli anni Rai (Warner, 2014)
The Collection 3.0 (Warner, 2015)
Paradiso - Lucio Battisti Songbook (Warner, 2018)
Pietra miliare
Consigliato da OR

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Una playlist

  

Rino (Enzo Jannacci) (1977)

In The Mood (Joe Garland) (Canzonissima live, 1968 – estratto)

 

Balada para mi Muerte (Astor Piazzolla/Horacio Ferrer) (live 1972)

Pianto della Madonna (Claudio Monteverdi/Aquilino Coppini ?) (2000)

Voglio stare bene (Simonluca) (1980)

She's Leaving Home (Lennon/McCartney) (1980)

Non è Francesca (Battisti/Mogol) (1975)

Musica (Maurizio Anesa, William Marino) (1980)

Il tuo arredamento (Zorama Mariano Rongo) (videoclip 2018)

Brava (Bruno Canfora) (videoclip, 1965)

Ormai (Andrea Lo Vecchio) (1977)

The Nearness Of You (Hoagy Carmichael-Ned Washington) (videoclip live, 2005)  

Core 'ngrato (Alessandro Sisca/Salvatore Cardillo) (1996)

Quando corpus morietur (G.B. Pergolesi) (2000)

Voi ch'amate lo criatore (Laudario Magliabechiano) (2000)

Cry (Churchill Kohlman) (live, videoclip, 1968)

You've Made Me So Very Happy (Berry Gordy, Brenda e Patrice Holloway) (live, Dvd, 1972)

Todas As Mulheres Do Mundo (Erasmo Carlos) (1970)

My Melancholy Baby (George Norton, Ernie Burnett) (1966)

Maruzzella (Enzo Bonagura/Renato Carosone) (1996)

 

Fiume azzurro (Luigi Albertelli/Enrico Riccardi) (live Dvd, 1972)

Io e te da soli (Battisti/Mogol) (live Dvd, 1972)

Stasera io qui (Ivano Fossati) (live, 1978)

Non può morire un'idea (Ivano Fossati) (live, 1978)

E penso a te (Battisti/Mogol) (live, Dvd, 1972)

Vita vita (E. Jannacci/Beppe Viola) (1977)

 

La sera che partì mio padre (E. Jannacci) (1977)

Vincenzina e la fabbrica (E. Jannacci) (1977)

E sa v'é (E. Jannacci) (1977)

La Canzone di Marinella (F. De André) (1997)

Il cielo in una stanza (G. Paoli) (1988)
 Se telefonando (E. Morricone/M. Costanzo/Ghigo De Chiari) (videoclip, 1966)

Capisco (M. Pani) (1980)

Tre volte dentro me (Afterhours) (1997)
Be Bop A Lula (Gene Vincent) (1958)
 Una zebra a pois (Lelio Luttazzi/Dino Verde/Marcello Ciorciolini) (1960)
 Tintarella di Luna (Franco Migliacci/Bruno De Filippi) (live videoclip dal film “Jukebox - Urli d'amore”, 1959)
 

Città vuota (Giuseppe Cassia/Doc Pomus/Mort Shuman) (live videoclip, 1963)

 Mente (Samuele Cerri/Gianni Ferrio) (2002)
 

Bugiardo e incosciente (Paolo Limiti/Joan Manuel Serrat) (1969)

 Amorevole (Vittorio Buffoli/Vito Pallavicini/Pino Massara) (1974)

I giardini di marzo (Battisti/Mogol) (1975)

Good-bye (Gordon Jenkins) (2005)

Secondo me (Giorgio Calabrese/Riccardo Cocciante) (1986)

April In Paris (Vernon Duke-E."Yip" Harburg) (2005)
 

Stella By Starlight (Victor Young/Ned Washington) (1964)

Nature Boy (Eden Ahbez) (1983)
 

Shadow Of My Old Road (Firmo Rizzini/Danidy alias Rudy Meledandri) (1979)

 

Volami nel cuore (Alberto Testa/Manrico Mologni,/Gualtiero Malgoni) (1996)

Oggi sono io (Alex Britti) (live videoclip, 2001)

Il corvo (Marco Lubert) (1991)

Questa canzone (Mario Nobile/Paolo Limiti) (2011)

Amor mio (Battisti/Mogol) (videoclip, 1971)

Un colpo al cuore (G. Bigazzi/M. Capuano) (1968)

Vorrei che fosse amore (B. Canfora/A. Amurri) (1968)

La voce del silenzio (P. Limiti/Mogol/Elio Isola) (live videoclip, 1968)

 Mi chiamano Mimì (G. Puccini) (live 1972)

Emozioni (Battisti/Mogol) (1975)

29 settembre (Battisti/Mogol) (1975)

L’importante è finire (C. Malgioglio) (1975)

Da capo (M. Luberti/R. Cocciante) (1977)

Insieme (Battisti/Mogol) (1970)

Margherita (M. Luberti/R. Cocciante) (live, 1978)
Vento nel vento (Battisti/Mogol) (2018)

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