Enzo Jannacci

Quelli che...

1975 (Ultima Spiaggia)
songwriter, cabaret

Dottore, musicista, autore, personaggio televisivo, attore, Enzo Jannacci ha sempre trovato nei valori della resistenza e dell'antifascismo la chiosa decisiva delle sue esperienze artistiche, maturando un fiuto per il dissacratorio che troverà pochi eguali all'interno del panorama della musica italiana. Dopo aver conseguito il diploma al Conservatorio Giuseppe Verdi in armonia, in adolescenza scopre la musica jazz, appassionandosi alle gesta di Errol Garner, Thelonious Monk, Bill Evans, Horace Silver e Bud Powell. Travolto, come tanti altri, dal rock 'n' roll, dalla metà degli anni Cinquanta inizia il suo rapporto d'amicizia con Giorgio Gaber. Diviso tra collaborazioni più o meno illustri, Jannacci suonerà prima come pianista per Sergio Endrigo, poi all'interno di un ensemble denominato "Rock Boys", in cui al suo interno troverà spazio - oltre al già citato Gaber - l'istrionico "molleggiato" Adriano Celentano.
Sono anni di grande fermento culturale ed economico per il Belpaese, mentre tutto ciò che arriva dagli Stati Uniti assume contorni mitologici. Gli imitatori di Elvis Presley impazzano, ma, altrettanto rapidamente, gli anni Sessanta arrivano e mutano rapidamente il contesto storico. Jannacci, nel frattempo, decide di mettersi in proprio. Il 1961 coincide con l'inizio della carriera solista e i 45 giri del periodo sanciscono il sodalizio con Nanni Ricordi.

Un altro evento, però, sta per sconvolgere i piani del cantautore: l'iridescente e complessa intelligenza di Dario Fo plana nella vita di Jannacci e tra i due, in men che non si dica, nasce una stretta amicizia, all'insegna del nonsense, che durerà praticamente per tutta la vita. Parallelamente, in via Monte Rosa 84, nasce l'Intra's Derby Club, un progetto che scaverà profondi solchi nell'intellighenzia meneghina. Partorito dalla mente di Enrico Intra, assume dapprima i contorni di un jazz club, ma deflagrerà le proprie ambizioni in una sorta di vernacolo a cielo aperto, un luogo che sarà il caposaldo di un'innovazione culturale centrata su Milano e la milanesità. Tra le fila di questo club, appaiono alcuni dei più fedeli collaboratori di Jannacci, tra i quali si ricorda il giornalista Beppe Viola e il duo comico composto da Cochi e Renato.
Nell'aprile del 1963, Jannacci trova spazio anche nell'etere, grazie a un'improvvisa telefonata di Mike Bongiorno: il nome del programma è "La fiera dei sogni", un varietà trasmesso in prima serata dalla neonata Rai 2. L'occasione è ghiotta per farsi notare dal pubblico e Jannacci coglie la palla al balzo, cantando il suo primo manifesto, ovvero "El portav i scarp de tennis".
I tempi sono ormai maturi per irrobustire il canzoniere, e toccherà a "La Milano di Enzo Jannacci" (1964) incanalare proficuamente tutte le energie del periodo. Il lavoro è un quadro neorealista di dodici canzoni capace di sezionare in maniera viscerale alcuni dei temi più cari al cantautore; la precarietà dell'esistenza ("Quella cosa in Lombardia"), la rivalsa degli esclusi della società ("El portav i scarp de tennis") e le molteplici sfumature dell'amore ("Per un basin") diventano, infatti, ombre su cui dondolarsi, e magari commuoversi in disparte, tra un bicchiere di vino e un giro in lambretta. L'album viene prodotto da Nanni Ricordi, mentre gli arrangiamenti sono curati dal rinomato Fiorenzo Carpi.
Se il disco può considerarsi una piecè teatrale a tutti gli effetti è anche per merito della voce di Jannacci; il timbro vocale svaria da picchi melodrammatici a registri più festivi e scanzonati, in qualche occasione anche convulsi, ma intrepretati in maniera autentica, mai sopra le righe.

Il decennio prosegue fra teatro e partecipazioni televisive ormai dimenticate: è del 1965 la collaborazione con il genio "animato" di Bruno Bozzetto, per il quale comporrà elettrizzanti sigle televisive adattate per i minispot dello storico "Carosello".
Jannacci approda agli anni Settanta all'apice del successo personale come cantautore: il suo album "Vengo anch'io. No, tu no", del 1968, ottiene due piazzamenti consecutivi al primo posto in classifica, in un'epoca in cui questa ancora non veniva stilata a cadenza settimanale, bensì mensile. L'omonima canzone, scritta con Dario Fo e Fiorenzo Fiorentini, presenta strati di chitarre dall'effetto psichedelico tenute in sottofondo nel mixaggio; grazie all'istrionica interpretazione e al testo divertente, apparentemente disimpegnato, diventa un successo buono anche per i caroselli televisivi.
Tuttavia, la delusione e il disincanto verso un contesto frivolo, incapace di apprezzarne fino in fondo la profondità autoriale inducono un indispettito Jannacci a un periodo di distacco dal mondo della musica. L'allontanamento non è totale, ma comporta comunque un eclissarsi dalle classifiche, tra la rinnovata passione per la medicina e la scoperta di una vocazione da attore, immortalata in particolare nel film "L'udienza" di Marco Ferreri, surreale trasposizione vaticana de "Il castello" di Kafka.

