Ligabue

Ligabue - Tra la via Emilia e il rock

Dalle storie del borgo alle storie di tutti. Ascesa e declino di Luciano Ligabue, che con il suo linguaggio crudo e popolare ha raccontato la vita attorno a lui - umana e naturale - sognando il rock e imitando un immaginario, quello americano, così lontano da sembrare impossibile

di Federico Piccioni

Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti. Poi tra Reggio e Parma lasciare andare il tiramento di testa e provare a indovinare il numero dei bar, compresi quelli all’interno delle discoteche e dei dancing all’aperto ora che è agosto e hanno alzato persino le verande per godersi meglio le zanzare e il puzzo della campagna grassa e concimata
(Pier Vittorio Tondelli, "Altri libertini")

Ligabue è stato un fenomeno di massa. Per dodici anni ha detenuto il record europeo di spettatori paganti in un singolo concerto, quello al Campovolo di Reggio Emilia, nel 2005. Dalla metà degli anni Novanta in poi ha costantemente popolato i palinsesti radiofonici italiani e riempito le arene della Penisola. Non esiste persona in Italia che non conosca Luciano Ligabue ed è soprattutto per questo che parlare di lui non è un’impresa semplice. Quando un artista diventa un fenomeno di massa e si insinua nella quotidianità di tutti, sul suo conto si diffondono giudizi superficiali, simpatie e antipatie che non alimentano analisi del tutto lucide e disinteressate. Di fronte al fenomeno di massa, ognuno - anche comprensibilmente - si sente chiamato ad avere una propria opinione.
Al netto delle considerazioni personali, la discografia di Ligabue racconta che la carriera del cantautore emiliano si può dividere in due differenti fasi: quella del Ligabue “narrativo” (1990-1998), intento a raccontare per lo più storie, personaggi e ambienti vicini al proprio contesto, e quella del Ligabue “universale”, concentrato ad affrontare tematiche trasversali e comuni a tutti, come l’amore, l’amicizia, la società e la morte (1999-oggi). La metamorfosi da cantautore “narrativo” a cantautore “universale” ha coinciso, da un punto di vista artistico, con il progressivo tracollo di Ligabue.

Da un paio di decenni, infatti, il cantautore emiliano fa musica mosso non tanto da un’urgenza comunicativa, quanto più dal desiderio di salire nuovamente su un palco ed emozionarsi di fronte a migliaia di persone che cantano le sue canzoni. Oggi, sebbene non nutra più alcun afflato artistico, Ligabue è disposto a scrivere, registrare e pubblicare nuove canzoni con il solo e unico scopo di fare un altro tour e un altro Campovolo, intrattenendo una vasta fetta di popolazione italiana che ascolta la radio e guarda la tv. L’endorsement dei media “tradizionali” è garantito da una major che ha il compito di spingerlo ovunque sia necessario: Ligabue vende biglietti perché la sua etichetta lo promuove e la sua etichetta lo promuove perché Ligabue vende biglietti. È un cane che si morde la coda, un circolo infinito che genera denaro e soprattutto - cosa molto più importante per Ligabue - che giustifica un altro tour in giro per l’Italia. Spesso, all’artista che innesca questo virtuoso meccanismo imprenditoriale si possono attribuire anche dei meriti artistici. Nel caso di Ligabue, questi meriti artistici risalgono ai suoi primi dieci anni di carriera.

Il sogno e le origini

Scelti da chissà che mano
per esser buttati in mezzo alla nebbia

ligaorazeroScampato alla strage di Bologna del 2 agosto 1980 - quel giorno per raggiungere gli amici in vacanza a Rimini deciderà di prendere l’auto anziché il treno - Luciano Riccardo Ligabue nasce a Correggio (Reggio Emilia) nel 1960, luogo a cui rimarrà sempre visceralmente legato. Figlio di Giovanni e di Rina, ma anche della padania anni Sessanta e Settanta, Ligabue subisce il fascino delle radio “libere”, che - come quelle clandestine della Resistenza, intercettate da suo nonno Marcello, partigiano - trasmettono per i pochi che le sanno cercare e che le vogliono ascoltare. Nel suo primo trentennio di vita Ligabue svolge i lavori più disparati. Dopo il diploma in ragioneria fa il bracciante, l’operaio metalmeccanico, il ragioniere, il consigliere comunale, il promoter e quindi il conduttore radiofonico in una emittente locale. Ligabue è quindi un cantautore del popolo, perché viene dal popolo.

