Fabrizio De André è uno dei maestri indiscussi della canzone d'autore italiana. Profondamente influenzato dalla scuola d'oltre Oceano di Bob Dylan e Leonard Cohen, ma ancor più da quella francese degli "chansonnier" (Georges Brassens su tutti), è stato tra i primi a infrangere i dogmi della "canzonetta" tradizionale, con le sue ballate cupe, affollate di anime perse, emarginati e derelitti d'ogni angolo del mondo. Il suo canzoniere universale attinge alle fonti più disparate: dalle ballate medievali alla tradizione provenzale, dall'"Antologia di Spoon River" ai canti dei pastori sardi, da Cecco Angiolieri ai Vangeli apocrifi, dai "Fiori del male" di Baudelaire al Fellini dei "Vitelloni". Temi che negli anni si sono accompagnati a un'evoluzione musicale intelligente, mai incline alle facili mode e ai compromessi.
De André usava il linguaggio di un poeta non allineato, ricorrendo alla forza dissacrante dell'ironia per frantumare ogni convenzione. Nel suo mirino, sono finiti i "benpensanti", i farisei, i boia, i giudici forcaioli, i re cialtroni di ogni tempo. Il suo, in definitiva, è un disperato messaggio di libertà e di riscatto contro "le leggi del branco" e l'arroganza del potere. Di lui, Mario Luzi, uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, ha detto: "De André è veramente lo chansonnier per eccellenza, un artista che si realizza proprio nell'intertestualità tra testo letterario e testo musicale. Ha una storia e morde davvero".
Le musiche delle sue prime canzoni, radicate da Nicola Piovani dentro la tradizione popolare italiana, sono state negli anni contaminate da altre culture. Il suo linguaggio si è gradualmente evoluto verso il sincretismo. E proprio la valorizzazione dei dialetti gli è valsa il Premio Govi. "In una nazione giovane come l'Italia i dialetti sono indispensabili - ripeteva spesso - Rappresentano un desiderio di identificazione nelle proprie radici che si fa tanto più forte quanto più si diffonde l'idea di una mega-statalizzazione europea. E poi l'italiano, se non fosse nutrito delle frasi idiomatiche, diverrebbe un linguaggio adatto solo a vendere patate o a litigare nei tribunali".
Valzer per la libertà
Fabrizio De André nasce a Genova il 18 febbraio 1940, in Via De Nicolay 12, da Luisa Amerio e dal professor Giuseppe De André. Nella primavera del 1941, il professor De André, antifascista, visto l’aggravarsi della guerra, sposta la famiglia nell’Astigiano, acquistando un casale nei pressi di Revignano d’Asti, la Cascina dell’Orto, dove Fabrizio trascorre parte della propria infanzia con la madre e il fratello maggiore Mauro. Qui il piccolo “Bicio” – come viene soprannominato – impara a conoscere tutti gli aspetti della vita contadina, integrandosi con le persone del luogo. Ed è proprio in quel contesto che inizia a manifestare la sua passione per la musica: un giorno la madre lo trova in piedi su una sedia, con la radio accesa, intento a dirigere un brano sinfonico a mo' di direttore d’orchestra. La leggenda narra che si trattasse del “Valzer campestre” del celebre compositore Gino Marinuzzi, dal quale, oltre 25 anni dopo, Fabrizio trarrà ispirazione per il suo “Valzer per un amore”.
Nel 1945 la famiglia De André torna a Genova, stabilendosi nel nuovo appartamento di Via Trieste 8. Nell’ottobre del 1946 il piccolo Fabrizio viene iscritto alla scuola elementare presso l’Istituto delle suore Marcelline (da lui ribattezzate “porcelline”) dove inizia a manifestare il suo temperamento ribelle e anticonformista. Viene quindi spostato in una scuola statale, l’Armando Diaz. Nel 1948, i genitori, appassionati di musica classica, decidono di fargli studiare il violino affidandolo alle mani del maestro Gatti, che subito scorge tutto il talento del giovane allievo.
Fabrizio porta avanti gli studi fermandosi all'università (facoltà di Giurisprudenza) a sei esami alla fine. Nel frattempo, era esplosa la sua vocazione musicale, tramite gli studi di chitarra, oltre che di violino, e l'esibizione in concerti jazz, fino alla composizione di propri brani originali. Una vocazione che, grazie al successo dell'interpretazione nel 1968 da parte di Mina della sua "Canzone di Marinella", gli permette di continuare il mestiere di musicista. Il brano, che era stato scritto da De André nel 1962 e pubblicato su singolo due anni dopo assieme a "Valzer per un amore", è una fiaba sognante, sospesa nel tempo, ma ispirata in realtà dalla storia vera della morte di una prostituta. "La storia di una ragazza che a 16 anni si era trovata a fare la prostituta ed era stata scaraventata nel Tanaro o nella Bormida da un delinquente", secondo le parole del suo autore, anche se l'episodio più plausibile per l'ispirazione del brano pare sia stato un delitto del 29 gennaio 1953: l'uccisione di una ragazza di nome Maria, il cui corpo venne poi gettato nel fiume Olona. Una storia che emozionò il giovane Fabrizio al punto da spingerlo a reinventare una vita a quella ragazza e ad addolcirne la morte. La definirà “una canzone napoletana scritta da un genovese” e sarà impreziosita dall'orchestrazione del maestro Gian Piero Reverberi: un ritmo lento di bolero per una cornice musicale scarna ma solenne, con un testo che con linguaggio quasi arcaico pennella una fiaba di grande intensità poetica. Non sarà la prima volta che un episodio di cronaca verrà sublimato da De André in musica. Proprio la realtà quotidiana, infatti, dà linfa alle sue prime composizioni, che tradiscono la passione per la letteratura francese: Proust, Maupassant, Villon, Flaubert, Balzac, su tutti. A colpire è anche l'interpretazione di De André, che - come il maestro Cohen - indulge sulle tonalità più basse, grazie alla sua voce profonda e baritonale, aggiungendo un tocco di drammaticità in più.
Sono gli anni in cui la Scuola di Genova sforna canzoni d'autore con Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi e soprattutto Luigi Tenco. L'amicizia di De André con quest'ultimo nasce in una balera di Genova. Tenco gli si avvicina dicendo: "Sei tu che vai in giro a dire che 'Quando' l'hai scritta tu?". "Si', l'avevo detto in giro per prender della figa", la replica di De André. Tenco si mette a ridere.
Da qui in poi nascerà un’amicizia tra i due, fino a quella tragica notte del 27 gennaio 1967 quando Luigi Tenco si toglierà la vita a Sanremo. E De André al ritorno dal funerale si metterà davanti a un foglio di carta, scrivendo di getto una canzone per l’amico scomparso, "Preghiera in gennaio", che riprende il tema del “suicidio eroico”, gà caro al Leonard Cohen di "Who By Fire" e che ricorrerà spesso nel canzoniere dell’artista genovese. Una ballata splendida e commovente, che sarà anche inclusa su Volume 1, il primo album di inediti pubblicato da De André nel 1967 dalla Bluebell, con versi molto toccanti e polemici ancora una volta contro la morale comune che condanna senza pietà i suicidi: “Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia, se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio, fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, che all'odio e all'ignoranza preferirono la morte”. Un testo ispirato in parte a una poesia di Francis Jammes, un poeta francese dei primi del Novecento, “Prière pour aller au paradis avec les ânes”.
Il primo 45 giri attribuito a Fabrizio De André risale in realtà a qualche anno indietro, "Nuvole Barocche" (1958), un brano d'impostazione tradizionale sulla falsariga della canzone melodica d'autore di Domenico Modugno. La canzone sentimentale occupa un posto di rilievo nella prima produzione del cantautore ligure, sublimandosi in ballate di struggente intensità emotiva, come ad esempio la dolente "La canzone dell'amore perduto", riflessione sua fine di una storia, interpretata con tono fatalista su una musica del compositore tedesco Georg Philipp Telemann (il tema del concerto per tromba e orchestra in Re maggiore) e la melanconica "Amore che vieni, amore che vai", che si sofferma mestamente sulla caducità del sentimento e sulla sua mutevolezza.
