Zucchero
Palottomatica
Roma
16 novembre 2011Non mi capita quasi mai di vedere un concerto, due ore e passa di ottima musica, danze e melodie di bellezza struggente, godermelo, e non sapere cosa scriverne. Avere qualche dubbio di troppo, e non saperlo esprimere. Vi spiego.
Sono andato, per Cool Tour, a intervistare Zucchero, da Roncicase, Reggio Emilia, dopo aver trangugiato in una notte metà della sua biografia appena uscita e, a seguire, immergermi nel suo never ending tour (quasi alla Dylan), 80 date finora e via così (spero per lui con qualche pausa) fino a maggio. Il Choca-beck tour. Improvvisamente (ma con Zucchero succede sempre così) mi sono ritrovato gettato dentro quello che è un mondo assolutamente particolare nel mondo della Italiana. Lunisiana soul, e blues, e rythm'n'blues, e - certo - un po' di rock, e tanto gospel: così non la suona nessuno in Italia. Anche perché non è il suono del nostro Dna. Noi siamo connessi con il neo-pop o il cantautorato più o meno tradizionale. Il negro, da noi, piace ma non appartiene.
Il personaggio lo conoscete (lo conoscete?): un figlio di mezzadro consapevolmente libidinoso che si presenta a Sanremo a 30 anni, donne du-du-du, subito ciulato come un pivello, già la carriera a rischio prima di cominciarla. E che però, una decina di anni dopo, suonerà con Miles Davis e tutti gli altri (e sono tanti). Socmel, che salto mortale. Dalla campagna della provincia al mondo. Roba da circo. In "Il suono della domenica", 290 pagine colme di aneddoti, confessioni e qualche smargiassata, racconta in maniera schietta questa vita di faticoso successo. Esaltante in incontri da cuore in mano ed emozioni profonde, e buio come un tunnel in anni di depressione in cui, mi sa, la sua musica ce la siamo goduta più noi, che almeno la ascoltavamo (più) felici.
Tutto bene, quindi. E i dubbi?
Intanto, lo devo dire, c'è una ruvidezza nell'uomo che non capisco, che stride con la morbida dolcezza che ammanta delle ballate e delle visual-parole fascinose. E col suo essere alla mano, a parlarci. Quelle sequenza a Striscia, quel paio di canzoni evidentemente "simili" a roba di Joe Cocker e Al Green mai serenamente confessate, quei battibecchi con le sciure russe nei locali per vip (che c'azzecca, Sugarboy in mezzo al tintinnio dei gioielli? direbbe Lennon), anche quel riferirsi con rancore alle "teste di cazzo" in platea: "Che si infilassero un preservativo e se ne andassero a casa"... la volta del Palasport di Nervi non aveva mai udito niente di simile, I believe. Sì, vabbè, c'avrai le tue ragioni, Delmo, ma fatti una risata e tira avanti, che la gente gode e la vita è bella. Nessuno dei tuoi idoli neri se la menerebbe così.Ma per chi canta, Zucchero? E' l'altra domanda. Non per i ragazzi, surprise. Età media, almeno 40. E non solo in platea no, pure su in gradinata, media sempre alta. Con il buffo effetto di ballare in mezzo a cinquantenni col passo da discoteca di vacanze di Natale in montagna (con Prince la compagnia in platea era, diciamo, più incoraggiante). In fondo però, sono i coetanei del capo, il pubblico di Dylan, più o meno. Del resto, solo Vasco, dei valorosi guerrieri della nostra generazione, tira dentro anche i teenager, è un dato di fatto.
Ma, mi sono chiesto, davvero sono canzoni per quarantenni (di media, s'intende)? Il mio amico Vincent, produttore, mentre andavamo il giorno dopo a intravedere al buio i darling della scena neo-folk americana, i Fleet Foxes, mi dice: "Come autore è grande. Ne ha scritte davvero un bel po', di belle...". Esatto. E lo so bene, son due giorni che non ascolto altro, quasi magneticamente (e non sull'i-Pod, bada bene: coll'impianto, volume più che sostenuto). Le canzoni "belle" hanno un target? Non ci credo. Ma forse un personaggio sì, ce l'ha.
Di pancia, rimango dell'idea che Zucchero è pane caldo e pasta fumante. Vino e pollo alla creola. Menta e rosmarino. Albe e tramonti sulla collina. Sacerdote del sogno di "poterci essere anch'io", anche se son nato in mezzo alle vacche e galline. Portatore sano dell'avercela fatta, nonostante Sanremo e Mogol, a realizzare un sogno grande come il Delta. Sacro e profano, tradizionale e irriverente, come si descrive nel libro. Ci sta. Non l'ho mai frequentato, e quindi non lo conosco (molti sostengono che è meglio non conoscere mai i propri idoli, per esperienza mica sbagliato, eh....). Ma se lo devo giudicare per quello che canta, mette su uno dei migliori spettacoli live possibili.Apre con un "Soffio caldo" scritta con Guccini e alla fine duetta con la voce e l'anima di Pavarotti su quel gioiello di contaminazione folk-operistica che è "Miserere". Fa la danza del funky gallo e inforca la maschera da diavolo, ispiratore e testimonial ad honorem del leggendario striscione della Curva milanista "C'è un Diavolo In Me". Suprema goduria da anello arancio. Sale "Il volo" con bianche colombe (piangeranno anche loro il blues, come quelle di Prince?), e precipita in un mare di blues e Dune mosse. Non ci sono improvvisazioni o momenti di jam, ma c'è un motivo, le Soul Revues, per quanto della Bassa, sono compatte e così devono rimanere. Si parte piano, freno a mano tirato da entrambe le parti "rischiate di esser il peggior pubblico che ho mai avuto", digrigna, e si decolla definitivamente dopo un bel po' con "Baila", poi si sale e si scende, si cresce di ritmo e ci si rilascia con molta dolcezza.
Il capobanda si inarca e si contorce tanto da assomigliare al vecchio Joe più del leone di Sheffield stesso. Pochi sorrisi, molte facce ingrugnite, immerse nella celebrazione di una musica che è per definizione dolore e redenzione, sofferenza e abbandono. Si siede al piano e prende una chitarra, parla poco e canta da fermo, la linea migliorabile, niente camminate da rockstar sul palco microfono in mano, mentre intorno a lui la macchina, inclusiva di archi e fiati, procede rotolante e sbuffante come un treno nella prateria. Le solite martingale nere e il cappello bianco, poi i capelli fradici, il volto ottocentesco di un miserabile alle prese coi suoi demoni, ma che nonostante tutto brinda alla vita. La voce è potente e piena, e questo conta tanto, in quella musica lì del Sud.
Goddamned and sanctified.
Alla fine il godspell si scioglie, la "Messa è finita e andate in pace". Rimane "l'amore della gente comune", molti sorrisi e la fede nel blues, che - si sa - "non morirà mai".
A me piace sentirlo ricordare, ci credo anch'io, è la musica più viscerale e con più soul di tutte. Chi è connesso non sempre è felice, se no ascolterebbe altro, ma sa godere. Ogni tanto, bisogna prenderselo, un sorso di Zucchero. E' un suono che va oltre la domenica. E' il suono di tutta una vita.
Foto di Carlo Massarini