Nel 1988, insieme alla sua prima band, Orazero, pubblica Anime in plexiglass/Bar Mario (Suonimmagine), un 45 giri a tiratura limitata (1.000 copie) inciso dopo la vittoria di un concorso musicale per artisti emergenti, in cui Ligabue e Orazero avevano partecipato con il brano “Eroi di latta”, che verrà ribattezzato, due anni dopo, “Balliamo sul mondo”. In quel periodo, le intricate trame del destino lo conducono, insieme al suo storico e inseparabile manager, Claudio Maioli, a casa di Pierangelo Bertoli. L'impressione è buona, tanto che pochi mesi dopo Bertoli incide due brani scritti da Ligabue e li inserisce in "Tra me e me" (1988) e "Sedia elettrica" (1989). I due pezzi - “Sogni di rock’n’roll” e “Figlio d’un cane” - verranno pubblicati da Ligabue nel suo primo album, che, contro ogni pronostico, uscirà di lì a poco. A credere in lui è il produttore di Bertoli, Angelo Carrara, che scorge nel trentenne emiliano audacia e talento. Nel frattempo, però, gli Orazero si sono sciolti e Ligabue è costretto a cercare nuovi musicisti per inseguire il suo sogno.

La strumentazione è scarna, i soldi sono pochi e il tempo a disposizione pure, ma in meno di venti giorni Ligabue e la sua nuova band - Luciano Ghezzi al basso, Gigi Cavalli Cocchi alla batteria, Max Cottafavi alle chitarre e Giovanni Marani alle tastiere - riescono a registrare undici tracce allo Psycho di Claudio Dentes, a Milano. A questo punto tocca a Carrara. Il giro per le case discografiche è una via crucis in cui a ogni stazione cade la croce. La Cgd dice no, la Emi anche, la Carossello non ci pensa nemmeno, la Wea rispedisce Ligabue e Carrara da dove erano venuti e infine la Polygram si limita ad ascoltare qualche minuto, sentenziando che in quella musica c'è troppo Francesco Guccini. Il miracolo arriva qualche mese dopo e porta il nome e il cognome di Fabrizio Giannini, nuovo direttore artistico della Wea, che, mostrandosi fortemente interessato a Ligabue, ribalta la posizione assunta dalla sua azienda poco tempo prima. "Potrebbe essere il giorno più bello o più brutto della tua vita", dirà Angelo Carrara a Ligabue, comunicandogli la notizia al telefono. In quel momento il cantautore emiliano non può conoscere la risposta, ma ha il presentimento che vale la pena rischiare.

