Piero Ciampi, ogni notte, collezionava donne di cui poche ore dopo a stento ricordava il nome, solo due ne ha amate veramente e le ha perse entrambe, per colpa sua e per sempre. Piero Ciampi cominciava a bere di primo mattino, per schiarirsi le idee, innaffiandole e mescolandole in piccole poesie fino a che il sonno non concedeva una tregua ai suoi cattivi pensieri. Piero Ciampi si dà con tutto se stesso alle persone che incontra oppure le prende a pugni. Qualsiasi cosa pur di abbattere a colpi di scure la foresta d’indifferenza che lo circonda. Piero Ciampi è amico degli scaricatori, degli stradini, dei disoccupati come e più di quanto può esserlo di intellettuali come Moravia, Bene o Schifano. Piero Ciampi si fa pagare cinquecentomila lire (degli anni Settanta!) per cantare mezza canzone e mandare affanculo il pubblico. Piero Ciampi è odiato dai colleghi, dai discografici, dalle radio e dalle televisioni. Piero Ciampi sputa in faccia al successo ogni volta che può e, scommetteteci pure, gode come un pazzo a mandare tutto in vacca. L’unica formalità a cui tiene, a questo mondo, è che lo si chiami poeta e tanto briga che riesce a farsi stampare, a chiare lettere, questa bestemmia dell’industria culturale perfino sul suo passaporto lercio e spiegazzato, alla voce “professione”.
Piero Ciampi è una porta che si spalanca sui mondi più oscuri e (im)possibili della patria canzone. Su uno scenario così apparentemente lugubre e sconsolato che qualcuno s’è subito affrettato a richiuderla, quella porta, o, al massimo, a istituzionalizzarla con una targa, un premio, com’era già successo per Tenco. Diffidate delle rivalutazioni. È Corto Maltese che s’avventura nel suo ultimo viaggio, quello “al confine della notte”. È uno sguardo lucido, scanzonato, commosso e consapevole sul cupio dissolvi. Una sfida già persa in partenza, eppure raccolta contro ogni logica, una sconfitta a cui si va incontro con il sorriso sulle labbra, come William Holden ne “Il Mucchio Selvaggio”. Perché quello che conta non è tanto la vittoria ma l’azione, come in Hemingway. Avere o non avere è la stessa cosa. L’importante è buttare giù tutto in una sorsata e risvegliarsi chissà dove all’alba dell’indomani. La sua vita è un’opera d’arte misteriosa e travagliata quanto l’arte che l'ha ispirato per tutta una vita. La musica è solo un pretesto. L’importante è vivere. A modo suo, sempre e comunque. Piero Ciampi è un avanzo di “bohéme”, ha sbagliato secolo. Un anarchico di Bianciardi. Un clochard, un capocomico senza compagnia, il demone che si nasconde sul fondo dell’ennesima bottiglia. È la mina vagante che fa saltare in aria lo iato apparente che c’è fra mercato e ideologia. Fra Sanremo e la canzone d’autore. E dovremmo essergliene tutti grati. Cosa c’entra lui con la musica italiana? No, semmai cosa c’entra la musica italiana con uno come lui.
Sul porto di Livorno
Piero Ciampi nasce a Livorno il 28 settembre del 1934, nel quartiere Pontino. Un porto d’occidente che dà sul lontano Atlantico. Una roccaforte marinara solcata da “fossi”, scali e “cantine”. Una casbah fragrante di afrori salmastri e miraggi di terre lontane (“Io non ho lasciato il mio cuore/ A San Francisco/ Io ho lasciato il mio cuore/ Sul porto di Livorno/ Le luci si accendevano sul mare/ Era un giorno strano:/ Mi rifiutai di credere che fossero lampare” scriverà molti anni più tardi).
Il padre di Piero è un commerciante di pellame (“di pelle”, quindi, non “di perle” come vuole una diceria più volte ripresa dai giornali) che ha avuto due mogli e tre figli e sopravviverà a tutti e tre.
Livorno rimarrà sempre il porto franco della sua anima da zingaro. Una città di repentini addii e fugaci ricongiungimenti. Una tana che Piero dovrà abbandonare una prima volta già nel 1943 dopo il primo tragico bombardamento di Livorno che devastò completamente la zona del porto, causando quasi seimila vittime e costringendo la sua famiglia a riparare nelle campagne pisane. Maggiorenne Piero s’iscriverà alla facoltà d’ingegneria dell’Università di Pisa. Ma non dura molto: qualche esame e se ne torna a Livorno, c’è la musica nel suo futuro.