Da altri brani, invece, affiora la vena più caustica e anticonformista di De André, attraverso una serie di temi scomodi, disturbanti e oltraggiosi per la morale dell'Italia dell'epoca. Un capitolo è sicuramente occupato dalle invettive antimilitariste, celate dietro le sonorità trasognate e i versi aulici di canzoni come "La ballata del Michè", "La ballata dell'eroe" e soprattutto "La guerra di Piero", quasi una risposta italiana agli inni pacifisti di Bob Dylan e Joan Baez, con la storia del soldato antieroe protagonista, che ha un moto di clemenza verso un militare nemico che gli risulterà fatale, ricevendo per tutta risposta dal nemico un colpo che lo uccide. Il nume tutelare è ancora una volta Brassens, ma l'ispirazione viene anche dalla figura dello zio del cantautore, Francesco, dal ricordo del suo ritorno dal campo di concentramento, dei suoi racconti tragici sulla guerra. Nel testo, non mancano anche echi di altre poesie, tra cui "Le dormeur du val" (L'addormentato nella valle) di Arthur Rimbaud, mentre una quartina richiama inequivocabilmente la canzone "Dove vola l'avvoltoio", scritta nel 1958 da Italo Calvino e musicata da Sergio Liberovici.
Nel mirino di De André finisce soprattutto la società italiana più retriva e ipocrita. "La città vecchia" è una summa a ritmo di mazurca di tutti i topoi dei quartieri malfamati dell'umanità. "Delitto di paese" è una sferzante ballata noir in cui miseria e morale bigotta sono immersi in un clima baudelairiano da "Fiori del male", ma con lo spirito caustico di Brassens ad aleggiare su ogni verso. La "Ballata dell'amore cieco", parabola crudele della vanità femminile, pare addirittura uscita da una delle leggende dei Nibelunghi.
Tra le canzoni dell'epoca svetta anche un geniale guizzo satirico: la ballata medievale "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers", scritta con l'amico Paolo Villaggio, in grado di raggiungere vette di comicità esilarante degne dei monologhi teatrali più oltraggiosi di Dario Fo. Mentre De André pennella una musica solenne, Villaggio usa per il testo un linguaggio sarcasticamente aulico, ispirandosi alla tradizione medievale e fatta di battaglie, onore e "cavalleria", narrando le vicende di Carlo Martello, che, appena tornato vittorioso dalle gloriose gesta belliche contro i Mori, non trova di meglio da fare che comportarsi da perfetto maschio cialtrone con una fanciulla popolana di facili costumi, incontrata mentre nuotava in un ruscello, per soddisfare i suoi appetiti sessuali, che gli provocano più dolore delle ferite fisiche riportate in battaglia (“Ma più che del corpo le ferite/ da Carlo son sentite/ le bramosie d'amor”) e che si infuria, impreca e scappa quando la fanciulla gli presenta il conto ("E' mai possibile, porco d'un cane/ Che le avventure in codesto reame/ Debban risolversi tutte con grandi puttane/ Anche sul prezzo c'è poi da ridire/ Ben mi ricordo che pria di partire/ V'eran tariffe inferiori alle tremila lire").
Ancora il tema della prostituzione riemerge su due altri gioielli del periodo: "Via del Campo" e "Bocca di rosa", filastrocche incantate in cui il mestiere più antico del mondo viene ancora una volta "redento" in chiave mitica, fustigando l'ipocrisia borghese e la mentalità bigotta dell'Italia dell'epoca. "Via del Campo" è ispirata all’omonima strada dei carruggi di Genova che Fabrizio conosceva bene per via delle sue scorribande notturne degli anni 60 e che era sempre teatro di amori mercenari e commerci illeciti: una ballata con musica tratta da una canzone di Dario Fo ed Enzo Jannacci, “La mia morosa la va a la fonte”. È invece ancora una volta Brassens, con la sua celebre canzone "Brave Margot", l'ispirazione per la geniale "Bocca di Rosa", altra feroce invettiva contro "le comari di un paesino", qui chiamate a rappresentare la mentalità retrograda, invidiosa e beghina dell'Italia intera.
Con questa sequenza impressionante di brani, De André demolisce, a uno a uno, tutti i cliché della canzone tradizionale coronando, in Italia, un'operazione paragonabile a quella compiuta da Bob Dylan negli Stati Uniti. "Se non avessi mai conosciuto le canzoni di Fabrizio, non avrei mai cominciato a scrivere le mie", ha detto, per esempio, Francesco De Gregori. E anche Franco Battiato si è detto debitore delle ballate di De André, tanto che nel suo album "Fleurs" ha voluto incidere due cover ("La canzone dell'amore perduto" e "Amore che vieni, amore che vai") tratte dal primo repertorio dell'artista ligure.
Quelli di De André sono ritratti sociali folgoranti, intrisi di un'ironia caustica e dissacrante, con personaggi che sembrano quasi schizzare fuori dai versi, con la loro carica di umanità, inquietudine, disperazione. La canzone italiana scopre finalmente temi sociali e politici, affrontati però non in chiave ideologica ma libertaria, anarchica nel senso più puro del termine. Inevitabile pertanto che De André - suo malgrado - diventi uno dei riferimenti della contestazione giovanile, nonché l'incubo dei burocrati televisivi, che non sanno fin dove la censura può colpire storie così sottili e metaforiche, epperò altrettanto esplicite nella loro denuncia sociale.
Dal girone infernale alla Buona Novella
La fine del decennio 60 è uno dei momenti topici della carriera dell'artista ligure. Escono infatti Fabrizio De André - Volume I, che raccoglie alcuni dei suoi più fortunati singoli del primo periodo, seguito l'anno dopo dal sontuoso concept-album Tutti morimmo a stento (1968), il lavoro con cui dimostra finalmente di poter competere con i migliori cantautori internazionali del suo tempo anche sul formato 33 giri. Edito con il sottotitolo di "Cantata in si minore per solo, coro e orchestra", è un viaggio in un girone dantesco della desolazione umana, tra drogati, condannati a morte, fanciulle traviate, orchi e bambini sconvolti. Un viaggio ossessionato e ossessionante, accompagnato dalle note di un'orchestra sinfonica diretta da Giampiero Reverberi. La formula scelta, come spiegò lo stesso De André, è quella classica della cantata "in cui tutti i brani sono uniti tra loro da intermezzi sinfonici e hanno come minimo comune denominatore quello di essere nella stessa tonalità, e di trattare lo stesso argomento". Argomento rappresentato dall'emarginazione e dalla morte "psicologica, morale, mentale".
L'atmosfera dominante è dunque tetra, funerea. I brani si susseguono senza pause, scanditi dagli "Intermezzi", in un crescendo che culmina nel "Recitativo" e si scioglie nel coro finale. L'ouverture è subito un pugno nello stomaco, con il "Cantico Dei Drogati", che già dal titolo - in stridente contrasto con il "Cantico delle Creature" di San Francesco - pare voler sottolineare la degenerazione del genere umano. Quando poi l'orchestra - la Philarmonia di Roma - lascia spazio alla voce baritonale di De André, l'intento diventa subito palese: "Ho licenziato Dio/ gettato via un amore". E un groppo d'angoscia già ti stringe la gola. "Come potrò dire a mia madre che ho paura?", geme il derelitto al colmo della disperazione. E di fronte, ormai, c'è solo la notte, la voragine, la fine di tutto. Ma c'è anche un anelito d'eternità nei drogati che "giocando a palla con il proprio cervello tentano di lanciarlo oltre il confine stabilito, ai bordi dell'infinito". E' un testo meraviglioso, composto da De André insieme al poeta anarchico Riccardo Mannerini, morto suicida a Genova nel 1980.
A spezzare per un attimo la tensione provvede il "Primo intermezzo", poi però l'avvolgente abbraccio del "Cantico" ripristina subito un clima di solennità, che si stempera lentamente nella fiaba noir della "Leggenda Di Natale", ispirata a "Le Père Noel Et La Petite Fille", brano di Georges Brassens datato 1958. La semplicità dei giri d'accordi e delle rime baciate contribuisce a creare un'atmosfera magica e rarefatta, degna della "Canzone di Marinella". Ma il tema è tutt'altro che rassicurante: la protagonista è una ragazzina ingannata da un Babbo Natale che parlava d'amore ma "i cui occhi erano freddi e non erano buoni". E così "adesso che gli altri ti chiamano dea/ l'incanto è svanito da ogni tua idea/ ma ancora alla luna vorresti narrare/ la storia di un fiore appassito a Natale". Un raggelante presagio di pedofilia.