A metà del decennio riemerge il desiderio di tornare a impegnarsi seriamente sul proprio materiale: il fido Nanni Ricordi fonda con lui l'etichetta discografica indipendente L'Ultima Spiaggia, ironico viatico per il disco della consacrazione autoriale definitiva.
"Quelli che..." esce nel marzo del 1975 ed è la prima volta in cui Jannacci alterna a canzoni vere e proprie brevi sketch. Oltre a rivelarsi momenti esilaranti, questi recitati inseriscono e immortalano su disco più marcatamente che in passato la vena cabarettistica e di teatro-canzone di cui Jannacci è stato uno dei più importanti esponenti italiani, insieme all'amico e collaboratore Giorgio Gaber.
L'album si apre con un brano parlato intitolato "La televisiun", una denuncia esplicita della civiltà del piccolo schermo e dello show business legato all'industria televisiva. L'incipit venne scritto l'anno precedente con Beppe Viola, grande amico e spesso collaboratore non accreditato per la stesura dei testi, e apriva di consuetudine le esibizioni live del periodo. Qualche anno dopo, durante le riprese di un concerto a Verona, la Rai decise di censurare "La televisione forte, senza paura, che ti riduce a un coglione", coprendo il parlato vibrante del cantautore con scrosci di applausi preregistrati e vari rumori di sottofondo (nota). Un cane che si morde la coda, verrebbe da chiosare.

"Vincenzina e la fabbrica" è uno dei brani chiave del disco e di tutta la poetica del cantautore meneghino. Originariamente composta come parte della colonna sonora del classico film "Romanzo popolare" e pubblicata nel 1974, su disco subisce in realtà una rielaborazione massiccia nell'arrangiamento. L'originaria commistione tra folk d'autore e bossa nova, pur gradevole, suona infatti non più che un provino se messa a confronto con la rilettura successiva. L'introduzione lambisce territori tra progressive rock e fusion, in una sorta di piccola jam session appoggiata su un'armonia sospesa del Fender Rhodes suonato dallo stesso Jannacci, terreno su cui possono fraseggiare virtuosi una chitarra acustica dal sapore flamenco e una batteria che gioca principalmente su hi-hat e piatti, con sporadici interventi di rullante e tom. Dopo poco meno di un minuto il tutto sfuma e nel silenzio attacca la voce flebile ma accorata del cantautore, rivelando una progressione di accordi tutt'altro che banale, più vicina al jazz che alla classica canzone d'autore italiana (si pensi in particolare ai passaggi che sfruttano tensioni di settima e di nona bemolle per risolvere le frasi armoniche alla fine di ogni strofa), mentre l'arrangiamento dell'introduzione segue lo stesso canovaccio fino alle note conclusive.
La componente testuale risulta tragica e nebbiosa, mentre le gigantesche scarpe impresse nel campo medio della copertina si sgonfiano a tal punto da poter essere indossate da ciascuno di noi. Il brano assurge al rango di metafora universale della precarietà umana, ma anche da monito romantico, tanto quanto nichilista, della fugacità/volatilità del tempo. Il volto di Vincenzina emerge attraverso una fantastica digressione tra il presente ("'sto Rivera che non gioca più") e l'immagine-ricordo del campione che - trascorsi i giorni migliori - ha definitivamente appeso le scarpe al chiodo. Il campione si tramuta così in un sogno, ma rimane indelebile, come una cicatrice impressa sulla pelle.

Questa e altre canzoni sono la perfetta dimostrazione della caratura tecnica della band che prese parte alle sessioni di registrazione del disco: Tullio De Piscopo alla batteria e Bruno De Filippi, figura di congiunzione storica tra jazz e rock nel nostro paese, alla chitarra furono i principali collaboratori, capaci di dare forma e mettere un freno alla tendenza alla riscrittura continua di Enzo Jannacci.
Il suono tipico del cantautorato rock italiano anni 70 emerge in brani come "Il monumento", dove spiccano il suono di sintetizzatore solista, quasi l'imitazione sintetizzata di una fisarmonica, la sezione ritmica dinamica e massiccia, e note gravi di pianoforte a dare densità alle frequenze basse dello spettro sonoro.
Le suggestioni si rivolgono agli anni 60 in numeri quali "L'arcobaleno", samba dove Silvia Annichiarico e Paola Orlandi, nel resto dell'album coriste, vengono "promosse" a cantanti soliste, donando un'atmosfera lounge da colonna sonora di Piero Umiliani, e "9 di sera", cover di "A televisāo" del veterano della bossa nova Chico Buarque.