Con i fratelli mette su un trio dove ha modo di collaudare il suo particolarissimo stile di canto - più simile a quello dei mattatori d’oltralpe (un po’ Yves Montand, un po’ Boris Vian) che ai “tenori” nostrani - aspro e arcigno, a tratti quasi altezzoso ma capace di sospiri melodici dolcissimi - e di fare un po’ di gavetta nei localini da ballo. Per guadagnarsi da vivere vende olio in un deposito all’interno del porto. Poi viene richiamato per il servizio militare, fa il Car a Pesaro dove conosce, fra gli altri, Gianfranco Reverberi e dove il suo arrivo passerà tutt’altro che inosservato, rivelando in modo già plateale tutti gli elementi distintivi di una personalità vulcanica: beve “come un’irlandese”, “non gli fa paura niente tanto meno un prepotente”, tanto che cerca deliberatamente la rissa coi “nonni” ed è, per usare un eufemismo, insofferente alla disciplina soldatesca, declama, nell’ilarità della camerata, stravaganti poesie inventate lì per lì e scrive toccanti lettere d’amore con cui farà innamorare la figlia del suo comandante; nelle libere uscite va in giro a suonare per locali, un po’ dove capita.
Congedatosi, verso la metà degli anni 50 suona per un po’ il contrabbasso (il suo strumento, prima del pianoforte) nelle orchestrine della Versilia, ma quella musica non la "sente", non è la sua, non gli piace e la cornice sgargiante del fetale “boom” vacanziero - dei padroncini con le loro amichette, dei figli di papà sulle automobili sportive, dei “poveri ma belli” definiti “volgarmente pornografici” o “turbatori di coscienze” dal Santo Padre in persona - gli è, se possibile, ancora più indigesta e soffocante.
È il 1957. A quei tempi per uno come lui, la meta predestinata è una e una sola: Parigi, via Genova, un viaggio di fortuna, senza una lira in tasca e il naufragio nella città dei pittori, dell’esistenzialismo e degli chansonnier. Un altro livornese dopo Modigliani. Piero frequenta Céline e beve alla sua salute, va vedere Brassens e ne rimane folgorato, per un po’ campa di sotterfugi, digiuni ed espedienti, poi ha l’idea che potrebbe cambiargli la vita (anche se alla fin fine, come vedremo poi, non sarà cosi): cantare le poesie che scalfisce ubriaco sui tovagliolini da cocktail nei locali semideserti e malfamati che hanno la ventura di ospitarlo. È bravo, ma è già un caso a parte. Fa cose che nel nostro paese sono ancora virtualmente sconosciute. Assomiglia a un cantautore allora di moda, Felix Léclerc. Ma è italiano. Così comincia a farsi un nome (e, se è per questo, anche un cognome): “Piero L’Italianò”. Tronco e apostrofato, come piace ai cugini. Si beve tutto.
Nel 1959 il ritorno il Italia, di nuovo a Livorno, di nuovo senza soldi, tale e quale a com’era partito. Ma qualcosa sta cambiando. È il 1960, un malessere diffuso serpeggia per il Belpaese, Tambroni è al governo con l’appoggio esterno del Movimento Sociale e Scelba, a Reggio Emilia, spara a zero sui lavoratori (vorremmo tanto che fosse una metafora ma, purtroppo per il nostro paese, non lo è). Una nuova generazione di musicisti si affaccia sulla scena: sono i primi cantautori. Dalla scuola francese a quella genovese. La strada di Piero s’incrocia un’altra volta con quella di Reverberi, deus ex machina della scena ligure, che ora lavora a Milano per la Ricordi, il fulcro discografico della giovane musica “colta” (che all’epoca vuol dire soprattutto Bindi e Paoli o, al massimo, gli ancor defilati Tenco ed Endrigo), come produttore e arrangiatore.
Autunno a Milano
È uno strano tipo di cantautore quello che sbarca nella città dei due Manzoni durante i primi mesi del 60. Un marziano a Milano. Piero Ciampi non si smentisce: troppo “italiano” per i francesi, troppo “francese” per gli italiani. Troppo acerbo per fissare uno standard e troppo se stesso per sfondare .Viene messo sotto contratto da Guido Crepax, l’etichetta è la Bluebell di Antonio Casetta per la quale incide i 45 giri di prammatica a nome Piero Litaliano. Naturalizzato, senz’apostrofo e senz’accento.