Attraverso il "Secondo Intermezzo" si giunge al centro ideale dell'architettura del disco: la "Ballata Degli Impiccati", ispirata dalla "Ballade des Pendus" di François Villon, il primo "poeta maledetto". I versi di De André - sempre scarni, ruvidi, sarcastici - non cedono mai alla retorica del sentimentalismo. Così, anche i condannati a morte di Villon si trasfigurano in creature mitiche, animate da un disperato, smisurato rancore: "Chi derise la nostra sconfitta/ e l'estrema vergogna ed il modo/ soffocato da identica stretta/ impari a conoscere il nodo. Chi la terra ci sparse sull'ossa/ e riprese tranquillo il cammino/ giunga anch'egli stravolto alla fossa/ con la nebbia del primo mattino/ La donna che celò in un sorriso/ il disagio di darci memoria/ ritrovi ogni notte sul viso/ un insulto del tempo e una scoria".
A dare quasi una nota scenografica al disco è invece la soffice "Inverno", che rinnova la tradizione delle "poesie stagionali" in voga nell'Inghilterra del Settecento. L'inverno è l'immagine della natura che si annulla nel bianco della neve e della nebbia, e nel nero degli alberi scarni, segnando la fine ciclica di tutte le cose: "Ma tu che stai, perché rimani?/ Un altro inverno tornerà domani/ cadrà altra neve a consolare i campi/ cadrà altra neve sui camposanti". Non si può non scorgere in questi versi l'ennesima metafora deandreiana della crisi della coppia: l'alternanza degli amori avviene fatalmente, in modo naturale, proprio come il cambio delle stagioni (un argomento molto caro a De André fin dai tempi di "Amore che vieni, amore che vai" e della "Canzone dell'amore perduto").
Ma se "Inverno" fa sprofondare l'ascoltatore in una struggente malinconia, dopo il successivo "Girotondo" resterà posto solo per la disperazione e per l'orrore. "La terra è tutta nostra.../ ne faremo una gran giostra/ giocheremo a farla nostra/ marcondiro'ndero marcondiro'ndà": il coro dei bambini impazziti, ebbri di guerra e di morte, è una delle trovate insieme più eccessive e agghiaccianti della storia della canzone italiana. Il "Terzo Intermezzo" sfocia nello straziante "Recitativo" finale (condanna degli egoismi, del moralismo e dell'insensibilità umani), alternato al "Corale" - con il Coro dei cantori delle basiliche romane di Pietro Carapellucci, diretto da Reverberi, a fare da contrappunto all'invettiva recitata da De André - e della "Leggenda Del Re Infelice".
Volutamente ridondante e barocco, influenzato dai primi vagiti del progressive italiano, Tutti morimmo a stento rappresenta una delle prove più limpide del talento di De André, non solo come autore, ma anche come musicista. E il suo strumento principe non può non essere ancora una volta la voce: un baritono profondo che - sul modello di Leonard Cohen - indulge sapientemente sulle tonalità più basse, accrescendo sempre pathos e drammaticità.
Subito dopo l'uscita del suo primo grande capolavoro a 33 giri, il cantautore genovese entra però in crisi sul da farsi e prende tempo, realizzando un disco di nome Volume 3, con varie reincisioni di canzoni già pubblicate con la Karim, alternate a quattro brani inediti.
Quindi, è il discografico Roberto Dané a fornirgli l’assist per un nuovo concept-album, che si concretizza con La buona novella (1970), un lavoro ispirato dalla lettura di alcuni Vangeli apocrifi, in cui l'annuncio del Salvatore si trasforma in atto di fede laico. “Avevo urgenza di salvare il Cristianesimo dal Cattolicesimo - spiegherà De André - Gesù di Nazareth secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. E i vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l'ideologia anarchica”. E seguendo proprio le caratteristiche degli Apocrifi, la narrazione della Buona Novella sottolinea l'aspetto più umano e meno spirituale assunto da alcune tradizionali figure bibliche (ad esempio, Giuseppe) e presta maggiore attenzione a figure minori della Bibbia, che qui invece diventano protagonisti (ad esempio, Tito e Dimaco, i ladroni crocefissi insieme a Gesù). Il tutto attraverso immagini evocate per via metaforica, metonimica, parabolica, che si amalgamano alla perfezione con le storie raccontate.
I brani si avvicendano come pannelli, in una sorta di opera teatrale medievale, cadenzata da delicati arpeggi di chitarra acustica o dai rintocchi delle tastiere, con il coro liturgico a fare da contrappunto insieme agli archi: ne è una dimostrazione formidabile l’ingresso sulla splendida “L’infanzia di Maria”, con una fase centrale in cui invece è il clavicembalo a salire in cattedra con una fuga impressionante.
Straordinario anche il lavoro sui testi, cesellati con lirismo raffinato e toccante, a cominciare dalla struggente “Ave Maria” dedicata alle donne (“femmine un giorno e poi madri per sempre”). Maria domina la narrazione, smarrendo via via i tratti sacrali della sua figura e rendendosi sempre più vera e umana: dalla nascita all’infanzia nel Grande Tempio, fino alla sua cacciata nel momento in cui diventa donna, al matrimonio forzato con un vecchio falegname che la lascia sola, e ancora adolescente, per quattro anni (commovente l'abbraccio tra i due nel folk desertico di "Il ritorno di Giuseppe"), fino all’apparizione dell’Angelo nella cornice onirica e fiabesca di "Il sogno di Maria" ("Lo chiameranno figlio di Dio/ Parole confuse nella mia mente/ svanite in un sogno, ma impresse nel ventre") e alla progressiva consapevolezza del destino che attende il figlio. Maria che torna al centro della scena assieme al costruttore delle croci (“Maria nella bottega del falegname”, quasi cadenzata dai colpi del martello e impreziosita da un ritornello enfatico, da musical) e alle madri dei due ladroni, nello straziante lamento di “Tre Madri” (“Tito non sei figlio di Dio, ma c’è chi muore nel dirti addio”) dove il dolore si mescola all'invidia umana per la condizione della Madonna che può trovare conforto nella resurrezione del figlio (“con troppe lacrime piangi Maria, solo l’immagine di un’agonia... lascia noi piangere un po’ più forte chi non risorgerà più dalla morte”), anche se la stessa Maria, denudata di ogni aura divina, lancia il suo grido disperato: “Come nel grembo e adesso in croce, ti chiama amore questa mia voce/ non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio”.
Si diceva di come i due ladroni acquisiscano un ruolo centrale nella narrazione "apocrifa": a uno di loro, Tito, è affidato proprio il monologo che fa da summa all'intero lavoro e resterà anche il brano preferito del cantautore genovese, assieme ad "Amico fragile". Su "Il testamento di Tito" De André usa la figura del buon ladrone, colui che era stato crocifisso alla destra di Gesù, per un testamento spirituale che è anche un’analisi critica dei comandamenti della religione cristiana. Con una conclusione chiara, che trova sollievo “nella pietà che non cede al rancore”, una specie di "undicesimo comandamento" di cui troviamo anche traccia nel Nuovo Testamento: “Che vi amiate gli uni con gli altri” (Giovanni 13,34-35). “E’ una canzone che dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha, uno di quei pezzi scritti col cuore, senza paura di apparire retorici”, spiegherà lo stesso De André.
E se il popolo, gli apostoli e “il potere vestito d’umana sembianza” guadagnano il centro della ribalta tra i languori country di “Via Della Croce”, l'atto finale e corale di “Laudate Hominem”, a mo' di chiusura del cerchio, riprende il tema iniziale con il verso-simbolo dell'opera (“Non voglio pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”).
Anche musicalmente La buona novella segna un nuovo traguardo di rilievo: rispetto alla ridondanza del predecessore, Reverberi calibra gli arrangiamenti, lavorando per sottrazione ma esaltandone al contempo la sacralità, grazie anche a un uso solenne del coro gregoriano, che a volte pare mimare la moltitudine della folla. Decisivo anche il contributo di una pattuglia di musicisti di rilievo: ci sono infatti I Quelli, il gruppo antesignano della Pfm (con Franco Mussida – chitarra, Franz Di Cioccio – batteria, Giorgio Piazza – basso, Flavio Premoli – organo, Andrea Sacchi – chitarra, Mauro Pagani – flauto, ottavino) e partecipano alle session come turnisti anche Angelo Branduardi al violino e Maurizio Fabrizio alla chitarra classica, allora entrambi sconosciuti.
