Mi ritorni in mente. È quello che deve aver pensato Giulio Rapetti alias Mogol quando ha incontrato per la prima volta Gianmarco Carroccia. Davvero impressionante, infatti, la somiglianza del giovane cantautore nato a Fondi (Latina) con il suo corregionale e idolo Lucio Battisti. Due gocce d’acqua. Ma non è tutto: Carroccia canta esattamente come Battisti, stesse intonazioni, sfumature, accenti timbrici. Così, unire le sue interpretazioni di quei brani storici e i racconti di Mogol sulla loro origine è stato un gioco da ragazzi. Che sta fruttando innumerevoli sold-out in giro per l’Italia. Si tratta dello spettacolo “Emozioni. Viaggio tra le canzoni di Mogol e Battisti”, tuttora in tour, con un’attesa data al Teatro Romano di Verona il 26 agosto più altre da definire in autunno (sicura quella del 6 dicembre al Teatro lirico di Milano). Un’occasione irrinunciabile per celebrare la storia di un sodalizio d’oro della canzone italiana, come quello tra Battisti e Mogol, ma anche per avviare un nuovo ciclo, con protagonista proprio Carroccia, al quale l’infaticabile Rapetti ha scritto alcuni nuovi brani, il primo dei quali, “Un vero amore”, uscito il 24 giugno, sta già ottenendo un buon risultato sulle piattaforme streaming. Ne approfittiamo per una lunga chiacchierata in due parti con il maestro Mogol, qui condensata in questa intervista, in cui l’ottantaseienne guru della canzone italiana guarda sì a un passato costellato di successi, ma anche a un presente denso di impegni – incluso quello in difesa del diritto d’autore come presidente della Siae – e al futuro della musica, nel quale – ci garantisce – per il rock ci sarà sempre spazio.
Maestro, che fa, ricomincia?
In un certo senso sì. Ho trovato in Gianmarco l’interprete perfetto per le canzoni che avevo scritto per Battisti. Non solo per l'impressionante somiglianza fisica, ma anche per la perfetta interpretazione che riesce a dare ai suoi brani. Sembra un segno del destino: come se me l’avesse mandato Lucio… Tra l’altro ho scoperto che aveva fatto il Cet (Centro Europeo di Toscolano, la scuola fondata e diretta da Mogol, ndr) e non me n’ero neanche accorto. Allora ho pensato di scrivere dei brani anche per lui, come se in un certo senso si riaprisse un ciclo.
Per Carroccia ho scritto un nuovo brano, "Un vero amore", racconta la storia di un uomo che spera di aver trovato la donna della vita
Il primo a essere uscito è “Un vero amore”. Che cosa racconta?
È la storia di uno che incontra una donna e cerca di capire se lei potrebbe diventare il vero amore che attende da una vita. In meno di un mese ha fatto 130mila visualizzazioni, sta andando bene. Solo che bisogna dire alle radio di trasmetterla un po’ di più.
Che cosa succede durante lo spettacolo “Emozioni”?
Succede che riemerge qualcosa che sembrava perduto per sempre. Riportiamo alla luce canzoni che scopriamo ormai essere entrate nella nostra cultura, perché tutti le cantano, tutti conoscono i versi, almeno i principali, i ritornelli… Tre generazioni unite dalle canzoni di Lucio. Si crea una comunione coinvolgente con il pubblico che canta. E balla. Iniziano sempre le donne, perché sono più coraggiose. Ma non è solo uno show, la parte musicale è molto curata, perché Gianmarco ha avuto l’accortezza di circondarsi di ottimi musicisti, con un’orchestra di 16 elementi: quando fanno “Anima Latina” viene giù il teatro.
Canta anche lei?
Certo! Mi sono messo a cantare anch’io che ero l’uomo più stonato del mondo, e ora sono diventato intonato, a conferma che se ci si abitua a cantare, alla fine l’intonazione si trova. Ricordo uno spettacolo che avevo fatto con il pianista Gioni Barbera all’Arena di Verona: a un certo punto mi sono messo a cantare e ho visto persino gente che piangeva. Pensavo piangessero perché ero stonato, invece no! (ridiamo)
Lucio mi portava la musica, io la ascoltavo e scrivevo i testi cercando di capire cosa dicesse. Poi, però, legavo tutto alla mia esperienza di vita. E non ne usciva certo il ritratto di un uomo perfetto...