Le correzioni prosodiche racchiudono, in parte, il senso di questa sua prima esperienza con l’industria musicale: imbrigliato nel pop-jazz orchestrale della premiata ditta meneghina, sembra un Vian o un Becaud costretto, suo malgrado, a cantare da Modugno. L’esordio, tuttavia, è folgorante. Una cometa che brucia in fretta e passa una volta sola, mentre tutti gli occhi sono rivolti altrove. Lato A: “Comphiteor”, scioccante intro parlata che prelude ai capolavori del Ciampi maturo, segue una poco convinta interpretazione nella maniera del cantautore dell’ “Uomo In Frak”, scandita da surreali coretti infantili stile Reverberi (un marchio di fabbrica: si pensi solo al “Girotondo” di De Andrè in “Tutti Morimmo A Stento”). Ma quello che più colpisce è il testo, qualcosa d’inaudito nel panorama “amore/cuore” del decennio precedente: Ciampi scrive un microdramma in zero atti, l’autoritratto orale di un perdente autolesionista poco pentito di esserlo (“che una volta in una rissa, mi sono arreso a un nano (…) e giuro ogni mattina di fare grandi cose/ ma quando vien la sera che ho fatto? Niente/ che gioco sui cavalli il soldo che mi resta/ e tengo nelle tasche sogni strani”), svelando il lato oscuro della normalità piccolo-borghese (“Mia madre, quando parla di me, dice che sono un buon figlio/ i miei fratelli mi chiamano il loro buon fratello/ i miei amici poi, dicono che sono un loro buon amico, ma loro non sanno…”) con inflessioni tragicomiche degne d’un Cecco Angiolieri.
Il lato B, al confronto, scolora impietosamente sotto il peso degli anni: “La Grotta Dell’Amore”, fantasia idilliaca ramata da lampi di follia, fra il jazz confidenziale di Marino Marini e lo shouting mediterraneo di Modugno.
Nel 1961 segue la doppietta “L’Ultima Volta Che La Vidi”/ “Quando Si Leva Il Vento”: ancora notevole la prima, con la sua epica popolaresca alla Rustichelli, i crescendo orchestrali, i toccanti cori femminili in sottofondo, citazioni, forse involontarie, di Camus (“in questa vita sono uno straniero”) e versi capolavoro come “io non posso più andare/ tra i sorrisi della gente/ né chiedere alle cose un posto in mezzo a loro”; più manierata la seconda, italo-pop orchestrale cinquantesco e venato di jazz.
L’anno dopo pubblica ancora un pezzo marginale e derivativo, “Alè Alè”, tentativo di rincorrere lo swing cabarettistico di Buscaglione, e uno clamorosamente in anticipo sui tempi, “Non Siamo Tutti Eroi”, enfasi reverberiana-morriconiana, anti-epos post-bellico adombrato in pennellate fiabesche che anticipano “40 Soldati e 40 Sorelle”, la guerra vista dalla parte delle vittime innocenti che alla fine si somigliano tutte e per questo, come in Pavese, “ce ne chiedono ragione”.
Nel frattempo è passato alla Cgd, sempre con Crepax, che nel 1963 pubblica il suo esordio a 33 giri. Piero Litaliano (per lo più una raccolta di singoli) è un disco di discreta fattura, che aderisce piattamente agli standard pop dei primi anni Sessanta e, pur non possedendo la limpida maestria d’un Paoli, la virtuosistica ricchezza compositiva d’un Bindi, né l’animo noir e l’acutezza polemica d’un Tenco, per questo genere di canzoni, mette in mostra un pugno d’ illuminazioni che lo elevano ben al di sopra della mischia canzonettistica.
Fra echi di Paoli (nel canovaccio melodico di “Fino All’Ultimo Minuto” che è praticamente quello di “Senza Fine” e nell’orchestrale “Il Tuo Ricordo”, sostenuta da una ritmica impalpabile) e di Tenco (l’amara “Non So Più Niente” con i pattern alternati di fiati e violini e la danubiana “Qualcuno Tornerà”), episodi confidenziali come “Autunno A Milano” (pochi dettagli autobiografici e rivelatori, buttati là quasi sbadatamente, a dare forza ai luoghi comuni della lirica amorosa), “Ho Lasciato A Casa Il Tuo Sorriso” e “Quando Il Giorno Tornerà” (la strofa “sussurrata” alla Henri Salvador e l’inciso decisamente italico), prendono forma gli ultimi gioielli firmati “Litaliano” e i primi carati del Ciampi più autentico: la melanconia ironica e contagiosa di “Fra Cent’Anni”; “La Polvere Si Alza”, con gli archi lugubri e incrinati come in un deguello morriconiano e Piero decisamente più a suo agio nel recital che nel bel canto dilagante del ritornello; “Confesso”, quasi un remake, poco più politicamente corretto, di “Comphiteor” - un vigliacco che si finge eroe come il Bardamu di Céline, la tragedia del commediante, un clown sull’orlo d’una crisi di nervi - sviscerato su un brillante tema jazz da big band che sembra uscito dai film di James Bond; e, dulcis in fundo, “Non Chiedermi Più”, finalmente degna d’un Brel, dove già mette a punto quello stile scapigliato, colloquiale, teatrale e debordante che verrà nel dialogo/invettiva fra lui e un’amante complicata e recalcitrante (“sono anni che vai avanti con quella tua testa piena d’incomprensione”).