liga_1Ligabue (Wea) esce nel maggio del 1990 ed è un disco eponimo per volere di Angelo Carrara, che vede nel cognome del cantautore un marchio riconoscibile e facilmente memorizzabile. Nella copertina il titolo campeggia a caratteri cubitali su uno sfondo bianco, riempito dai testi degli undici brani dell’album e da frasi ironiche dette da personaggi più o meno celebri (da sua nonna a Woody Allen, perché mischiare realtà e mito è, sin dal principio, una delle cifre stlistiche del cantautore emiliano).
La prima canzone della carriera di Ligabue inizia con un riff di chitarra che si prende più scena del ritornello. “Balliamo sul mondo” è un invito a tenere il tempo, a pestare i piedi e a danzare come viene, fuggendo da una realtà che è un abito troppo stretto per chi non riesce a starci dentro. I personaggi che abitano le canzoni di Ligabue non hanno molto, ma quel poco che hanno se lo fanno bastare (“va bene qualsiasi musica”, “non avremo classe, ma abbiamo gambe e fiato finché vuoi”, “non ti offro grandi cose, però quelle lì le avrai”), anche a costo di evadere con l’immaginazione, spesso alimentata dagli eroi del grande schermo, da un'America lontana, eppure così vicina che è praticamente impossibile resistere alla tentazione di sognarla o addirittura di imitarla (“Fred e Ginger sono su una supernova sopra a noi”). A livello di contenuti, e quindi di testi, tutti i primi cinque album di Ligabue - ad eccezione del terzo, Sopravvissuti e sopravviventi, sono intrisi del mito americano, quello che nella bassa emiliana germogliava come il frutto di un terreno fertile, forse anche a causa di un territorio, così piatto e sempre uguale a sé stesso, che evocava una sorta di "West domestico", come a Guccini piaceva definirlo.
In Ligabue proprio la Pianura padana umida e brumosa fa da ambientazione al dittico “Freddo cane in questa palude” e “Angelo della nebbia”, uno dei passaggi più ispirati dell'album d'esordio, se non della sua intera discografia. Una slide guitar barcolla dentro un breve blues introducendo un’ambientazione desolante e nello stesso tempo inquietante, fatta di fossi, canneti, coccodrilli - ecco l’America - e paludi (la stessa Correggio prende il nome dallo spagnolo correa, che significa "striscia di cuoio" e quindi "pezzo di terra tra le acque").
La voce di Ligabue è espressiva al limite del ridicolo, quel ridicolo che con il passare degli anni lo stesso Ligabue inizierà a soffrire, in quanto fastidiosamente imbarazzante alle sue orecchie. Ma era facendo rock su questa linea sottile che divideva il grottesco dall’epico che Ligabue riusciva a trasmettere qualcosa; da quando ha iniziato a vergognarsi del proprio passato - e quindi a invecchiare e a maturare come uomo - Ligabue ha anche smesso di raccontare qualcosa di interessante.
Dopo la notte passata in solitaria in mezzo alla palude, l’aurora si mangia le tenebre un poco alla volta e sulla campagna emiliana piomba il mattino gelido. Di questo parla "Angelo della nebbia". Chitarre dilatate e colpi di batteria quasi marziali innalzano un muro che fa da colonna sonora a immagini di un realismo crudo, che ricorda i racconti di Breece D'J Pancake o i romanzi Raymond Carver: vestiti umidi di contadini ricurvi, fette d’asfalto dal fondo ceduto, lepri che si fermano in mezzo a una strada deserta. “Angelo della nebbia” è un’invocazione a braccia aperte, rivolta a una figura sovrumana, quasi mitologica, a cui si chiede di battere un colpo, lì dove è più difficile essere visti ed essere sentiti.