E poi nello show ci sono i suoi racconti di quei brani. Come nascevano?
Lucio mi portava la musica. E io scrivevo le canzoni ascoltando quella musica e cercando di capire cosa dicesse. Il vero segreto della scrittura, per me, è sentire cosa dice la frase musicale e poi scegliere il significato più adatto. Poi però quando trovavo la chiave, legavo tutto anche alla mia esperienza di vita. Quindi nelle mie canzoni c’è sempre stata una forte componente autobiografica. La gente si diverte, perché racconto sempre la verità, anche in modo spregiudicato. Insomma, non ne esce certo il ritratto di un uomo perfetto. Ad esempio, lo sa che io non ho mai fatto la corte a una donna? Temevo sempre che mi dicessero di no. Poi però ne ho sempre avute tantissime lo stesso! (ridiamo)
Quali sono le sue canzoni preferite tra quelle scritte per Battisti?
Sono troppe per citarle tutte, almeno una ventina. Ma sono quelle più famose, quelle che cantano tutti, ed è bello che sia così, perché se qualcosa rimane nel tempo, vuol dire che ha valore, che è entrato nella nostra cultura.
E tra quelle meno gettonate?
Beh, ad esempio “Anima Latina” che è un pezzo di musica contemporanea, come “Mission” di Ennio Morricone. Oppure “Pensieri e parole”, una canzone con due melodie e due testi. Il direttore della casa discografica aveva pronosticato: “Questa sarà la fine di Mogol-Battisti. E invece…
Quel gelato dei Giardini di marzo non me lo sono inventato, eravamo bambini e attendevamo l'arrivo del camioncino. Ma a casa il 21 del mese i soldi erano davvero finiti...
Ce n’è poi una che ha appena compiuto cinquant’anni: “I giardini di marzo”.
È una canzone che ormai cantano anche in cinquantamila insieme, perché la mettono allo stadio quando la Lazio vince. È una canzone che riguarda la mia vita. Perché il gelato non me lo sono inventato. In via Claricetti, a Milano, da una parte ci sono le case e dall’altra il frumento: io abitavo nell’ultima casa della città, la prima della campagna. Quindi noi bambini giocavamo sempre a pallone in mezzo alla strada, con i golfini per fare le porte. E quando passava il gelataio con il camioncino, tutti i bambini correvano a comprare il gelato, che costava 10 lire. Ma dopo il 21 del mese io non andavo più a chiedere i soldi alla mia mamma, perché non me li dava. Era tutto vero: mio papà prendeva i soldi il 26 del mese e così al 21 del mese successivo eravamo già in ristrettezze economiche. Se avessi dovuto raccontare proprio tutta la verità, avrei anche dovuto aggiungere che io, che avevo 10 anni, mi ero innamorato della vedova di 21 anni che abitava al piano terra e che aveva un bambino. Avevo scoperto che quando andava a stendere i panni, si alzavano anche le sottane e così potevo vederle le gambe. Ero un po’ precoce, ma i bambini in realtà, fin dal complesso di Edipo, hanno i loro pensieri, innocenti ma seri al tempo stesso. Anche “Anonimo” è una storia vera della mia infanzia, con il cane che mi aveva messo un dente nella palpebra e mio padre che era svenuto perché pensava che mi avesse mangiato l’occhio!
Con il politically correct di oggi, alcuni di quei testi scatenerebbero un putiferio?
Certo, ma già all’epoca succedeva. Per “Il tempo di morire” mi avevano messo in croce come se fossi io il personaggio colpevole: allora dovevano arrestare Shakespeare per aver scritto Macbeth. Poi fece discutere “Neanche un minuto di non amore” che diceva “impercettibile per me, ma per te così importante”. Invece per “Io ti venderei” mi hanno dato del maschilista. Ma che male c’è nel raccontare la storia di un ragazzo di paese che è disposto a vendere la motocicletta alla ragazza pur di stare con lei? L’autore non è mica il personaggio della storia…
Negli anni 70 ci accusavano di essere fascisti solo perché non facevamo canzoni politicamente impegnate. Era diventato impossibile anche fare i concerti e io convinsi Lucio a non farne più
In effetti, anche negli anni 70 non era facile uscirne vivi.