Opera complessa, stratificata, ma in perfetto equilibrio tra linguaggi e registri differenti, La buona novella resterà a lungo l'opera preferita dal suo autore, che le attribuirà un ruolo centrale nella sua intera poetica.
Dopo questi due esaltanti concept, seguirà un periodo particolarmente prolifico, in cui De André produrrà quasi un album all'anno. Nelle sue canzoni dell'epoca, prevale la preferenza per toni musicali attutiti, smorzati, "in minore", che accompagnano una versificazione che riecheggia la ballata di tradizione e di lontana provenienza medievale.
L'"Antologia di Spoon River" è lo spunto per Non al denaro, non all'amore né al cielo (1971), in cui il cantautore genovese è assistito dal paroliere Giuseppe Bentivoglio (testi) e Nicola Piovani (musiche). Un altro lavoro complesso e sottile, carico di simbologia, i cui nuclei tematici sono soprattutto due: l'invidia ("Un matto", "Un giudice", "Un blasfemo", "Un malato di cuore") e la scienza ("Un medico", "Un chimico", "Un ottico"). Al primo tema è dedicato il lato A, al secondo il lato B: se l'invidia porta a comportamenti negativi (come nel caso del giudice) o alienanti, la scienza conduce le ambizioni a esiti potenzialmente pericolosi, anche quando sono spinte da buone intenzioni (come nel caso del medico). In entrambi i contesti, si prospetta però anche un possibile superamento, nei personaggi rispettivamente del malato di cuore, che supera l'invidia della salute attraverso l'amore, e del suonatore Jones, che fuga i rischi delle proprie ambizioni attraverso la musica, suonando per passione e non per mestiere.
Ancora una volta è certosina l'opera di composizione musicale, tra arrangiamenti orchestrali, con l'apporto fondamentale di Piovani, sovrapposizione di parti in formato suite (emblematica, in questo senso, "Un ottico") e l’uso di strumenti classici come clavicembali e violini. Anche in questo caso, dunque, un concept-album costruito su continui rimandi e strutture circolari (ad esempio, il finale de "Il suonatore Jones" che riprende la melodia di “Un chimico”).
A fungere da prologo è “Dormono sulla collina”, affresco corale della misera gente che riposa sulla collina del cimitero di Spoon River, pennellato in un pugno di versi e lasciato fluttuare nella introduzione strumentale, mentre in coda prendono il sopravvento le dolci note dei flauti e la figura centrale del suonatore Jones (che chiuderà anche il disco). Toccante il ritratto di “Un malato di cuore” in cui un ragazzo è costretto dalla malattia a “spiare i ragazzi giocare” e a “farsi narrare la vita dagli occhi”, fino a trovare la morte proprio quando un bacio pare riportarlo alla vita (“ed il mio cuore le restò sulle labbra”). Anche "Il matto" (Frank Drummer, internato in un manicomio nel libro) è in fondo nient'altro che un poeta che non ha trovato le parole per esprimersi, ma che possiede quella sensibilità che la gente "normale" non può raggiungere.
Il retaggio progressive impregna il valzer di “Un ottico”, apologo su uno "spacciatore di lenti" in cui la voce di De André sembra quasi disgregarsi, ripetuta e sovrapposta, come a confondere l'ascoltatore (“Vedo che salgo a rubare il sole per non aver più notti/ Perché non cada in reti di tramonti l’ho chiuso nei miei occhi”). E se in "Un chimico", è l'ardire sperimentale a causare la morte del farmacista ("Morto in un esperimento sbagliato/ proprio come gli idioti che muoion d’amore/ e qualcuno dirà che c’è un modo migliore”), il commiato de “Il suonatore Jones” - simbolo di purezza incontaminata - lascia filtrare quantomeno un barlume di speranza, con i refoli fatati dei flauti a dialogare con la voce profonda di De André (“In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità/ A me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa”, “Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati/ A cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato”).
Ma su tutto brilla quella metafora sarcastica di tutte le invidie e le bassezze umane che è "Un giudice", rivisitazione esilarante della storia di Selah Lively, un personaggio che nell’antologia di Spoon River di Masters in realtà non è un nano, ma è alto 1.57: il cantautore genovese utilizza un’iperbole funzionale alla sua composizione, raccontando la parabola di un nano oggetto di ogni maldicenza ("È una carogna di sicuro/ Perché ha il cuore troppo/ Troppo vicino al buco del culo"), ma anche corteggiato dalle donne per via della credenza secondo cui quelli come lui sarebbero "i più forniti della virtù meno apparente, fra tutte le virtù la più indecente”, e quando riesce a diventare giudice, finalmente si vendica, anche se il testo si conclude con un riferimento a Dio, unico vero giudice.
Stretto tra due dischi fondamentali come La buona novella e Storia di un impiegato, Non al denaro, non all'amore né al cielo non risiede al vertice della produzione deandreiana, ma si rivela opera gradevole e intellettualmente stimolante, spingendo alla riscoperta di una tradizione letteraria alla quale aveva fortemente contribuito anche Fernanda Pivano, traduttrice e scrittrice che ha fatto conoscere in Italia la letteratura americana e che ha tradotto proprio l'Antologia di Spoon River da cui trae ispirazione l'album.
L'amico fragile
Ma anche la politica reclama la sua parte. In Italia, sono gli anni caldi della contestazione e dello scontro sociale. De André, che si è sempre professato anarchico, fa i conti con la tentazione eversiva in
Storia di un impiegato (1973), uno dei suoi album più belli e controversi. Il disco, scritto assieme a Bentivoglio, narra la vicenda di un travet che, sull'onda dei moti del Maggio francese, si lascia contagiare dal fuoco rivoluzionario. È una cupa profezia sulla degenerazione della contestazione in terrorismo che, di lì a poco, infetterà la società italiana. Mai così crudo e realistico, De André ricorre a un linguaggio moderno che - come scrive Roberto Dané nell'introduzione - "si stacca dalla forma di racconto per approdare a immagini di tipo psicologico fino a figure oniriche di stampo
reichiano".
Tutto nasce dall'ascolto di una canzone del maggio fancese e da un verso, che è una chiamata al riarmo morale (e non solo): “Per quanto voi vi crediate assolti/ Siete lo stesso coinvolti” ("Canzone del maggio"). L'impiegato così ripensa agli "ingrati del benessere francese" che "cantavano il disordine dei sogni" e si sente avvampare dall'ansia di una rivolta ormai ineludibile: è "La bomba in testa", la splendida canzone-manifesto dell'album, drammatica e trascinante con la sua tensione palpabile, costruita su bruschi cambi di ritmo e sul crescendo inesorabile dei pensieri nella mente del protagonista. Nel conflitto lacerante tra l'ansia di cambiamento e le sirene lugubri della violenza, l’impiegato che “contava i denti ai francobolli” si troverà soggiogato dalle pulsioni eversive, al punto da abbandonare le sue paure e le sue certezze quotidiane ("Dicevo 'grazie a Dio', 'buon Natale', mi sentivo normale") per scegliere il tritolo, come poi canterà nell'ode dinamitarda de “Il bombarolo”.
E poiché il potere non ha volto, sarà proprio "Al ballo mascherato" che il tritolo dovrà colpire quelle maschere del declino occidentale: "un Cristo drogato da troppe sconfitte", "Maria ignorata da un Edipo ormai scaltro", un Dante invidioso che spia nel letto degli amanti Paolo e Francesca. La bomba è imparziale, perché non fa distinzioni, spazzando via tutto, incluso un padre che "inciampa nella sua autorità" e una madre che "dovrebbe accettare la bomba con serenità" poiché "Il martirio è il suo mestiere, la sua vanità"
Ma il sogno dell'impiegato prosegue e gli rivela anche le conseguenze del suo folle gesto: dovrà non solo pagare con il carcere, ma anche rendersi conto che altro non è stato che un burattino, un ingranaggio del potere la cui vita è stata controllata e manipolata fin dall'inizio ("Quando uccidevi, favorendo il potere/ I soci vitalizi del potere/ Ammucchiati in discesa, a difesa della loro celebrazione/ E se tu la credevi vendetta/ Il fosforo di guardia segnalava la tua urgenza di potere/ Mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge/ Quello che non protegge/ La parte del boia").
