Posso dirlo? Ho impiegato mesi e mesi per dare un senso a questa recensione e probabilmente non ci sono riuscito e non ci riuscirò mai. Le premesse erano pessime, il primo ascolto ha fatto impressione più a me che in quanto a giudizio cerco solo di captare il possibile valore di una sua contemporaneità, la sua coerenza, la capacità narrativa, l’estetica, nel senso meno vanesio del termine.
Perché parlo di cattive premesse? Dall’album precedente si sono susseguiti un nuovo più o meno inutile volume di “Dilettevoli eccedenze”, l’annuncio dell’ennesimo disco di canzoni d’amore, la rinnovata collaborazione con Ferzan Ozpetek che lasciava presagire muffa… Manco fosse una novità, c’è brutta aria in giro, non solo in campo musicale, incluso il fatto che, ormai appare chiaro, d’ora in poi le classifiche Fimi apparterranno ad altre interpreti (l’album ha raggiunto come posizione massima la numero tre, tanta grazia, comunque), purtroppo e lo dico come all’omelia di un funerale d’arte.
E allora? Fare, come sempre, tra l’amore per i figli e i nipoti, l’amicizia leale con i suoi musicisti, uno studio sempre pronto a divenire specchio e scenario di un’anima dalle tante sfaccettature, ma forse, non più inquieta?
La copertina immediatamente fa eco al tempo che gli appartiene, realizzata con la IA. Magnifica, davvero, imponente. Mi faccio coraggio e faccio partire il pezzo non incluso nell’album e che lo anticipa di poco… Ozpetek il destinatario.
Gabriele Comeglio all’orchestra regala increspature mahleriane all’ensemble che risolleva da una tela senza più alcun valore. Peccato, davvero null’altro da aggiungere.
“Non smetto di aspettarti” è di Fabio Concato, suona bene, molto bene invece, e la voce nel crescendo sale con pienezza di armonici su frequenze da mezzosoprano dimenticate. Una limpidezza che si appoggia su suoni gravi ma chiamando in gloria le più grandi dive del jazz. Con fraseggi che sono sempre e solo quell’arco tra terra e cielo che nessuno potrà mai raccontare con la stessa fermezza. Bell’assolo di chitarra dalle figure cromatiche assai strette. Rientra la voce con un minimo di eccesso in pathos, ma l’ascesa in acuto è l’incanto di una giovane promessa del canto jazz, a cui in realtà dobbiamo già se non tutto, moltissimo, pure troppo.
Dopo tanta bellezza… Massimiliano Pani. Una romanza senza tempo, dalle bellissime armonizzazioni, seppur come quasi sempre è il crescendo in acuto che strazia, davvero, come raramente è accaduto. Volete donare un album per far sgarbo a chi crede di non avere più un’anima? Ecco, in taluni momenti di grazia suprema, questo è il disco, fin qui bellissimo, raffinato nelle armonizzazioni e negli esposti melodici, il tutto vivo in una voce che torna a essere tuono. Poi, purtroppo, “Per dirti t’amo” è di una banalità senza confine (proprio un Ariete, una via di mezzo mai o quasi). Tante volte si è sentito un pezzo simile nella discografia dell’interprete, che non rinuncia a vocalizzi di pregio, accompagnati alle solite vocali falsate a “strombettare” come in un’orchestrina jazz della Bassa, qui con un brutto pezzo adult oriented pop, che indulge nel testo in un “sai che morirò d’amore” (ormai…) e canto sofferto come di una donna abbandonata ai propri ricordi, ad ammuffire in una cantina. Una parentesi, si spera.
“Amami e basta” infatti, è il capolavoro assoluto dell’album e il pezzo più moderno nel suono, nell’architettura di base, nel canto. In tutto. Si apre con un paio di appoggi di pianoforte e già ti attraversa. È il punto di non ritorno, sai che comunque vada il resto dell’album, intimamente non potrai dimenticare tanta contemporanea eleganza che si fa potenza emotiva senza tempo. Una composizione ben poco pop, dalle atmosfere sospese, che sembra cantata da una quindicenne. Una ballata d’oltremanica che pare un dono del primo Thom Yorke (non si creda che chi è vecchio e supportato/distrutto da un team da incassi pazzeschi, riverenze e cattiverie spietate non abbia orecchio e capacità di discernimento). Semplice ma perfetta, preziosa, dalla struttura formale per niente prevedibile. Quello che si può a tutto tondo definire “un quadro d’autore ultramoderno”. Quando la batteria entra (con clangori di elettricità a darle più spazio) e la voce si fa grigia, sembra di partire per un iperspazio. Orrendi solo i brevissimi controcanti, che non meritano di supportare lo strumento principale che qui si fa grazia pura per abbandonarsi al tempo in modo lascivo e assai sofferto (la voce che si spezza nella pronuncia del primo “basta” è puro brivido). Complimenti ad Antonino Luca Tudisca, autore di musiche e testo.
A strettissimo giro, parte l’altra perla assoluta, “Senza farmi male”, dalla penna di Elisa, unico singolo di rilievo della pubblicazione. L’inciso è pura Mina, esplode come una bomba programmata alla perfezione o un sogno che si realizza… luce, diventa mille cori, fino ad aggrapparsi a un Mi in falsetto ben tenuto di diaframma (ricordate “Oggi sono io” di Britti? Beh, si è proprio da quelle parti ma con ben altra enfasi drammatica ed elettronica di gran gusto, ineffabile come la nebbia, eppure pulsante). Un gioiello purissimo.