Il cantante di domani
“Il cantante di domani lo lanceranno come un detersivo, l'industria della canzone si aggiorna. [...] Ormai si creano i successi prefabbricati. Questo giovanotto si chiama Piero Litaliano e il suo nome, fra qualche mese, sarà sulla bocca di tutti: sono già pronti i dischi, i manifesti e gli slogan pubblicitari. [...] Fra sei mesi, un anno al massimo, Piero Litaliano sarà popolare come Mina. [...] è il cantante nuovo costruito scientificamente per il 1962.”.
Invece nisba. Nonostante gli sproloqui della “Domenica del Corriere” non si cava un ragno dal buco. Niente più niente uguale a niente. Piero è il cantante di un domani così lontano che per trovare un suo album in vendita al negozio sottocasa bisognerà aspettare il 1990. Ironia della sorte.
A Milano ha chiuso, torna a Livorno dove incontra un tale di nome Gaetano Pulvirenti, ex-dipendente della Rca, che gli propone di mettersi dietro una scrivania a scrivere motivetti radiofonici e a dirigere la sua piccola etichetta discografica, la Ariel. Fra i due, una volta tanto, non è Piero il più folle. Produce un paio di 45 giri per Giorgia Moll, una divetta dei “caroselli”, poi mentre la popolare Milly rifà la sua “Autunno A Milano” (1964), compone un motivo intitolato “Ho Bisogno Di Vederti”, così spudorato nell’accomodare il modello di “Tous le Garçons et Le Fille” ai casti cliché della melodia italiana che sarebbe quasi geniale. Il brano, interpretato da Gigliola Cinquetti, arriverà quarto al Festival di Sanremo del 1965. Ma i riscontri commerciali sono sconfortanti, tanto che dopo poco la Ariel chiude i battenti.
Lui ci riprova (con la Sibilla, stavolta) e punta tutto su una cantante di nome Lucia Rango per la quale scrive, arrangia e produce (insieme a Elvio Monti) un album pomposamente intitolato “Lucia Rango Show”, basato su nuovi brani e su fiacche riprese dal disco di Piero Litaliano. Ma state pur certi che, come lo scommettitore incallito della sua “Il Giocatore”, avrà ben presto di che pentirsene.
È il 1967 e la vita di Piero è già un odissea “transalcolica” senza ritorno: avvistato nei posti più improbabili dall’Irlanda, alla Svezia, alla Spagna, perfino in Giappone, neanche fosse l’Olandese Volante, ha appena bruciato un matrimonio (con un’irlandese di nome Moira che gli ha dato un figlio nel 1963 e se n’è andata poco dopo) e un altro ne manderà in fumo di lì a breve (con Gabriella, romana, l’altra delle “due donne (…) belle, bionde, alte snelle” che “(…) per lui non esistono più”, citata in “Ha Tutte Le Carte In Regola”). Per sua (e nostra) fortuna i Settanta sono ormai alle porte. È la decade da cui non uscirà vivo, il momento di massimo fulgore, la volta temporale che circonfonde tutti i suoi capolavori.
Ha tutte le carte in regola
Due sono i personaggi fondamentali in questa discesa/ascesa negli assurdi e geniali precipizi della propria creatività. Il primo è Gino Paoli, amico di Piero da lunga data (nel 1962 era stato il primo a incidere un suo pezzo, “Le Cose Dell’Amore”, e nel 1980, dopo la sua morte, gli dedicherà un intero album di tributo intitolato, neanche a dirlo, “Ha Tutte Le Carte In Regola"), che lo ripesca non si sa dove e lo porta di peso negli uffici della Rca presentandolo come una sorta di gallina dalle uova d’oro (“Ha tutte le carte in regola!”, avrà spergiurato) e garantendo per lui dall’alto della sua forza contrattuale.
