Enzo Jannacci non è persona da interviste. Lo ammette lui stesso: "Io non ho interlocutori". Che sia tempo perso dire "cose incomprensibili a persone che non le intendono" lo lascia intuire con un'espressione che scoraggia gl'importuni decisi a penetrare il mistero che fa lievitare in strati rarefatti l'autore delle più ineffabili cantafavole italiane. "Non si scusi del disturbo, sono trent'anni che rilascio interviste", invita senza entusiasmo. Ma in realtà non rilascia niente perché il perseguitato riesce a dissolvere la concretezza di qualsiasi domanda con risposte-nuvole che neanche su nastro lasciano tracce. E che non gli piaccia essere scrutato in volto, un volto ancora bellissimo, ("bello no, ero solo fotogenico), lo dimostra il fatto che si accomoda in modo da offrire solo un profilo".
È fatto così l'Enzo, un autore diverso da tutti, che del cabaret e delle canzoni ha fatto un'arte intrisa di burbera tenerezza e di trasparente, surreale poesia. È scontroso, ma senza misantropia. "Sono attento agli altri, mi sento disponibile e vicino alle emozioni delle persone". Protesta, ma ama tutti, anche i politici, che menziona uno ad uno senza distinzioni di casato partitico ("Però non li giustifico"). Quello che lo trascina al pieno disaccordo é l'andazzo dei tempi e la faccenda che più smuove la sua indignazione, troppo spesso chiamata a mobilitarsi, è l'egoismo, "la cosa più comoda dove si stanno buttando tutti gli italiani che rifiutano la regola delle tasse, si disinteressano degli altri e muniti di tutto il corredo maniacale che sappiamo, cercano un capo che garantisca questa tranquillità". È per dare una scossa all'indifferenza che qua e là zampilla la sua vena sarcastica? "Il sarcasmo è cattiveria, preferisco tirare una pedata in faccia piuttosto che ricorrere a questa espressione che ferisce e basta". Meglio dunque affinare le allusioni e i paradossi del nonsense, che si intrecciano nelle piccole storie piene di vita e di colore e le trasfigurano con quel tocco che "incasina la mentalità". Il rapporto fra lei e le incursioni nel surreale è un'unione felice. "Aspettando Godot" di Beckett, recitato con Giorgio Gaber dieci anni fa, aveva trovato in lei un interprete che si aggira ancora nella memoria di chi ama il teatro. Però non è facile capire cosa avviene dentro le sue canzoni. Esiste un nonsense puro, fine a se stesso? Jannacci sostiene di no, "quelle cose" che sembrano buttate a vanvera hanno un loro significato, impalpabile come le emozioni.
Scorrendo la sua scheda biografica si apprende che lei ha schivato mode, convenzioni, commercializzazioni e che ha opposto qualche impertinenza all'onnipotenza della Rai, di "Canzonissima", di Sanremo. Oggi può dire di avere perduto delle occasioni? "Non ho nulla da rimpiangere. Sono stato coerente". Eppure qualche contraddizione si evidenzia: il Conservatorio, sbocco naturale di un enfant prodige insieme alle puntate notturne nei locali della musica popolare; il cabaret e l'ospedale; i successi e gli allontanamenti improvvisi dalle ribalte. Ma in fondo un sovrano del nonsense non è esonerato dalla fedeltà alla coerenza? La domanda quasi lo fa inalberare. "Non c'è nessuna contraddizione nelle cose che dico e nel mio modo di condurre la vita, sia che faccia il medico, sia che vada in giro a elemosinare per i non vedenti o che canti le emozioni ancora adesso che ho i capelli grigi. Questa conformità al mio modo di sentire è un motivo in più per non avere rimpianti".
Nel racconto della sua vita sono citati Toni Dallara al tempo di Rocky Mountains, Giorgio Gaber all'epoca di Corsari e uno spettacolo del 1962, Milanin Milanon, diretto da Filippo Crivelli, con Tino Carraro e Milly, in cui lei, studente di ventidue anni canta le canzoni popolari meneghine. Che cosa illumina il primo lampo di ricordo di quello spettacolo che l'ha lanciato nel cabaret milanese? "Rivedo Milly sempre intatta, un fenomeno di sopravvivenza, e Carraro con il suo sopracciglio sollevato. Ma è la genesi di vicende molto gravi che in quel periodo è rimasta impressa".
Dario Fo, Umberto Eco, Beppe Viola, Paolo Rossi, Cochi e Renato sono le personalità e i personaggi che in un modo o nell'altro sono stati a contatto di Enzo Jannacci, autore di bozzetti in cui musica e comicità si fondono in un clima impalpabile e punteggiato di ironia, dove lui si muove a meraviglia. Tutti sanno che questo musicista colto e bizzarro, acuto e impaziente ha i suoi aculei, ma è anche noto a tutti che tiene in serbo generosità e calore e che li esprime in maniera imprevedibile; ad esempio quando offre le sue canzoni per aiutare chi non la fa da solo o crea una composizione per il team di Luna Rossa, o quando avvolge di uno sguardo molto speciale i componenti della sua band, dove il figlio Paolo dà prova di un bel talento alle tastiere, e soprattutto nei momenti in cui investe di folate di simpatia il pubblico, destinatario dei sorrisi non dispensati facilmente in altre occasioni.
Lo spettacolo, il primo di Enzo Jannacci dopo un'operazione alla spina dorsale - subíta, non inflitta -, sta per iniziare. L'intervista raccolta nei camerini del Folk Club di Torino, come la canzone che al cantante piacerebbe cantare, non è precisamente "intelligente, non segue un filo logico, portante e non è piena bei ragionamenti". Ma il vero scambio di domande e risposte avviene durante il concerto, che segna l'avvio di una tournée estiva. Sotto le volte dell'antico sotterraneo si realizza il contatto e l'intesa fra il pubblico e l'ineffabile cantore di minuscole cronache sorridenti e malinconiche. Illuminato dal ben noto sorriso, il fluido scorre e trasporta con la denuncia la solidarietà di Jannacci per i semplici, i deboli, gli indifesi, gli sfigati. E anche l'affetto per il suo pubblico, non solo composto di un'audience d'epoca. Fra intermezzi discorsivi, spavaldi e sconnessi al punto giusto, e composizioni jazzistiche eseguite con perizia, zampillano le canzoni: quelle di un tempo che non le ha portate via, come "La vita l'è bela" e "El purtava i scarp del tennis", le composizioni imprestate ("Via del Campo" di Fabrizio De André e "Sotto le stelle del jazz" di Paolo Conte) e le nuove arrivate, come quel piccolo capolavoro di spigliata e intelligente insensatezza che è "Nebbia in Val Padana". Le canzoni, che ovviamente per successione e titoli non corrispondono alla scaletta, si ascoltano con il piacere di sempre per la rinnovata intensità espressiva di una voce appena più roca e profonda ("la volontà è tanta, ma l'età è quella che è"), ma anche per la qualità dell'accompagnamento musicale, che quando non sovrasta il testo raggiunge punte eccellenti. I quattro giovanotti, "una cosa cumulativa", sono Marco Brioschi, tromba carezzevole e squillante, Paolo Jannacci, degno del padre-maestro, Roberto Baldan alla batteria e Marco Ricci, "il poeta del basso".
(Originariamente pubblicata sul settimanale "Avvenimenti")