La stessa elettronica che troviamo all’inizio di “Il cuore si sbaglia”. Forzatissima però da subito l’interpretazione, oltre il grottesco. Non si prende minimamente sul serio, canta d’amore ma come potrebbe parlare di ciliegie rincarate, mentre spara le peggiori sentenze verso un uomo immaginario (si spera). I cori fanno un vintage che ha del divertentemente “perverso”, tanto è “modaiolo” nel mondo gaio. Fosse stata cantata in modo più asciutto e presentata, che so, a Sanremo, avrebbe avuto qualche possibilità di classifica, a strattonar Marcella Bella. Un brano né bello, né butto. Neanche leggero a ben vedere, strano, quasi espressionista, se l’arrangiamento non facesse da completo contraltare alle marcate espressioni di un viso appartenente ai ricordi, ma che fa capolino nell’unica interpretazione di Brecht, una “Surabaya Johnny” non propriamente memorabile.
Schitarrata da “rock all’italiana” ad aprire. “È così che funziona” e tutto cambia signori, “altro giro, altra giostra!”. Si ha a che fare con uno di quei pezzi che cantato dalla Bertè avrebbe fatto centro pieno, fatto da Mina, boh… Per carità, non una brutta canzone, pur con qualche rima forzatissima del testo, ma al solito salva tutto Quella Voce, che non ha bisogno di portarsi ruggini addosso per risultare verace. Piccolo, ma proprio “piccolo” problema è che il brano sembra “L’importante è finire”, ad esempio, che rock non è, che fa tanto farsa da drama queen. Boh.
“Buttalo via” di Francesco Gabbani, non ripete neanche minimamente il miracolo di “Un sorriso dentro il pianto”, per Ornella Vanoni. Non è male eh, per carità, ma è prevedibile, quanto il fatto che sia stato scelto da primo tra i tre singoli. Si insiste sempre su frequenze medio-acute, magnifiche, pienissime di armonici. Noiosi i contrappunti di elettrica, che portano indietro di almeno trent’anni. Poco più, nulla di meno.
Una magnifica folata d’archi ad aprire “L’amore vero”, una cartolina d’annata, con voce che magari un tono sopra (anche due) avrebbe convinto di più. Che senso ha esporsi ringiovanita vocalmente come per miracolo e poi cantare un brano così perdutamente “vecchio”? Tornano le solite frasi da Baci Perugina (ops… caramelle Sperlari, delle quali la cantante ora è testimonial col suo canto e il suo parlato) pari a “l’amore vero non finisce mai”. Per i fan sugli “anta” molto avanzati.
Qui è un’Italia che non esiste più e che allo stato attuale delle cose, forse non avrebbe mai avuto ragione d’essere, ma che lascia persino un discreto magone addosso a chi l’ha vissuta e subita. Banale, ipocrita, ma vestita a festa e con un amore per eccesso di colesterolo nel sangue da stremarti nel corso della durata di un brano. Il pranzo di Natale coi parenti che ti odiano, il doversi esporre a un giudizio (paura che Mina non ha più e qui, primo, enorme merito del disco).
Chiudere con un’altra fintissima sciabolata di elettrica in “Non ti lascerò”, però, fa cadere le braccia oltre ogni ragione. Va bene, buon arrangiamento a fronte di un canto che mi spiace dirlo, è fintissimo, orrendo. La modulazione in acuto è una vergogna d’ovvietà, il modo canzonatorio con cui viene trattato un sentimento reso una barzelletta, qui innervosisce fuori misura. È avanspettacolo brutto, ma brutto veramente.
Questo non è un album che canta d’amore. A tratti è una farsa senza nobiltà del “valore” emotivo. Quattro sono i pezzi da salvare e tutti di una bellezza suprema (“Amami e basta”, “Senza farmi male”, “Non smetto di aspettarti”, “Dispersa”), da soli varrebbero un nove, ma le tracce sono dieci, non quattro. Faccio finta di dimenticarmi del resto e procedo di attenuanti:
1) Questo è il disco meglio cantato di Mina dai tempi di “Mina in Studio (2001/2021)”, per uno strano caso, ristampato questo mese in formato cd, dopo le precedenti edizioni per video solo e quella audio per chiavetta o vinile. Non c’è di fatto alcun legame qualitativo tra l’album live (un capolavoro) e questo, che è al solito vizio/carattere, “una raccolta di canzoni tra Zenit e Nadir”.
2) È comunque il progetto più rischioso dai tempi di “Maeba”. Se si mettono assieme i migliori brani di un disco e l’altro, ne vien fuori qualcosa di pazzesco, ma così non è, purtroppo.
Nettamente più moderno di qualsiasi album dell’interprete persino dai tempi di “Kyrie” (1980 – un disco da avere o rispolverare), “Gassa d’amante” è un lavoro più bello di “Ti amo come un pazzo” e “Mina Fossati”, pubblicazioni precedenti.
Il voto ha quindi un valore comparativo con le fatiche precedenti e va per approssimazione, affetto, stupore (rimane, intatto e comunque, di quei quattro pezzi almeno due non smetto di ascoltarli mese dopo mese) e la sensazione di non aver perso il proprio tempo ascoltandolo, anzi, di avere acquisito inconsciamente una nuova saggezza che per ora, non so.
Infine… auguri Mina, 85 anni portati in questo modo sono un traguardo pazzesco, senza possibilità di smentita alcuna. Ti si loda, ti si stronca platealmente. Ti si cerca, sempre, come un idolo pagano: la Grande Madre. E con i genitori si è debitori, cattivi oltremodo, ma coscienti del bisogno che donano, che con la loro assenza, porta a invecchiare o a diventare infine, adulti.
19/06/2025