Così ne “La canzone del padre” il sogno si trasforma definitivamente in incubo, sulle note stridenti degli archi, sul cupo rimbombo del basso e su un piano zoppicante, per ammonire sulla distruzione di quella folle e criminale utopia (“assoluzione e delitto, lo stesso movente”). All'impiegato non resterà che prendere atto amaramente della sua vita in dissoluzione (“Questi i sogni che non fanno svegliare”) non prima di aver rivolto al giudice la promessa di un'atroce vendetta: una bomba vera, che non sia più solo un sogno. Ma anche quel piano fallirà miseramente e anche la donna che lo ama finirà così per prenderne le distanze, sulle pagine dei giornali: la struggente “Verranno a chiederti del nostro amore”, scandita dai rabbiosi rintocchi del piano, non è nient'altro che una lettera dal carcere, in cui il protagonista rivolge all'amata una dolente confessione sulla loro incomunicabilità ("(“Non sono riuscito a cambiarti/ Non mi hai cambiato, lo sai”), oltre a una serie di raccomandazioni sul suo futuro, augurandole di prendere in mano la sua vita (“Continuerai a farti scegliere/ O finalmente sceglierai?”), con tanto di celebre strofa finale: “Andrai a vivere con Alice che si fa il whisky distillando fiori/ o con un Casanova che ti promette di presentarti ai genitori/ o resterai più semplicemente/ dove un attimo vale un altro/ senza chiederti come mai”. Una canzone che in realtà De André ha dedicato alla prima moglie Puny, come poi rivelato dal figlio Cristiano.
La storia si chiude in carcere ed è proprio dietro le sbarre che, paradossalmente, il protagonista ritrova la serenità e la solidarietà umana tra pari che ha sempre ricercato: “E adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali/ Tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali/ Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane/ Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame” ("Nella mia ora di libertà").
Tutto l'album è giocato sul susseguirsi di canzoni dal ritmo sincopato, quasi thrilling, con un basso ossessivo e iniezioni di elettronica, accompagnati da un linguaggio carico di metafore ricorrenti e ossessive. Un disco, forse, troppo coraggioso: all'epoca, saranno in tanti a non comprenderlo, oggi è giustamente considerato un classico. Con
Storia di un impiegato De André, forse inconsapevolmente, scende nell'agone politico. L'estrema sinistra gli dà del qualunquista; la destra lo accusa di propaganda eversiva. Ma lui si ostina a ripetere: "Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l'hanno fatto diventare un termine orrendo... In realtà vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità".
Un anno dopo,
Canzoni (1974) segna il ritorno a uno stile più pacato e a un linguaggio più letterario, grazie a una manciata di cover di Dylan ("Desolation Row"), Cohen ("Suzanne" e "Giovanna d'Arco"), ma soprattutto Brassens, che fa la parte del leone con il recitato di "Morire per delle idee" e con la splendida ballata "Le Passanti", tratta a sua volta da un poesia di Antoine Pol, in un'ode commossa al rimpianto delle occasioni perdute, con quel bellissimo verso finale: “Nei momenti di solitudine, quando il rimpianto diventa abitudine, una maniera di viversi insieme, si rimpiangono le labbra assenti di tutte le belle passanti, che non siamo riusciti a trattenere”.
Nel complesso, è una
summa dei riferimenti artistici del cantautore ligure che tuttavia aggiunge un tocco decisamente personale alle interpretazioni, trasfigurandole e appropriandosene in modo originale.
Il successivo
Volume VIII (1975), nato dall'incontro con
Francesco De Gregori, segna un'altra tappa nell'evoluzione della canzone italiana degli anni Settanta, nel segno di una "poesia cantata", impreziosita da un linguaggio sempre più ricercato. De Gregori porta il suo tipico stile da fiaba metropolitana, De André accentua, esasperandolo, l'uso di figure retoriche, fantasie e nonsense. Sono canzoni costruite quasi solo sui versi, in cui la musica non ha quasi altro senso se non quello di suggerire il "tono" da seguire.
Uno stile che tocca il suo vertice nella struggente "Amico fragile", metafora di chi si oppone per coltivare i suoi sogni solitari. Costruita su una chitarra folk spoglia alla Cohen, su quattro accordi a giro e un ritornello che colpisce al cuore, è la canzone che De André ha sempre considerato il suo vero identikit: “È la più importante che abbia mai scritto, sicuramente quella che più mi appartiene - spiegherà - È un pezzo della mia vita: ho raccontato un artista che sa di essere utile agli altri, eppure fallisce il suo compito quando la gente non si rende più conto di avere bisogno degli artisti”. Nel testo, offuscato dall’alcol ("evaporato in una nuvola rossa") e al chiuso di una stanza ("in una delle molte feritoie della notte"), Fabrizio racconta con stile caustico di un party borghese tossico a cui partecipò, con famiglie che lasciavano i propri figli in balia del destino, persi nella droga ("Lo sa che io ho perduto due figli/ Signora lei è una donna piuttosto distratta") e personaggi aridi e insensibili, ai cui occhi un artista era soltanto un giullare ("È bello che dove finiscano le dita debba in qualche modo incominciare una chitarra"). Un contesto dal quale prende le distanze, rivendicando il suo anelito di libertà ("E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci/ Mi sentivo meno stanco di voi... Potevo chiedervi come si chiama il vostro cane/ Il mio è un po' di tempo che si chiama Libero... Potevo attraversare litri e litri di corallo/ Per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci"). Altra prodezza del disco è la non meno icastica "Giugno '73", epigrafe del matrimonio borghese e delle sue convenzioni, ma che in realtà nasconde una vicenda autobiografica: è rivolta infatti a un personaggio reale, una certa Roberta, con cui Fabrizio aveva avuto una relazione intensa e importante fra la prima e la seconda moglie, con quel suo celebre verso finale toccante “Io mi dico è stato meglio lasciarci/ Che non esserci mai incontrati”.
Da Rimini all'Hotel SupramonteLa musica di De André si fa più ricca e sostenuta con l'approdo nella
Rimini (1978) felliniana dei "Vitelloni". L'album, composto insieme a
Massimo Bubola, tratteggia un affresco malinconico della riviera romagnola, intriso di salsedine e di nostalgia. Ne il manifesto proprio la
title track, che apre il sipario su una galleria di personaggi disillusi e traditi dalla vita, come Teresa, che "ha gli occhi secchi e "guarda verso il mare, per lei figlia di pirati penso che sia normale", ma lo sguardo, oltre gli ombrelloni, arriva a scoperchiare tutte le ferite di un'esistenza bruciata ("E un errore ho commesso - dice - Un errore di saggezza/ Abortire il figlio del bagnino/ E poi guardarlo con dolcezza").
A dispetto dell'andatura incalzante, è ancor più tragica la filastrocca di "Andrea" (uno dei capolavori assoluti di Bubola), parabola amara di un amore omosessuale "ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia", che spinge il protagonista a suicidarsi gettandosi in un pozzo dopo aver appreso la notizia della morte del suo amato "riccioli neri" ("signore il pozzo è profondo/ più fondo del fondo degli occhi della notte del pianto... mi basta che sia più profondo di me"). Dolente e magica è anche "Sally", che racconta la fine dell'infanzia e dell'innocenza, passando da paesaggi da fiaba con tamburelli e pesciolini d'oro a realtà di eroina e coltelli in mezzo ai seni fino a esaurire le sue speranze nei bassifondi presso il re dei topi.
A risollevare gli animi è la vivace "Volta la carta", sorta di fiaba folk d'impronta celtica costruita su una raffica di immagini che ruotano attorno alla protagonista Angiolina che “alle sei di mattina s'intreccia i capelli con foglie d'ortica/ ha una collana di ossi di pesca/ la gira tre volte intorno alle dita”, mentre "Coda di lupo" torna a gettare uno sguardo cupo sull'attualità degli anni di piombo, tra contestazione e indiani metropolitani.