Più vicina a territori blue-eyed soul è "El marognero". Si tratta sostanzialmente di una jam segnata da una sezione ritmica implacabile e solcata da frequenti interventi fiatistici, con Jannacci intento a offrire la sua versione del canto gutturale tipico di molti interpreti afroamericani del southern soul, volutamente caricaturale e grottesca, visti anche i suoi limiti tecnici come cantante.
"Il bonzo" è un altro brano cardine: scritta da Cochi e Dario Fo e incisa per la prima volta nel 1974 all'interno del disco "E la vita, la vita" di Cochi e Renato, si rivela in realtà un naturale veicolo della poetica di Jannacci. L'andamento ritmico, con il rullante suonato sul levare mutuato da tanti classici country e soul e la sobrietà dell'arrangiamento creano un incedere incalzante, la perfetta risposta italiana al beat rock satirico che fece le fortune del francese Jacques Dutronc (si pensi in particolare a brani come "Et moi, et moi, et moi"). Le liriche dipingono con una forte dose di grottesco black humor ("M'han detto che un bonzo"... "si è cosparso di benzina"... "Perché vuole la libertà/ la libertà de brusà/ de brusà per pudè campá") le precarie e opprimenti condizioni in cui versa l'uomo comune, schiacciato da dinamiche lavorative e sociali a cui non può far fronte. I versi non sono però assolutori e non risparmiano violente sferzate all'egoismo che troppo spesso porta gli individui a interessarsi al proprio esclusivo tornaconto personale.

"El me indiriss" è una intensa ballad cantata in milanese, composta da sequenze di flashback infantili evocati da scarni e delicati accordi di chitarra; il testo è vivido, i gesti autentici e commossi. È una Milano povera, quella del racconto, i cui valori solidali sono per il cantautore fonte di grande orgoglio, oltre che di naturale commozione.
É doveroso infine soffermarsi sulla canzone che apre e dà il titolo al disco. Su un andamento ritmico leggermente swingato, ennesima testimonianza della formazione jazzistica del cantautore, "Quelli che..." ha dalla sua la potenza di un giro armonico eternamente sospeso, sufficientemente familiare da non inficiarne l'orecchiabilità, ma al contempo non così prevedibile da risultare interessante anche dopo innumerevoli ripetizioni. Il delicato tappeto d'organo, i frequenti fill di batteria, gli interventi blues dell'elettrica, le frasi di sax con un marcato effetto delay sono la base ideale per questo esempio dilatato di teatro-canzone. Il testo diventa un coacervo di citazioni, avvisaglia di un conformismo di massa insito e fecondo nella società italiana e occidentale tout court. Per la costruzione testuale del brano, Jannacci prese ispirazione da una poesia di Jacques Prévert, intitolata per l'appunto "Ceux Qui..."; come quelli di Jannacci-Viola, i versi del poeta francese descrivono situazioni squallide e grottesche, che riflettono i vizi capitali della società contemporanea. "Quelli che..." ha un testo originale, una scrittura abrasiva, modificata costantemente durante le esibizioni dal vivo. Una struttura ricorsiva, lasciata volutamente aperta, pronta a subire variazioni e aggiunte improvvise, ma che nelle numerose versioni rilasciate nel corso degli anni non ha mai perso un briciolo della sua spietata intelligenza.
Inutile a dirsi, la canzone venne presto censurata dalla Rai, mentre divenne un inno generazionale per gli assidui ascoltatori delle nascenti radio libere.

A dispetto dello status di classico non solo della canzone, ma della cultura italiana tout court, all'epoca della sua uscita "Quelli che..." non ebbe particolari riscontri di pubblico, non raggiungendo nemmeno il trentacinquesimo posto della classifica di Tv, Sorrisi e Canzoni. Si trattò forse del prezzo da pagare per aver voltato le spalle all'intrattenimento più leggero o forse di una proposta troppo complessa per ottenere riscontri immediati; Jannacci dovrà attendere gli anni 80 prima di tornare a vedere i piani alti delle chart, grazie all'album "Ci vuole orecchio".

04/06/2023

Tracklist

  1. La televisiun
  2. Quelli che...
  3. El me indiriss
  4. Il monumento
  5. Borsa valori
  6. L'arcobaleno
  7. Vincenzina e la fabbrica
  8. Dottore...
  9. Viva la galera
  10. Il bonzo
  11. 9 di sera (A televisāo)
  12. Il karate
  13. El Marognero
  14. Il Kenya