Insieme a Samuele Bersani, è stata la vincitrice morale dell'ultimo festival di Sanremo (dopo aver già vinto moralmente quello del 2010), ma alla fine ha portato a casa solo un biglietto per Baku, la capitale dell'Azerbaigian dove si terrà inopinatamente l'Eurovision Song Contest 2012. Al di là di ciò, la trentaduenne piacentina Maria Chiara Fraschetta aka Nina Zilli - nick sentimentale, metà Nina Simone, metà cognome di mamma - è da anni una delle più promettenti interpreti italiane. E nell'era delle pollastrelle in batteria da reality show, è rimasta anche una delle poche ad aver sperimentato la fatidica gavetta: dopo gli studi da soprano al Conservatorio, ha vissuto un paio d'anni negli Stati Uniti mangiando pane e black music, poi si è inventata veejay su Mtv e al fianco di Red Ronnie su Roxy Bar, quindi, ha collaborato con gruppi della scena rocksteady/reggae, dagli Africa Unite ai Franziska. Infine, il primo approdo a Sanremo con "L'uomo che amava le donne", preludio al debutto sulla lunga distanza ("Sempre lontano", 2010) e il successo del singolo "50mila" in duetto con l'amico Giuliano Palma.
A spianarle la strada, insomma, non sono stati i televoti degli Amici di Maria, ma doti canore fuori dal comune: vocalizzi magnetici, un'estensione prepotente e una vena soul à-la Motown che le permette di padroneggiare con disinvoltura partiture ben più ostiche della media del pop nostrano. Il tutto unito a una notevole presenza scenica e a un pizzico di autoironia che non guasta mai. Dribblato l'insensato parallelo con Giusy Ferreri che rischiava di zavorrarne la carriera, la cantante emiliana deve ora fare i conti con l'ombra che da sempre aleggia sul suo talento e che le è valsa il malizioso soprannome di "Mina Zilli". Perché la Tigre di Cremona è in effetti un riferimento molto esplicito nel suo stile. Un riferimento per certi versi obbligato, se si considera che, oltre al soul e all'r'n'b, l'humus privilegiato di Nina sono i golden years della canzone leggera italiana, le atmosfere retrò degli anni Sessanta, quella da rotonda sul mare e night-club a lume di candela. E, diciamolo subito, "Per sempre", il pezzo presentato a Sanremo e firmato assieme a Roberto Casalino, suona proprio come un omaggio a Mina: una bella apertura melodica sospinta dagli archi, radiosa e malinconica al contempo, una canzone "classicamente" elegante, di quelle che funzionavano cinquant'anni fa e funzioneranno sempre. Omaggio, però, non plagio, perché dalla sua la Zilli ha una personalità e una gamma di sfumature che le consentono di schivare la trappola del mero citazionismo.
Il suo secondo album, "L'amore è femmina", rinuncia in parte alle ambizioni black dell'esordio ("Sempre lontano", 2010) per focalizzarsi proprio sulle radici della canzone italiana, nel segno di un pop solare e accattivante, in parte appiattito dalla produzione "pulita" di Michele Canova Iorfida (Tiziano Ferro, Jovanotti, Eros Ramazzotti). Per fortuna, però, Nina possiede un'innata raffinatezza che le impedisce di franare sul refrain ottuso o sul vocalizzo banale. Ma l'impressione è che love-song tutto sommato convenzionali come "L'inverno all'improvviso" e "Una notte" non siano il suo terreno di gioco ideale. Anche laddove inserisce soluzioni elettroniche (l'uptempo di "Per le strade", con testo di Pacifico) o sovraccarica il sound tra archi e loop di batteria ("La felicità", a cura di Diego Mancino) il disco sembra snaturare l'irruenza selvaggia di Nina, piegandola a un innocuo mainstream-pop.
Il lato più brillante e divertente della Zilli emerge soprattutto nella seconda metà del disco: la scanzonata title track è un saggio di vocalismo felpato, contrappuntato dai coretti e da fiati a go-go su un'andatura rockeggiante; "Piangono le viole" avvolge di vocalizzi conturbanti una filigrana funky; "Non qui" srotola un'altra melodia anni 50 tra rulli di tamburi e rodhes in lontananza; "La casa sull'albero" è puro blues, con testo esistenzialista ("Siamo condannati a ringraziare queste fabbriche che ci danno venti giorni di felicità..."); le chitarre surf di "Anna" sembrano strappate a qualche spy-movie d'epoca. Tornano anche le amate inflessioni swing a mitigare la nostalgia di "Un'altra estate", divertito rocksteady scritto a quattro mani con Carmen Consoli che imbrocca uno dei ritornelli più riusciti del lotto, mentre la chiusa di "Lasciatemi dormire" è più ironia che sostanza.
Il disco scorre gradevole, ma nel complesso ci si aspettava di più. Nina Zilli ha spalle forti per resistere all'abbraccio mortale di un'industria discografica che vorrebbe trasformarla nella nuova Giorgia. Ma per allontanare definitivamente paragoni ingombranti e compromessi insidiosi, è chiamata a un ulteriore salto di qualità. Magari accentuando le tinte più soul e blues del suo repertorio, anche nei pezzi a sua firma. Oppure circondandosi di autori in grado di valorizzarla al meglio sul versante delle ballate vintage. Perché le sue potenzialità restano enormi e ancora in parte inesplorate.
15/03/2012