C'è spazio anche per un riadattamento della
dylaniana "Romance in Durango" ("Avventura a Durango", per la quale il cantautore americano si complimentò di persona con De André), per un divertente scioglilingua in sardo ("Zirichiltaggia") e per l'onirica "Parlando del naufragio della London Valour" in cui si rincorrono personaggi e riflessioni, puntellati da una chitarra elettrica. A chiudere, sempre nel segno della malinconia, arriva "Folaghe", che resterà l'unico pezzo strumentale della carriera di De André.
Fa da suggello all'uscita dell'album un memorabile tour con la
Pfm, testimoniato da due album,
Fabrizio De André in concerto - Arrangiamenti PFM (1979) e
Fabrizio De André in concerto - Arrangiamenti PFM Vol. 2º (1980), nei quali i classici del cantautore genovese, magistralmente riarrangiati in chiave rock, trovano nuova linfa. "L'idea di un tour con un gruppo rock sulle prime mi spaventò, ma il rischio ha sempre il suo fascino: forse in una vita precedente ero un pirata, e così una parte di me mi diceva di accettare - ha spiegato il cantautore ligure - In più ero tormentato da interrogativi sul mio ruolo, sul mio lavoro, sull'assenza di nuove motivazioni. E la Pfm mi risolse il problema, dandomi una formidabile spinta verso il futuro. La tournée con loro è stata un'esperienza irripetibile perché si trattava di un gruppo affiatato con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l'hanno messo al mio servizio".
Il progetto di arrangiare le canzoni spoglie di De André in chiave rock colpisce molto la critica e il pubblico: ci sarà anche chi storcerà il naso, accusandolo di aver ceduto a un compromesso commerciale suonando con un gruppo rock, in un surreale processo fuori tempo massimo sulla falsariga di quello che dieci anni prima aveva dovuto subire Dylan dal tribunale dei puristi del folk, allorché iniziò a utilizzare strumenti elettrici.
In realtà, il sodalizio tra De André e la band risaliva già agli anni 60, quando Mussida, Di Cioccio e compagni, che si facevano chiamare ancora Quelli, avevano suonato nell'album
La buona novella. E il rapporto non finirà certo qui, visto che il violinista e polistrumentista Mauro Pagani, tra i membri originari della Pfm, diventerà anni dopo uno dei collaboratori più stretti di De André (a partire dalla realizzazione di
Crêuza de mä, 1984), mentre gli stessi Mussida e Premoli prenderanno parte, in occasioni diverse, ai successivi lavori di studio del cantautore.
Due donne, in particolare, hanno segnato la vita di Fabrizio De André: Enrica Rignon detta "Puny", la prima moglie, che aveva sposato nel 1962, e la cantante Dori Ghezzi, che diviene la sua compagna dal 1975 in poi. E' con lei che decide di ritirarsi in quella fattoria dell'Agnata in Gallura (Sardegna), che gli ricorda "la Liguria degli anni 40, in cui c'erano più alberi che case, più animali che uomini". Ed è sempre con Dori Ghezzi che vive l'esperienza drammatica del sequestro.
La sera del 27 agosto 1979, la coppia viene rapita dall'anonima sequestri sarda e tenuta prigioniera alle pendici del Monte Lerno presso Pattada, per essere liberata dopo quattro mesi (Dori fu liberata il 21 dicembre alle 23, Fabrizio il 22 alle 2 di notte, tre ore dopo), dietro il versamento del riscatto, di circa 550 milioni di lire, in buona parte pagato dal padre Giuseppe. Prima, durante e dopo il sequestro, alcuni giornali fanno uscire illazioni e falsità, talune che legano il rapimento perfino alle Brigate Rosse e proprio l'anno del sequestro termina una sorveglianza dei servizi segreti ai danni di De André, considerato un "eversore".
All'indomani della liberazione, De André fornirà un resoconto pacato dell'esperienza, usando parole di pietà per i suoi carcerieri: "Ci consentivano, a volte, di rimanere a lungo slegati e senza bende... Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai".
Un'esperienza drammatica che segna parte dell'album senza titolo che sarà poi ribattezzato
L'Indiano (1981), composto ancora insieme a Bubola e griffato in copertina dal ritratto di un nativo americano a cavallo (opera olio su tela del 1909 dell’artista statunitense Remington). Neanche di fronte ai suoi rapitori De André perde il "vizio" di rovesciare la morale comune su colpevoli e giudici. I malviventi sardi, così, diventano "marinai di foresta" o indiani Sioux, criminali e oppressi al contempo. "Sono stato rapito da una banda di Cherokee - raccontava - che, prima ancora di volere i soldi, voleva dimostrare il coraggio di rapire una persona". E la sede del sequestro diventa il surreale "Hotel Supramonte", nome in codice usato dai banditi (anche se in effetti non si trovavano sul Supramonte), descritti poi quasi romanticamente nella irresistibile filastrocca di "Franziska".
L'apertura blues-rock di "Quello che non ho", scandita dallo
shuffle di una chitarra elettrica e accompagnata dall'armonica a bocca, sottolinea le differenze tra i popoli autoctoni e quelli che rappresentano gli "oppressori", rappresentate dalle cose che gli oppressi, a differenza degli oppressori, non possiedono. Un brano potente, incalzante, ai confini quasi dell'hard rock, con una coda avvolgente in cui irrompono anche le tastiere di Mark Harris.
Capolavoro del disco - e suggello a questo ideale connubio tra banditi e indiani - è la struggente "Fiume Sand Creek", che evoca il massacro di Sand Creek del 1864 che costò la vita a oltre 150 persone delle tribù Cheyenne, il cui accampamento fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington (“un generale di vent'anni, occhi turchini e giacca uguale, un generale di vent'anni, figlio d'un temporale”). Una strage di cui 136 anni dopo, nel 2000, il congresso americano si scuserà facendo apporre sul luogo dell’eccidio una lapide per commemorare le vittime. Una raffigurazione commovente di una strage atroce e insensata ("Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura/ Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura... Quando l'albero della neve fiorì di stelle rosse/ Ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek").
Genova per noiL'inesauribile vena creativa di De André si arricchisce tre anni dopo di in un progetto tanto ambizioso quanto originale:
Creuza De Mä (1984) nato dalla collaborazione con Mauro Pagani e scritto integralmente in genovese, "l'idioma neolatino più ricco di fonemi arabi". È l'inno a quella Genova che per De André rappresentava un piccolo continente a sé, con "il suo sapore di mare, il profumo della sua cucina, ma anche il puzzo del porto e del pesce marcio", quella Genova che aveva "la faccia di tutti gli esclusi conosciuti nella città vecchia, le graziose di via del Campo, i fiori che sbocciano dal letame". De André, infatti, pur essendo nato da una famiglia borghese, ha sempre prediletto "i quartieri dove il sole del buon Dio/ non dà i suoi raggi/ le calate dei vecchi moli/ l'aria spessa carica di sale/ gonfia di odori", descritti nella "Città vecchia".
Creuza De Mä è un viaggio appassionato nella musica mediterranea, dove gli strumenti della tradizione nordafricana, greca, occitana (dalla gaida macedone alla chitarra andalusa, dallo shannaj turco al liuto arabo) convivono con quelli elettrici in un universo poetico di rara intensità. Genova si carica di molteplici valenze simboliche, diventa ogni luogo, ogni casa e ogni meta: un vero e proprio "ombelico del mondo". Le storie particolari che vi si svolgono assumono valenza universale: le prostitute di "A Dumenega" passeggiano per le vie di ogni città, e dietro ogni angolo di ogni paese c'è una "pittima".
La
title track si apre sui rumori del caotico mercato di Genova, presto affiancati da un assolo di gaida, sorta di cornamusa in uso fra i pastori della Tracia. Appena il canto si dispiega sulla semplice melodia, ogni residuo dubbio dell'ascoltatore riguardo alle scelte linguistiche di De André è fugato. Nel "suo" genovese, la voce di De André diventa ancor più ricca, più espressiva di quanto non lo sia mai stata, e gli ostacoli che il dialetto pone a un'immediata comprensione sono in realtà fonte di infinite suggestioni sonore. "Creuza De Mä" parla del ritorno a casa dei marinai dopo la pesca, ed è carica della rassegnazione di chi è costretto — come i marinai, come Ulisse — a un viaggio senza fine, un viaggio-condanna in cui le soste sono fonte di frustrazione e occasioni per ubriacarsi ("E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli/ emigranti della risata con i chiodi negli occhi/ finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere/ fratello dei garofani e delle ragazze/ padrone della corda marcia d'acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare").