Altroché! A me e Battisti hanno dato dei fascisti perché non facevamo le canzoni politiche, impegnate a sinistra. Ma hanno fatto persino piangere De Gregori, che era uno che cantava le canzoni con il pugno alzato… L’hanno accusato di essere “un capitalista di merda” solo perché, diventando famoso, guadagnava più soldi. L’Italia ha vissuto un periodo di follia che alla fine nessuno ha condannato più di tanto, anche perché molti dei protagonisti dell’epoca sono diventati direttori di giornali o della comunicazione. Era qualcosa di incredibile: non potevi fare uno spettacolo senza che qualcuno si alzasse e iniziasse a insultarti. In quel periodo mi è capitato di andare a fare spettacoli a Londra, al Covent Garden, e mi sono stupito del silenzio e del rispetto da parte del pubblico. Qui invece era un casino, non si potevano fare più concerti. Io stesso consigliai a Lucio di non farne più.
A proposito di anni 70, ascoltavo qualche giorno fa una interpretazione da brividi di Franco Battiato di “Impressioni di settembre”, il brano che lei scrisse per la Pfm nel 1971. E riflettevo su quanto fosse una canzone universale, che chiunque può adattare a suo modo e fare sua. Come nacque quel testo?
Venne da me Francone (Franco Mussida, ndr) della Pfm e mi diede questo dischetto con la sua incisione in inglese, finto, come facevano sempre. Io allora gli ho composto il testo e gliel’ho portato. “Impressioni di settembre” l’ho scritta sulla collina di Dosso di Coroldo, tra Pusiano e Molteno. Lì ci sono prati, boschi, mi sono immedesimato nel luogo. Con questa idea della nebbia e del sole che alla fine arriva, portando un senso di rinascita.
Che rapporto ha con il rock? Crede che sia ancora un genere vitale anche oggi?
A me piace molto il rock, l’ho sempre apprezzato. Credo che resterà in eterno, perché è una musica che ha valorizzato la melodia usandola poco e aumentando la ritmica. Una formula che funzionerà sempre.
Anche Battisti aveva un’anima rock, in fondo.
Certo. “Il tempo di morire”, per dire, non è un rock all’italiana: cantato in inglese, diventa un tipico rock internazionale. Lui aveva questo istinto speciale.
Era la sua dote migliore?
Ancora più importante era la sua capacità di studio profondo. Era un matematico, quindi riusciva a capire la sostanza delle cose, i fondamentali. Tutto quello che ha fatto è frutto di un lavoro enorme. Si era fatto un’approfondita cultura musicale studiando sette ore al giorno i più grandi del mondo. Appena usciva uno nuovo, andava subito a studiarselo. Se uno studia un cantante, ne diventa solo la brutta copia, ma se uno studia i dieci più grandi del mondo, alla fine non assomiglia a nessuno e ha preso un po’ da tutti. Battisti era così. Era anche molto esigente: amava più la critica dei complimenti, diceva sempre: “Attraverso la critica posso migliorare, con i complimenti posso compiacermi e basta”.
Bowie apprezzava molto Battisti. Scrisse il testo in inglese di un suo brano e cantò la mia versione italiana di "Space Oddity", "Ragazzo solo, ragazza sola". Fu un grande onore
Ho sempre pensato a Battisti come uno dei nostri cantautori più internazionali, avrebbe potuto ottenere più successi all’estero?
La verità è che lui aveva un livello mondiale. Però la Rca, che aveva stampato i dischi anche in America, non ha mai fatto una promozione adeguata. E lui stesso non è voluto andare in America a promuovere le sue canzoni. Un peccato.
Anche David Bowie era un suo fan. Nel 1997 lo definì addirittura “il miglior cantante del mondo insieme a Lou Reed”.
Sì, lo apprezzava molto. Scrisse anche il testo in inglese di un brano di Lucio, “Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi” (per il primo Lp solista di Mick Ronson, “Slaughter On 10th Avenue” con il titolo di “Music Is Lethal”, ndr). Poi Bowie a me ha fatto un grande onore: io avevo cambiato completamente il testo alla sua celebre “Space Oddity” trasformandola in “Ragazzo solo, ragazza sola” e lui ha voluto cantarla proprio in quella versione in italiano. Una canzone che piacque anche a Bernardo Bertolucci: lui venne da me e mi raccontò che aveva fatto un film, “Io e te”, ispirato proprio da quella mia versione di “Space Oddity”. Così proprio nel momento cruciale del film, in cui questi fratellastri in guerra tra loro alla fine si abbracciano, esplode “Ragazzo solo, ragazza sola”: mi fa venire la pelle d’oca.