Il mito americano a cui attinge Ligabue, tuttavia, non è soltanto quello degli Stati Uniti rurali, è anche quello che parla un linguaggio diverso, che si muove con un’energia differente, che si veste con abiti appariscenti. Il sogno americano di Ligabue è quello che passa attraverso le onde delle radio libere e le immagini proiettate dentro un cinema di periferia, canoni così distanti che soltanto uno stolto o un sognatore come lui potrebbe ritenere applicabili al contesto della provincia italiana. Il rock’n’roll dritto di “Marlon Brando è sempre lui”, trainato dall’hammond di Paolo “Feiez” Panigada, è preceduto proprio da uno spezzone del film “Un tram che si chiama desiderio” del 1951 e racconta la serata di una giovane coppia, che prima va al cinema e poi a fare l’amore. Con un cambio di scena dal sapore cinematografico, il fascio di luce del cabriolet sull’asfalto diventa quello del proiettore sul grande schermo, fonte a cui si abbeverano “gole secche per la sete d’eroi”. Vent’anni dopo, proprio su un maggiolone, Freccia - protagonista del primo film del cantautore emiliano - ascolterà “Sweet Home Alabama” di Lynyrd Skynyrd, in sosta tra le campagne di Brescello, perché l’universo raccontato da Ligabue è costellato da una manciata di elementi ricorrenti e da personaggi che lui stesso conosce, ha conosciuto o potrebbe conoscere.
Il blues-rock di “Bar Mario” - trascinato poderosamente dal riff ideato da Bruno Pederzoli, chitarrista degli Orazero - è un vero e proprio almanacco di questi personaggi, che entrano, escono e stazionano - anche per tantissime ore - in un qualsiasi bar della bassa padana. Sebbene ispirato al Bar River di Mario Zenni a San Martino in Rio, quello raccontato da Ligabue è un luogo simbolico, un ritrovo per la fauna umana di periferia, il crocevia delle storie del borgo che Ligabue conosce bene e che per questo, con stile scarno, in perenne equilibrio tra metrica e prosa, è l'unica cosa che è in grado di raccontare.
“Non è tempo per noi” è invece uno dei pochi pezzi generazionali - se non forse l’unico - dell’intera discografia di Ligabue, che con il suo folk-country in stile Neil Young parla in prima persona plurale, esprimendo - stavolta sì - un concetto anziché una storia. La versione incisa nel disco risentirà molto dell’influenza di Claudio Dentes e di Stefano De Carli, che con banjo e slide guitar conferiranno al pezzo un sapore peculiare nel contesto del disco. La band, poco incline a uscire dal seminato, e per questo poco soddisfatta del sound del brano inciso sul disco, rovinerà la canzone pochi mesi dopo, diffondendo un live-remix decisamente più rock e conformista. La sorella “Sogni di rock’n’roll” è una ballata acustica dal sound languido in stile The Smiths, che Ligabue scrisse una domenica qualsiasi ripensando a un sabato qualunque tra i migliaia passati a bere, a ballare e ad ascoltare rock con la solita compagnia di brigata.
Il disco, splendidamente riuscito, renderà Ligabue popolare in tutto il paese. Al suo interno anche “Radio Radianti”, il pezzo più hard del lotto, “Bambolina e Barracuda”, a metà tra recitato e cantato e ispirata dal balbettìo di “Ba-ba baciami piccina”, “Figlio d’un cane”, parente punk della versione già incisa da Pierangelo Bertoli, e “Piccola stella senza cielo”. L'arrangiamento ammaliante e ipnotico di quest'ultima riesce a rendere accettabile un testo piuttosto melenso, che diventerà un classico della musica popolare italiana. Alla versione originale, chiaramente influenzata dagli U2 di “With Or Without You”, si aggiungeranno altre due apprezzabili varianti: quella acustica di Su e giù da un palco (1997) e quella elettronica di Giro d’Italia (2003).