Morale della favola: Piero intasca l’anticipo della casa discografica, lo spende tutto ancor prima d’incidere un solo pezzo e torna chiederne dell’altro. Finisce che la multinazionale depenna il suo contratto scaricandolo a una sussidiaria, la Amico (fondata qualche anno prima da Don Backy, Detto Mariano e altri fuoriusciti del Clan di Celentano).
Ed è una fortuna, la classica fortuna degli ubriachi, quella che ti fa reggere in piedi, barcollando a destra e a manca, in barba alle leggi della gravità: perché è qui che inizia la sua collaborazione con Gianni Marchetti di cui Piero Ciampi (1971) sarà il primo, superbo frutto. Al pari di Ciampi, Marchetti è un mezzo genio fino ad allora incompreso, autore di colonne sonore di pregio per film improponibili (fin dai titoli) come “I vigliacchi non pregano”, “Diario segreto di una minorenne” o “Muori lentamente… te la godi di più”. Il loro incontro darà vita a uno dei più fenomenali sodalizi fra un autore e un compositore che la storia musicale italiana ricordi, sul livello di un Mogol/Battisti, un Roversi/Dalla o un De André/Piovani, solo per rimanere a quegli anni.
Con Marchetti, Piero è finalmente libero di essere se stesso, di esprimere quell’individualismo straripante, quel lirismo senza rete, quell’epopea dell’emarginazione, quel cabaret d’ordinaria follia che è la cifra stessa della sua scrittura poetica e della sua estroversione vocale. Quello di Ciampi è uno stile prettamente orale, dialogico, teatrale, volatile (non per nulla, due delle espressioni che più frequentemente ricorrono nelle sue canzoni sono “Tu” e “No”, ovvero l’accettazione dell’altro e la sua negazione, la ricerca di una conciliazione fra un bisogno d’amore, d’empatia, di comprensione e l’istinto folle che lo spinge a divincolarsi dal branco per abbaiare solitario alla luna): un modo di scrivere, di cantare e di porgere le parole volto ad abbattere il muro della rappresentazione che divide il mondo dell’autore da quello dell’ascoltatore ma, al contempo, alieno da mutue identificazioni populiste, da “io sono uno di voi, voi parlate con la mia voce”, perché è fieramente escluso che lui possa essere qualcuno di diverso da se stesso, da quello che è sempre stato.
Marchetti, con il suo stile legato al jazz, alla musica mediterranea e al folklore italico, con la sua abilità nel confezionare un commento ironico o drammatico attorno a una determinata scena (come nelle colonne sonore), improvvisa attorno al pianoforte (spesso affiatato ad archi e chitarre acustiche) abiti di misura estesa e mutevole che si adattano perfettamente, di volta in volta, al corpo delle canzoni, talora semplici e rammendati, talora fastosi ed eleganti. La maggior parte delle composizioni, peraltro, rinunciano al ritornello nel formato classico, in favore di un refrain strumentale ripetuto e distintivo, libertà ancor oggi straniante in un contesto pop italiano.
Eccentrico rispetto agli standard cantautoriali del periodo e concepito in assoluta autonomia espressiva, Piero Ciampi è un'opera senza punti deboli, uno dei massimi traguardi tagliati dalla nostra musica popolare. Il disco contiene buona parte dei classici del suo repertorio a cominciare da “Il Vino”, forse il brano più noto, nel cui caravanserraglio lirico e musicale (passo sghembo e ubriaco, aria popolare, arrangiamento orchestrale, vocalità espressionista e plateale) c’è già tutto un personaggio come Capossela, “È Natale il 24”, un madrigale struggente e picaresco con le chitarre in evidenza (oltre ai legni e agli archi) che sembra l’autobiografico, tragicomico, sbandato e surreale crocevia di “Cronache di poveri amanti” e “Amici Miei” (“Io vado/ quando sono abbandonato vado in cerca di una donna/ senza danni sento/ quelle volte che non pago che rimane pure amore/ per un’ ora”), lo spasmodico intercalare che scongiura l’addio d’un amante in “Tu No” (“se non so farti felice anche se continuo a bere, tu no, tu mi devi star vicina, perché ormai io sono fuori, tu no”), come un fantasma costretto a rivivere la scena della sua morte fino alla più straziante ammissione d’impotenza (“io non so che cosa fare, non capisco questa vita”) o la sperduta e malinconica elegia di “Livorno”, col piano jazzato, il ritornello orchestrale, gli arpeggi di chitarra e i rintocchi di vibrafono.