"Jamin-a" è forse la più bella ode a una prostituta che sia mai stata scritta: un ideale proseguimento delle storie narrate in "Via del Campo" e "Bocca di rosa", ma qui il racconto perde ogni valenza polemica o iconografica. Grazie all'adozione del genovese, De André non teme censure, e affronta il brano con esplicita, cruda, irriverente, irresistibile sensualità: il corpo di Jamin-a è protagonista, con la sua "lengua nfeugà" — lingua infuocata — e il "nodo delle sue gambe", incatena l'ascoltatore in un vortice di suggestione erotica e sonora. La struttura armonica del brano è affidata all'oud e al bouzouki, strumenti a corda di tradizione araba e greca.
Su "Sidun" il canto funebre della madre palestinese è al tempo stesso uno dei vertici dell'espressione poetica di De André e uno dei massimi risultati musicali della carriera del cantautore genovese. "Sinan Capudan Pascià" è la storia (vera) di un marinaio genovese che venne catturato dai turchi e divento pascià per aver salvato la nave del sultano dal naufragio. Il ritornello, adattamento di un canto di marinai diffuso in area tirrenica, è un piccolo nonsense con ambizioni da metafisica simbolista.
Le due tracce successive riportano la narrazione e l'atmosfera nell'antica Genova, e danno piena voce a figure di emarginati. La "pittima" ovvero l'esattore di debiti privati per conto terzi, lamenta la sua condizione precaria e pericolosa, rivendicando con orgoglio la "rispettabilità" del suo mestiere meschino. In "A Dumenega" le prostitute genovesi, relegate nel ghetto per tutta la settimana, in libera uscita la domenica, passeggiano per la città come gran dame, schernite dalla folla ipocrita degli abituali frequentatori dei bordelli cittadini. È bene anche ricordare che anticamente i proventi dei bordelli erano incamerati dal comune di Genova, che con essi ricopriva quasi interamente le spese di manutenzione del porto.
L'ultima traccia, "Da me riva", è una "ode del distacco", il pensiero malinconico del marinaio che riparte, ancora una volta, e saluta la propria compagna, rimasta a riva, ormai solo un profilo lontano, controluce.
Creuza De Mä è un'opera dalla ricchezza sonora e dialettica sconvolgente, di fatto una pietra angolare dell'allora nascente world music, con quattro anni di anticipo su "
Passion" di
Peter Gabriel e due anni in anticipo su "
Graceland" di
Paul Simon.
Intanto, De André collabora con l'altro "guru" della scena genovese,
Ivano Fossati, in vari brani (tra cui "Questi posti davanti al mare") e sposa Dori Ghezzi nel 1989. Un anno dopo esce
Le nuvole (1990), in cui si consolida il sodalizio con Mauro Pagani, co-produttore dell’intero disco e autore delle musiche, mentre Fossati firma con De André i due pezzi in genovese “Mégu megún” e “Â çímma“.
Tra le tracce più suggestive svetta “La domenica delle salme”, che si aggiudicherà la Targa Tenco come canzone dell’anno: una lunga e sferzante denuncia sociale contro la perdita di ideali, nata nel segno della disillusione in seguito alla fine del comunismo e al dilagare di un vacuo edonismo (“la bottiglia d’orzata dove galleggia Milano” rovescia l'espressione “Milano da bere”).
Ma a trascinare il disco è soprattutto la beffarda satira in napoletano di "Don Raffae'", in cui il protagonista, boss detenuto nella cella-reggia di Poggioreale, è assistito da un secondino-maggiordomo che è al servizio della mala non per disonestà, ma per la latitanza dello Stato, che si è inghiottito i suoi "quaranta concorsi, seicento domande e novanta ricorsi". L'allusione è a Raffaele Cutolo, che a sorpresa, dal carcere, invierà sentiti complimenti affermando: “Non capisco come abbia fatto a cogliere la mia personalità e la mia situazione in carcere senza avermi mai incontrato”. Anche se naturalmente l'intenzione di De André e Pagani era tutt'altra: denunciare le connivenze in carcere e la sottomissione alla criminalità anche di apparati dello stato. Un rapporto malato che porta Don Raffaè ad approfittare del brigadiere Pasquale Cafiero per manipolarlo.
In bilico tra poesia e canzone popolare, la
title track iniziale, monologo recitato da Lalla Pisano e Maria Mereu, e la settecentesca “Ottocento”, sorta di "opera buffa" dove dietro il canto falsamente colto, che fa il verso alla lirica, e a luccicanti sfumature rococò, si cela un'invettiva contro la frivolezza e l'egoismo imperanti.
Il senso complessivo dell'opera è stato svelato dallo stesso De André in un'intervista: "Le Nuvole, per l’aristocratico Aristofane, erano quei cattivi consiglieri, secondo lui, che insegnavano ai giovani a contestare. Le mie Nuvole sono invece da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica; sono tutti coloro che hanno terrore del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere. Nella seconda parte dell’album, si muove il popolo, che quelle Nuvole subisce senza dare peraltro nessun evidente segno di protesta".
Le nuvole è in definitiva un album di passaggio, proprio come suggerisce il titolo, ma getta le fondamenta del successivo capolavoro del connubio De André-Fossati.
L'ultimo viaggioSegue un periodo di silenzio di quattro anni, finché nel 1996 Fabrizio De André torna con
Anime salve (1996). Quello che è destinato a rimanere come il suo testamento musicale è anche un disco splendido, un viaggio pieno di suggestioni, sapori, incontri. Da Bahia a Genova, passando per la Sardegna.
Anime salve non è solo il suo disco più sinceramente multietnico, ma anche il suo più corale. Nel rapporto con i testi, con cui la musica vive in meravigliosa e complementare armonia, quanto nello stile e negli arrangiamenti talvolta saturi, e ancora (e soprattutto) nelle partecipazioni e collaborazioni. La chitarra di De André è circondata da un mare di strumenti antichi e nuovi, dalle disparate origini geografiche, nel segno di un sincretismo culturale che si riflette anche nella scelta delle lingue, con brani cantati in italiano, romanes, brasiliano, genovese. E la sua voce profonda, seppur offuscata dal fumo e dagli anni, riesce sempre a incantare.
Sono così in tanti ad accompagnarlo nel suo viaggio: Piero Milesi in cabina di produzione, il figlio
Cristiano eletto ad autentico braccio destro, Ellade Bandini alla batteria, l’orchestra “Il Quartettone”, la moglie Dori Ghezzi e la figlia Luvi alle voci e soprattutto il concittadino
Ivano Fossati, co-autore dei brani. E poi il grande percussionista brasiliano Naco, il mito del cymbalon Sàndor Kuti, il fisarmonicista russo Vladimir Denissénkov, l'inconfondibile arpa di
Cecilia Chailly, l'altrettanto fido Mario Arcari e una lunga serie di strumentisti di livello.
È un percorso affollato di spiriti solitari, che abitano angoli appartati della Terra. "L'isolamento - diceva De André - ti consente di non stare nel mucchio. È la sola condizione idonea a non essere contaminati da passioni di parte, uno stato di tranquillità dell'animo che permette di abbandonarsi all'assoluto". Un obiettivo annunciato fin dal titolo dell'album, che mantiene l'etimo tanto di "animo" quanto di "salvo", ovvero "spirito solitario".
Interamente acustico, l'album mescola sapori etnici, jazz, folk. Il salmo universale a due voci della
title track è il paradigma della collaborazione con Fossati, della sintonia cercata e trovata con fatica dai due, delle differenze vocali e stilistiche che qui arricchiscono di elementi il duetto anziché minarne la coralità. Diversità che si ripresenta nel contrasto vocale come negli “spiriti solitari” del testo, liberi per scelta dalle convenzioni che uniformano gli uomini costringendoli a tenere nascosta la loro personalità e di conseguenza, il loro meglio. Un processo totalmente assente nella spontaneità del mondo animale, omaggiato nella danza assorta cantata a mezza voce di “Le acciughe fanno il pallone”, la cui dinamica impalcatura nasconde un impeto strumentale che si esprime nel finale, mentre il pescatore insegue l'impossibile "sogno" di "pescare il pesce d'oro".