Non si può sempre perdere

Vieni qua, che potrai galleggiare
a due dita soltanto dal fondo,
ma, se ti mancherà l'aria,
ti affitto l'America

liga_2Lambrusco coltelli rose & popcorn (Wea), esce nel settembre del 1991 ed è figlio della prima parte del Neverending Tour, una lunga serie di tappe che andrà avanti fino alla promozione del terzo disco. A differenza dell’esordio, il secondo album viene registrato in un ambiente più confortevole - al Medicina Blanche di Modena - contando su un ventaglio di strumenti più ampio e su una band - la stessa - che ora ha pure un nome: Clandestino. Con il suo secondo album, Ligabue codifica, sin dal titolo, quanto già abbozzato con l’esordio discografico. Se Ligabue è la prova generale, Lambrusco coltelli rose & popcorn è la messa in scena, ossia la declinazione, più cosciente, più ragionata e più sofisticata, di quanto già raccontato.
Il disco attinge dal catalogo folk-country americano in maniera più spregiudicata, come testimoniano “Camera con vista sul deserto”, “Ti chiamerò Sam (se suoni bene)” e la conclusiva “Regalami il tuo sogno”. La prima, in particolare, si apre con una slide guitar che introduce la voce quanto mai espressiva di Ligabue, che, in un crescendo di dimensioni quasi elegiache, si insinua tra le trame di una ballata sinuosa, persino western nei tratti in cui l’armonica a bocca di Massimo Lugli squarcia in due il dramma di vivere in un mondo così insignificante, da apparire arido e riarso. “Camera con vista sul deserto” è con ogni probabilità la canzone più sottovalutata dell’intera discografia di Ligabue, nonché la più audace mai scritta dal cantautore emiliano. Il brano, con tanto di spazzole ad accarezzare i tamburi, impreziosito da un testo sorprendentemente poetico e raffinato per i canoni dell'artista, rappresenta anche l’unico tentativo di Ligabue di esplorare territori vagamente jazz.
La canzone d'apertura del disco, “Salviamoci la pelle!!!!”, ripropone le sonorità e le tematiche dell’esordio. C’è il riff che comanda il brano, come in "Balliamo sul mondo", e c'è la necessità di fuga di una coppia che ha sogni più grandi di quelli che le può offrire un paese di provincia. Un tentativo di evasione che passa, finalmente, dall'intellettuale (i miti del cinema americano in "Marlon Brando è sempre lui") al reale, per scardinare un destino che pare ineluttabile, come cantava con quattro anni d'anticipo Tracy Chapman in "Fast Car" (“any place is better, starting from zero, got nothing to lose”). Dieci anni prima Lucio Dalla raccontava il desiderio di evasione con queste parole: “Ma dimmi tu dove sarà, dov’è la strada per le stelle, mentre ballano si guardano e si scambiano la pelle, e cominciano volare”; Ligabue, con il suo striminzito vocabolario poetico non può che scrivere versi come questi: “Poi lei si volta per un momento, guarda quel posto ed accenna un ciao, lui a quel posto gli sputa contro e spinge sul gas”. È il linguaggio crudo e diretto di chi non vuole - e forse non sa - scrivere meglio di così, ma è un linguaggio che si confà al vocabolario del rock e tanto basta a chi il rock lo ama.
"Lambrusco & popcorn” oscilla tra la realtà - il “bicchiere di vigna” - e il solito sogno a stelle e strisce - il “vassoio di mais già scoppiato”. Nulla di nuovo sotto il sole, ma Ligabue, traccia dopo traccia, sta alimentando il suo universo narrativo, aggiungendo topoi, simboli e personaggi. La canzone è influenzata - per stessa ammissione di Ligabue - dai finali di brani in stile Simple Minds, ossia “diversi” rispetto alla struttura principale, e dalla decisa volontà di scrivere una sorta di refrain da arena, che potesse trascinare il pubblico durante i concerti. L’effetto desiderato, tuttavia, il cantautore di Correggio lo ottiene con un altro brano, “Urlando contro il cielo”, già pronto nel 1990, ma misteriosamente escluso dal debutto discografico. Gran parte di quello che Ligabue è in grado di trasmettere al pubblico - con le parole, così come con la musica - si trova all’interno di questa canzone: una fuga lungo l’Autostrada Adriatica, tra suoni e odori intensi; la frustrazione per giorni passati a contare le ore e ad aspettare un weekend; il solito invito a ballare sul mondo, a stringersi prima di perdersi, a servirsi della forza inaspettatamente sovversiva del sapersi accontentare (“se è un purgatorio è nostro, perlomeno”). “Urlando contro il cielo” è un colpo di coda prima della fine, è un balsamo per i perdenti, è Bruce Springsteen che canta in italiano ed è dalla tua stessa parte.
In ogni caso, il punto più alto di Lambrusco coltelli rose & popcorn è senza dubbio la sua parte centrale. Il primo - e non unico - tributo del cantautore a Fellini, ossia il motivetto di "Amarcord" fischiettato in una stanza vuota, fa da intro a “Sarà un bel souvenir”, la prima canzone di Ligabue cupa e pervasa da una nostalgia difficile da lenire, che sembra anticipare le atmosfere e i colori dell’album successivo, Sopravvissuti e sopravviventi. In un passaggio della canzone, Ligabue paragona la forza emotiva suscitata dalla visione di un souvenir a un tir che procede a 120 chilometri all’ora. Forse è anche l’urgenza di trovare una rima improbabile (“un souvenir, formato tir”), che lo porta a citare un autotreno in una canzone romantica, ma l’accostamento è perfettamente in linea con il codice prosaico di Ligabue. L’assolo di chitarra elettrica al centro del brano è - come giustamente dichiarato dallo stesso artista emiliano - l'interpretazione più bella della carriera di Max Cottafavi.
Nella traccia successiva, di transizione, il coro di Monte Cusna (Reggio Emilia) canta in gregoriano la conclusione del Padre Nostro. Si tratta di un escamotage per introdurre la chitarra di Cottafavi che squarcia il silenzio, come la lama di Fontana su una tela di lino, con una spregiudicatezza in pieno stile Guns’n’Roses. Ligabue affronta una tematica per lui inedita, ossia quella della libertà personale e dei condizionamenti dovuti ai canoni diffusi da società e religione, creando quasi un parallelismo con “Proibito” dei Litfiba, singolo uscito qualche mese prima, che, tuttavia, si differenzia dal vocabolario prosaico di Ligabue per un maggior livello di trasgressione e di trivialità.
Lambrusco coltelli rose & popcorn è un album che riesce quasi a eguagliare la qualità del suo predecessore, sebbene, a differenza di quest'ultimo, soffra di qualche raro passaggio a vuoto. A detta dei numeri e della critica non è una consacrazione, ma una conferma. Il chiaro segnale di qualcosa che esiste e non per un fortuito incontro di favorevoli fattori. O perlomeno, non soltanto.