E il resto non è da meno: “Ma Che Buffa Che Sei”, suspence pianistica alla francese (Aznavour), ricami mediterranei di chitarra, un finale a passo di carica quasi da prog acustico, ma soprattutto un “parlar d’amore” - rude e sfrontato e nello stesso tempo dolce e affranto - come nessuno mai prima di lui (“quel pugno che ti detti/ è un gesto che non mi perdono/ ma il naso ora è diverso/ l’ho fatto io e non dio/ ma che amore che sei/ ma che cara che sei/ quei ragazzi laggiù sembrano noi”); gli scorci milanesi e i randagi amori di mezz’età - vicoli infami che puzzano di piscio, odore di vino e di sigaro sulla soglia delle osterie, stanze buie e letti disfatti - di “Sobborghi” (vertiginosa armonia tzigana, tamburi percossi a mano e un break recitato che vale più di mille parole “e poi, perché dici amarmi?/ per andare avanti?/ dove?/ No”); le infamie e le miserie coniugali di “L’Amore è Tutto Qui” (clavicembalo, basso punteggiato, spazzole, archi e chitarre nel refrain) in cui si mescolano tenerezza, rimpianto e senso della fine (“non sono morto e tu lo sai/ se ti procuro tanti guai/ perdonami”); l’allegoria umanistica ( memorie d’infanzia e della Resistenza trasfigurate in echi fiabeschi) e l’arrangiamento tropicale di “40 Soldati 40 Sorelle”; il night jazz orchestrale dal sapore americano di “Barbara Non C’è”, così languida, raffinata e retrò.
Completano l’opera due episodi più farseschi (ma solo apparentemente: il riso, in realtà, è l’altra faccia del disprezzo antiborghese e dello spleen): la scenetta da avanspettacolo de “Il Merlo”, sorta di recital boulevardien all’amatriciana e lo sketch compulsivo sul gioco d’azzardo che si conclude sempre allo stesso modo (“Merda!”) in “Il Giocatore” (con intermezzi da danza popolare per archi, legni, chitarra acustica e stille d’elettrica).
Te lo faccio vedere chi sono io
Nonostante un “secondo esordio” che per vitalità poetica e musicale ha pochi eguali nella storia della canzone italiana, gli sforzi di Ciampi e Marchetti passano pressoché inosservati. La Rca combina una partecipazione al “Disco per l’estate” con “L’amore è tutto qui” che si conclude in modo rinunciatario all’ultimo, posto. “Tu No” fa perdere la testa ad Aznavour in persona che lo invita a “Senza Rete”; Ciampi ci va ma poi s’impunta, non vuole cantare; finisce con Paolo Villaggio che lo spinge sul palco tirandolo per la giacca, nel vero senso della parola. L’album viene insignito del “Premio della Critica”, ma nessuno si premura di promuoverlo come si deve, lui per primo, troppo preso da quel viaggio senza ritorno dove la notte ormai non si distingue dalla luce del giorno. Ciampi non sa stare al mondo, non riesce a mettere le cose in prospettiva, a dar loro il giusto valore: la sua musica e la sua libertà sono le uniche cose che lo interessano.
Ma ha risorse creative insospettabili e rabbia da vendere: nel 1973 bissa il colpo con un’opera che è la degna prosecuzione del nuovo corso inaugurato dall’album omonimo. Scritto, composto e suonato in stretta collaborazione con l’ormai inseparabile Marchetti e un cantautore calabrese di nome Pino Pavone, Io e Te Abbiamo Perso La Bussola (Amico, 1973) si distacca ancora più del precedente dal concetto di canzone d’autore in voga negli anni Settanta: zingaro sempre più infelice, Ciampi vaga fra panorami sonori dilatati, cupi, amalgamati in una colonna sonora che calza alla perfezione con la sua anarchica commedia all’italiana, seguendo un filo conduttore incentrato su vicende personali (l’abbandono da parte della sua seconda moglie, le pratiche legali, la custodia dei figli), sui temi della separazione, del distacco, della solitudine (in anni in cui il divorzio è ancora un tema scottante, oltre che una conquista recente).