"Mi sono visto di spalle che partivo", recita un verso di "Anime salve": è un rifiuto dell'identità anagrafica, dell'uomo costruito dalla "legge del branco", che impone a ciascuno dove e come stare al mondo. Un rifiuto simile a quello di "Princesa" (dall'omonimo racconto-intervista di Maurizio Iannelli), che tenta di "correggere la fortuna" per finire "tra ingorghi di desideri" maschili. Una straordinaria invenzione letteraria e musicale costruita su ritmi bahiani (una fusione di jazz, pop e bossanova ) e colori tropicali, mescolando armonici e sovratoni sudamericani con un
refrain tintinnate in stile “Creuza de mä”, siparietti swing e danze folk. Un insieme che riproduce il tema del viaggio e lo mette in relazione con quello, tanto caro a De André, della prostituzione, in quello che è l'esempio più emblematico di aggiornamento della poetica del cantautore alla sua migrazione stilistica e culturale (dalla prostituta al transessuale). Il protagonista è infatti, Fernandinho divenuto Fernanda, incompreso nel contesto familiare contadino brasiliano e costretto a vendere, per poterlo mantenere economicamente, quel corpo femminile tanto desiderato. Di nuovo un diverso, di nuovo un'emarginata costretta a pagare per poter ottenere la libertà.
Altra solitudine volontaria e libera è quella dei Rom, descritti tramite la tribù serbo-montenegrina dei "Khorakhanè", raminga per il mondo "tra le fiamme dei fiori a ridere e a bere". Il tutto iniziando con un’aurora elettronica su cui si stende un recitativo d’introduzione, e finendo in un’aria orchestrale di donizettiana intensità in lingua rom. Un passaggio che raggiungerà il suo apice emotivo dal vivo, trascinato dall'ugola cristallina di Luvi, pronta a sostituirsi a quella più asciutta di Dori Ghezzi sul disco. Nel mezzo De André appoggia con la massima delicatezza versi colossali come “Saper leggere il libro del mondo/ con parole cangianti e nessuna scrittura” o “Questo filo di pane tra miseria e fortuna”.
Non scampa a un destino di solitudine neanche la tenerissima "Dolcenera", che accoppia un cantico brasiliano con una delle migliori tarante di Fabrizio, per incastonare il canto spiegato della fisarmonica e soprattutto una delle sue magistrali narrazioni per parallelismi, allusioni e metafore. Qui a primeggiare è l'amore, l'amore di un uomo in trepidante attesa di una donna, al punto tale da immaginarsi il suo arrivo mentre questa è invece sommersa dall'alluvione di Genova del '70 e dall'esondazione del fiume Nera.
E quando "la corsa del tempo spariglia destini e fortune", nasce l'invidia e la faida di "Disamistade", che non ha pietà di nessuno, innocenti e assassini: una ballata sardonica in cui risalta il miglior De André in rima, forte però anche di versi liberi che ne accentuano il dolore (“uno scoppio di sangue, un’assenza apparecchiata per cena”), assieme al liturgico accompagnamento elettronico di Milesi e ai sospiri orchestrali. Un nuovo omaggio alla Sardegna musicale e una denuncia delle faide tipiche della cultura isolana di qualche decennio fa. Una delle due grandi eccezioni all'omogeneità tematica del disco assieme al duetto in genovese di “Â cumba”, a tempo di scintillante saltarello, sostenuto dal coro femminile e unica parentesi di positività in un album di canzoni lunghe e sofferte.
Il disco si chiude con la solenne invocazione di "Smisurata Preghiera" (ispirata dal "Gabbiere" di Alvaro Mutis), che è quasi il testamento spirituale dell'intera opera di De André. È la testimonianza di chi ha vissuto sempre uno splendido isolamento, presupposto necessario per "consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità". Tre minuti d’invettive e indignazioni spirituali contrappuntate dai commossi accordi jazz delle tastiere e dalle sincopi solenni da cerimonia della batteria e 4 minuti di trasfigurazione strumentale: dapprima un’invocazione in crescendo di fiati mediterranei, quindi una divagazione sinfonica da cui esala la morale dell’opera, tutta la sconfinata mestizia delle anime del titolo. È la furente richiesta di riscatto da parte dei personaggi descritti in tutto il disco, ovvero coloro che hanno scelto di pagare la solitudine e l'emarginazione come prezzo per la loro libertà. È la conclusione del viaggio, lo sfogo, la sintesi del concetto di libertà, frutto del lungo contrasto tra la tesi di partenza (la voglia di libertà, di poter abbattere i confini e confrontarsi con il mondo esterno a sé stessi) e le numerose antitesi incontrate nel corso del viaggio (i prezzi da pagare per ottenere la libertà stessa).
Nell'immaginario collettivo è l'epitaffio nell'epitaffio, il testamento
pre-mortem di De André, per taluni addirittura il sunto dell'intera opera lirica e musicale dell'artista. Un ruolo ricoperto, aumentando il raggio di veduta, dall'intero
Anime salve, uno dei vertici assoluti, per varietà stilistica e profondità lirica, della musica italiana, nonché l'ultimo regalo di uno dei suoi più grandi esponenti.
De André è dunque il primo migrante, pronto a prendere in prestito elementi musicali e linguistici dalle tradizioni più disparate, e dietro di lui sono migranti i protagonisti delle storie raccontate nei brani. Storie di emarginazione, di diversità, di solitudine e di libertà, fra le più scomode e sentite della sua carriera, rese per mezzo di testi mai così diretti, espliciti, per certi versi volgari. La focalizzazione sul “diverso”, l'eterno contrasto tutto
baudelaireiano tra l'orrore del reale e la contraddittoria meraviglia dell'umano, tra un marcato rifiuto delle (presunte) virtù convenzionale e una giustificazione quasi ossessiva dei vizi (pretestuosamente tali) è forse il vero unico
trait d'union, tutto lirico, tra il primo De André e l'ultimo.
Nel tour successivo, che saerà immortalato nel live postumo
Fabrizio De André in concerto (1999), il suggello dal vivo a un disco già definito un
instant classic e l'abbraccio con i figli, Cristiano e Luvi: con quest'ultima, si rinnoverà sul palco il magico duetto di "Geordie", l'antica ballata britannica nata intorno al XVI secolo che Fabrizio riadattò nel 1966, interpretandola in duo con Maureen Rix, con un testo in lingua italiana che riprendeva la versione di Claude François del 1965.
"Ho un'estrazione borghese e mi sono adagiato un po' su questo materasso di piume. Avrei potuto dare molto di più se fossi nato alla Foce, da un pescivendolo", diceva spesso De André scherzando sulla sua proverbiale pigrizia. Una pigrizia che faceva disperare i discografici: quasi impossibile strappargli un'intervista o un'apparizione televisiva, molto difficile vederlo in tour. Eppure uno scherzo del destino ha voluto che proprio la sua ultima estate fosse la più densa di appuntamenti. Una sfilza di concerti in tutt'Italia che doveva rilanciarlo, dopo la firma del "contratto-anti-pigrizia", come aveva ribattezzato l'accordo fino al 2002 con la Ricordi. "Adesso - aveva annunciato - dovrò decidermi a fare il disco di cover dedicato ai cantautori brasiliani che ho in mente da tempo. Con i miei ritmi non ce la farei a registrarne uno tutto mio". Ma purtroppo il destino aveva previsto un finale infausto.
Fabrizio De André è morto l'11 gennaio 1999, all'Istituto dei Tumori di Milano. Lascia alla cultura italiana versi e suoni da ricordare; alle cronache musicali, una folla innumerevole di imitatori.
La sua carriera quasi quarantennale è stata degnamente ricordata nel triplo box
In direzione ostinata e contraria (2005): cinquantaquattro brani, tutti "demasterizzati", per riassaporare l'aroma originario, imperfezioni incluse. Una maratona emozionante attraverso i versi e i suoni di quello che probabilmente resterà il più grande cantautore italiano di sempre.
I suoi estimatori continueranno sempre a dedicargli i versi che Fabrizio aveva scritto per l'amico Luigi Tenco la notte in cui s'era ammazzato: "Ascolta la sua voce/ che ormai canta nel vento/ Dio di misericordia, vedrai, sarai contento". È la "Preghiera in gennaio" di tutti quelli che lo hanno amato.
Contributi di Giovanni Agnes ("Creuza De Mä"), Matteo Meda e Michele Saran ("Anime salve")