Il periodo Battisti-Panella? Lo rispetto. Lui mi disse che non voleva che le nuove canzoni fossero paragonate a quelle che avevamo scritto insieme, quindi avrebbe cantato in inglese o in nonsense. Scelse quest'ultimo...
Dopo la fine del sodalizio con lei, invece, Battisti le disse che avrebbe continuato a cantare solo “in inglese o nonsense”. Alla fine scelse quest’ultimo, optando per i testi di Pasquale Panella. Come valuta quelle opere del cosiddetto “periodo bianco”?
Lucio mi disse che non voleva che le nuove canzoni fossero paragonate a quelle che avevamo scritto insieme. Ma aveva cambiato anche modo di scrivere. Perché con me lui faceva prima la musica e io scrivevo i testi, con Panella, invece - mi ha raccontato lui stesso - si faceva mandare i testi e poi ci costruiva sopra la musica. Era una formula completamente diversa, ma rispetto comunque il loro lavoro e non ho nulla da obiettare.
Come si consumò la separazione tra di voi?
Fui io a non accettare più di scrivere con lui. Gli avevo chiesto semplicemente pari condizioni, lui all’inizio sembrava aver accettato, poi ha cambiato idea e io allora, non per ragioni di soldi, ma di principio, ho deciso di mollare. Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, la Siae prevedeva 8/24esimi all’orchestratore e 4/24esimi all’autore delle canzoni, e io ho accettato queste condizioni, anche se all’epoca io ero già noto e lui no, ma era la norma. Però alla fine nelle edizioni io avevo il 9% e lui il 52%, la cosa giusta sarebbe stata 50 e 50 e io ho chiesto questa condizione per proseguire la nostra co-edizione. Ma lui non ha accettato e io non ho più scritto. Ripeto: non fu per questioni di soldi, ma di principio. Voi non ci crederete, ma a me dei soldi non è mai interessato, non so neanche quanto mi è rimasto in banca!
Però, in fondo, vi siete lasciati senza rancore. Non si può dire lo stesso del suo rapporto con la vedova di Battisti, Grazia Letizia Veronese. Alla fine vi siete confrontati anche in tribunale.
Sì, e abbiamo vinto la causa (intentata nel 2012 da Mogol contro l’Acqua Azzurra Srl, società di cui la Veronese è amministratore unico, ndr). Sinceramente non ho mai capito la sua ostinazione a vietare la riproduzione delle canzoni di Battisti, quei brani sono patrimonio di tutti noi. Alla fine è stato necessario andare in tribunale, ma non si poteva fare diversamente.
La Siae? Stiamo lottando per salvare gli autori perché ancora adesso le piattaforme digitali pagano cifre irrisorie
A proposito di beghe legali, lei ne sa qualcosa da presidente della Siae. Come è finita la querelle con Soundreef? E qual è lo stato delle cose per il diritto d’autore in Italia?
Io ho avuto il compito di tentare di risolvere il problema Soundreef e abbiamo trovato un accordo. Soundreef non ha una sua struttura, così può utilizzare la nostra e pagare autori e compositori. Per quanto riguarda la promozione del copyright, siamo stati anche in Parlamento: ora la legge è passata ai decreti attuativi e l’Agcom sta studiando come risolvere la faccenda. Ma sono già passati sei mesi e ho chiesto di fare un tavolo permanente di studio: rischiamo di danneggiare centomila autori, perché ancora adesso le piattaforme digitali pagano cifre irrisorie.
Tra gli autori italiani attuali, c’è qualcuno che le piace in particolare?