Se i capolavori “Ha Tutte Le Carte In Regola”, forse il suo epitaffio umano e artistico, e “Io e Te, Maria”, superbo soliloquio in forma di serenata (chitarra, archi, flauto, cori) spartita in continue ripartenze, cambi di tempo e di armonia, e il cabaret esistenziale di “Te Lo Faccio Vedere Chi Sono Io” (sorta di satira dell’amore borghese in forma dialogica) rimandano ancora al primo capitolo, brani come “Il Lavoro” (espansa e narrativa, la disoccupazione come metafora di una vita ai margini del benessere e della stabilità emotiva: piano jazzistico, merlatura orchestrale, basso sottocutaneo), “Mia Moglie” (apice del suo cantar recitando su un soundscape teatrale e orchestrale), “In Un Palazzo Di Giustizia” e “Bambino Mio” (jazz lounge con accompagnamento galeotto, avvolgente e spiraliforme) rappresentano efficacemente il nuovo livello drammaturgico a cui è assurta l’arte di Ciampi.
Nello stesso anno esce Ho Scoperto Che Esisto Anch’io straordinario tributo di una delle interpreti più geniali e borderline della canzone italiana, Nada Malanima, che con quella sua voce potentissima, rustica, abrasiva, bizzosa riprende alcuni Ciampi d’annata, “Confiteor” e “L’Amore è Tutto Qui”, oltre a una serie fulminante di inediti tutti composti dal cantautore livornese insieme a Marchetti (che cura anche l’arrangiamento e l’orchestrazione) e Pino Pavone: “Sul Porto Di Livorno” (take poetico e descrittivo di una potenza audiovisiva allucinante), “La Passeggiata”, “Chi è Che Dorme Insieme A Me”(coraggiosa e disinibita affermazione di promiscuità sessuale), “Sovrapposizioni” (sublime affresco gitano-circense in stile Rota/Fellini), “I Due Cavallini” (un classico di Piero: il gioco dei cavalli come metafora dell’amore), “Esisto Anch’io” (virtuosistico e semi-improvvisato collage lirico-vocale a tratti degno d’una Mina). Misconosciuta ed inestimabile gemma del pop italiano. Stupefacente e informale (auto)ritratto della condizione femminile, dell’emancipazione sentimentale e sessuale, all’inizio di quello che sarà, per antonomasia, il decennio di maggior avanzamento dei diritti della donna.
Andare, camminare, lavorare…
Sempre più marginale ed emarginato, nel 1974 Ciampi si concede il lusso di buttare nel cesso l’ultima occasione per svoltare: Ornella Vanoni, impressionata dalle sue performance, chiede a Marchetti di produrle un disco con il meglio del repertorio di Piero; ma Ciampi non si trova (a volte, misteriosamente, riusciva a far perdere le sue tracce), Marchetti si dispera, prende tempo, batte tutte le piste che potrebbero portarlo a lui, niente. Ecce Homo: il progetto sfuma. Nel 1975 esce su Rca Andare, Camminare, Lavorare e Altri Discorsi, una summa (parziale) di brani significativi estratti dai lavori precedenti più due inediti, anch’essi all’altezza della situazione: "Andare, Camminare, Lavorare", sorta di galoppante funky-cabaret sul “principio di prestazione”, per citare Marcuse, una satira surreale e scioperata sull’italietta dei referendum, dell’austerity e degli anni di piombo e “Cristo Fra I Chitarristi”, brano frugale, solo chitarra e voce alla Brassens, una parabola che assimila beffardamente il calvario di un musicista fallito a quello del Redentore.
Ad oggi è forse il suo disco più conosciuto.
A pochi mesi di distanza viene pubblicata, in un doppio 33 giri, quella che sarà, di fatto, la sua ultima fatica discografica: Piero Ciampi Dentro e Fuori. Un commiato notevole sebbene, dal punto di vista musicale, un po’ più ripetitivo e sottotono rispetto al passato recente, particolarmente ispirato nei testi, forse mai così fluenti e narrativi, come se presagisse di avere tante, troppe cose da dire (a costo di essere verboso) e poco tempo per farsi ascoltare. La sua previsione, una volta tanto, si rivelerà esatta. “Canto Di Una Suora”, con i suoi accenti western (armonica, chitarra, archi) e la sua figurazione di una religiosità al contempo laica, monastica e libertaria, “Sul Porto Di Livorno” (già presente sul disco di Nada), “Raptus”, musicalmente uno dei pezzi migliori mai orchestrati da Marchetti: una sorta di murder ballad maremmana con la strofa di languido jazz stile colonna sonora “Erotika ’70” (o qualcosa del genere) e ispirati cambi di funk-rock da “poliziottesco”, e “Cara”, con la bella fuga di mellotron del tema strumentale, sono di gran lunga i pezzi più pregiati di un artigianato dalla qualità media comunque elevata.
Per il resto si segnalano il decadentismo anni Sessanta di “L’Incontro” e “Disse, Non Dio, Decido Io”, la bossa-jazz di “Uffa Che Noia” (“la vita è una classe in cui la noia è maestra”, avrebbe convenuto Celine), gli inusitati squarci di rock provinciale anni 70 in “Va” (memorabile questo passaggio: “Io tra milioni di sguardi che s’inseguono in terra/ ho scelto proprio il tuo/ ed ora tra miliardi di vite/ mi divido con te”), la spietata autoanalisi di “L’Assenza è Un Assedio”: “Una vita a precipizio/ l’esistenza senza un senso/ la discesa senza ritorno/ poi la salita viene crudele”, il divertissement swing e i cori alla Trio Lescano di un pezzo in cui Ciampi si confronta finalmente con la maschera del perdente per eccellenza: “Don Chisciotte”.
Fino all’ultimo minuto
Dopo questa prova, il commediante più tragico che abbia mai calcato la scena italiana sfilerà progressivamente dietro le fioche luci della ribalta, verso la notte che lo attende.
Degli ultimi anni della sua vita, mentre un po’ stentatamente s’alimenta un flebile riscontro di culto e di stima, si ricordano soprattutto alcuni episodi mondani, a un tempo sublimi e folkloristici, come la rissa a Roma col “Califfo” (che, imperdonabile, pare lo avesse invitato nel suo night-club dimenticandosi però di offrirgli da bere), i concerti lasciati a metà (o appena iniziati, come quello “delle cinquecentomila lire”), la partecipazione, malfermo sul palco e in evidente stato di ebbrezza, al Tenco del 1976, dove un diverbio con il pubblico spazientito sfuma, a fine canzone, negli applausi e nella reciproca commozione.
Morte a credito: Piero Ciampi si spegne a Roma il 19 gennaio del 1980, non di cirrosi, come aveva accuratamente predisposto, ma di cancro, e il medico che lo assisterà “fino all’ultimo minuto” è, ironia della sorte, anche lui un cantautore: Mimmo Locasciulli.
A tal proposito, l’evento postumo più significativo è la pubblicazione (in triplo 33 giri o doppio cd) nel 1990 dell’edizione Rca intitolata L’Album di Piero Ciampi (o semplicemente “Piero Ciampi”), una raccolta che, oltre ad un impeccabile sunto della carriera del geniale livornese, mette a disposizione la prelibatezza di sei inediti che faranno la gioia sia degli iniziati che dei neofiti.
Canzoni che, se possibile, svelano un lato ancora più folle e affascinante del cantautore: “Adius” parte come una variazione sul tema de “L’Assenza è Un Assedio” per poi deragliare in un carnasciale bandistico e liberatorio (“Ma Vaffanculo! Sono quarant’anni che ti amo, ma vaffanculo!”, ovviamente improponibile all’epoca); ancor più ardite, avveniristiche ed eccentriche rispetto a qualsiasi genere o stile battezzato nel belpaese suonano però “Non C’è Più L’America” (slam poetry pieno di versi memorabili e di citazioni letterarie), “Hitler In Galera” (puro teatro dell’assurdo sugli ultimi, immaginari giorni del dittatore austriaco) e “Dario di Livorno” (la storia vera di un ragazzo arrestato per un banale scherzo e rinchiuso in manicomio, raccontata in uno stomp-blues), sghembe e aliene, tra il freak-folk acido e iridescente degli anni 60, lo stornello ubriaco e il lo-fi ante-litteram.
La guerra di Piero non finisce mai: perché “non si combatte con le armi ma col cuore”. Anche dall’altrove.
Un particolare ringraziamento a Enrico Venturi (www.bielle.org) e Gisela Scerman (www.gisy.it)
Piero Litaliano (Cgd, 1963) | 6 | |
Piero Ciampi (Amico, 1971) | 8 | |
Io e Te Abbiamo Perso La Bussola (Amico, 1973) | 7,5 | |
Andare, Camminare, Lavorare e Altri Discorsi (Rca, 1975) | 8 | |
Piero Ciampi Dentro e Fuori (Rca, 1975) | 7 | |
Le Carte In Regola (Rca/Lineatre, antologia, 1981) | 7 | |
L'Album di Piero Ciampi (Rca, antologia con 6 inediti, 1990) | 8 |
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Ma Che Buffa Che Sei (dal programma Rai "Piero Ciampi, No!", 1977) | |
Tu No (dal programma Rai "Piero Ciampi, No!", 1977) | |
Il Giocatore (dal programma Rai "Piero Ciampi, No!", 1977) | |
Io e Te Maria (Nada canta Piero Ciampi) |