Beh, anzitutto parto dalla famiglia: ho due figli che fanno questo mestiere. Ad esempio hanno appena scritto insieme la musica (Francesco) e i versi (Alfredo) della nuova canzone di Ramazzotti, “Ama”. Alfredo ha già avuto successi enormi nella sua carriera. Poi mi piace Giuseppe Anastasi, un bravissimo autore uscito dalla nostra scuola, molto preparato e interessante. In generale, ci sarebbero tanti talenti da valorizzare. Avevo proposto a Rai1 di fare tre serate di una “università del pop”, con i ragazzi della scuola e dei “padrini”, dei cantanti famosi che li potessero affiancare nelle interpretazioni. Era un bello spettacolo, ma la Rai ci ha dato l’assenso per una sola serata: sarebbe stato come ucciderlo. Dobbiamo aspettare che arrivi qualche nuovo direttore più lungimirante per riproporlo…
È più dura, oggi, per gli autori?
Una volta si valutava il valore delle canzoni indipendentemente da tutto. Oggi, come si vede, le canzoni di Sanremo non rimangono, scompaiono dopo qualche mese o anno. Contano solo i social network, i follower. E le radio funzionano con le logiche che conosciamo bene. Non è il mondo di una volta in cui c’erano i disc jockey professionisti e competenti che sceglievano le canzoni.
I rapper ammessi tra i cantautori? Certo, si possono scrivere brani in modi diversi e loro sono molto bravi a farlo solo con parole e ritmica. Poi però io non li ascolto molto perché mi sembra un po' come sentire una barzelletta due volte...
Negli ultimi tempi tiene banco questo dibattito se sia giusto allargare il campo dei cantautori anche ai rapper, ad esempio nel Premio Tenco. Lei che ne pensa?
Le canzoni vengono create in diverse forme. Personalmente credo che i rapper siano molto bravi perché riescono a fare tutto solo con le parole e la ritmica, senza la melodia che li aiuta. Non ascolto molto questo genere, perché lo trovo ripetitivo: è un po’ come ascoltare una barzelletta due volte. Ma tutto ha valore, una canzone alla fine va valutata per il tempo in cui rimane nella memoria collettiva. Le canzoni che restano sono quasi sempre le più valide.
Lei è anche un docente di musica: qual è il primo insegnamento che darebbe a chi si vuole cimentare nella composizione?
Frequentare i corsi del Cet! (ridiamo). Ho creato una scuola dove si fanno autori, compositori, interpreti, scrittura poetica e produzione discografica: in pratica, tutti i settori sono coperti. Sono andato anche a fare incontri alla Berklee di Boston, a Harvard. Ho pensato di fare un regalo al mio paese, come docente non ho mai preso una lira. E ho anche versato 40mila euro per tenere in piedi la scuola.
Dalla sua prima canzone, “Al di là”, interpretata da Luciano Tajoli e Betty Curtis (1961), sono passati sessantuno anni, costellati di successi. Oltre ai brani per Battisti e a “Impressioni di settembre” per la Pfm, ricordiamo anche solo “Perdono” per Caterina Caselli, “La prima cosa bella” per Nicola Di Bari, “29 settembre” per l'Equipe 84, “Una lacrima sul viso” per Bobby Solo, “A chi” per Fausto Leali, “Riderà” per Little Tony, “La spada nel cuore” per Patty Pravo, “Amor mio” per Mina, “Oro” per Mango, “Celeste nostalgia” per Riccardo Cocciante o “L’emozione non ha voce” per Adriano Celentano. Un bilancio che lei ha fatto stimare alla Siae: ne è uscita la cifra-monstre di 523 milioni di dischi venduti nel mondo. Possibile?
Pare proprio di sì, e sono rimasto molto piacevolmente sorpreso. Tutto è cominciato proprio con quella canzone di Tajoli e Betty Curtis, che vinse il festival di Sanremo e finì al primo posto in 27 nazioni. Per Celentano ho firmato anche “Respiri di vita”, che lui ha interpretato meravigliosamente. Una canzone scritta insieme a Gianni Bella, grandissimo anche lui.
Ma sessantuno anni dopo ancora ha tanta voglia di continuare fare questo lavoro…
E non solo quello. Mi sto occupando anche di un progetto di prevenzione primaria delle malattie, che svolgerò qui nella cittadella (in Umbria, ndr). Una ricerca a 360 gradi, dal cibo che mangiamo all’ambiente in cui viviamo. Lei lo sa, ad esempio, che sale e zucchero sono veleni?
(Parzialmente tratta da un'intervista pubblicata sul quotidiano "Leggo")
21/08/2022