Il crollo
Adesso il freddo è reale
è passato alle ossa uscendo per forza dal cuore

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Dopo l’uscita del secondo disco le vele di Ligabue e dei Clandestino si gonfiano di vento propizio. Il Neverending Tour continua a macinare tappe e quasi a ogni città una parte del pubblico è costretta a rimanere fuori dai club. “Urlando contro il cielo” è diventato un tormentone, senza neppure uscire come primo singolo del disco. Alla destra di Ligabue c’è sempre Angelo Carrara, mentre alla sua sinistra si muove solerte Claudio Maioli, impegnato soprattutto a riscuotere i cachet dei promoter, spesso in condizioni avverse. Il primo non vede di buon occhio il secondo e cerca di convincere Ligabue a disfarsene, ma invano.
L’eccitazione del momento spinge Ligabue e i Clandestino a registrare subito un nuovo disco. Il primo mix viene rifiutato dalla Wea: le sonorità sono troppo hard, le tonalità troppo cupe, la voce di Ligabue poi è ammantata dagli strumenti e fa fatica a emergere. Quanto al rapporto tra voce e strumenti, il risultato che alla fine ne verrà fuori sarà diametralmente opposto: in Sopravvissuti e sopravviventi la voce di Ligabue sovrasta la band, sebbene i musicisti non accettino di buon grado l’idea di nascondersi. Il disco è un braccio di ferro - a livello più e meno inconscio - tra i Clandestino e Ligabue; i primi fanno prevalere i loro gusti musicali - più ruvidi e aggressivi rispetto a quelli del leader - mentre il secondo, per volere del produttore, si impone con una voce che sovrasta il resto degli strumenti, arrivando dritta alle orecchie dell’ascoltatore.
L’attacco di “Ancora in piedi”, prima traccia del disco, rivolge subito l’ago della bussola verso ovest, dall’altra parte dell’oceano. A Seattle, tra il 1990 e il 1992, la corrente revisionista del grunge ha raggiunto il suo apogeo: "Facelift", "Ten", "Nevermind", "Badmotorfinger" e "Dirt" sono solo alcuni degli album che in quel periodo influenzano Ligabue e i Clandestino durante le registrazioni di Sopravvissuti e sopravviventi. Le conseguenze sono evidenti. Prima c’è la distorsione corposa della chitarra di Cottafavi, poi il pieno e il vuoto, ad anticipare la voce di Ligabue: rauca, grave e irresistibile; il basso serpeggia, la grancassa segue possente, poi arriva l’esplosione, con tanto di tamburello a sonagli. È uno shock. Difficile pensare che si tratti della stessa band e degli stessi musicisti degli album precedenti. Uscito come singolo di lancio, “Ancora in piedi” sarà un mezzo flop, così come il disco in generale. Sul palco del Primo Maggio, a Roma, Ligabue suonerà “A.A.A. qualcuno cercasi”, riscuotendo tra il pubblico un successo maggiore.
L’affascinante artwork di Sopravvissuti e sopravviventi, anch’esso, come i primi due, ideato dal batterista Gigi Cavalli Cocchi, rivela perfettamente l’anima del disco: oscura e teatrale. Ligabue e i Clandestino neanche si vedono, il loro volto è coperto da maschere di animali e sul retro di copertina campeggia un elenco intitolato “La filodrammatica Ligabue presenta Sopravvissuti e Sopravviventi - Tragifarsa in due lati”. Poco sotto sono riportati gli interpreti: Veleno, Professore, Colera, Walter il Mago, Regina, Ramengo, tutti nel ruolo di “loro stessi”. Sono i soliti personaggi di Ligabue, stavolta inseriti in una struttura più definita: una sorta di concept-album.
“Dove fermano i treni” e “Lo zoo è qui” sono i brani più duri del disco: il primo - ispirato a un racconto di Pier Vittorio Tondelli, riferimento costante di Ligabue e anch'egli di Correggio - è un grunge che si sofferma sulle battaglie esistenziali di chi frequenta, a vario titolo, il non-luogo per eccellenza: la stazione ferroviaria; il secondo è un bestiario umano che si ricollega alla copertina del disco e che nella sua coda finale innalza un muro di chitarre e di tastiere in stile The Doors.
In Sopravvissuti e sopravviventi i personaggi della “tragifarsa in due lati” possono prendersi da soli anche tutto il palcoscenico. Infatti, se la già citata “Dove fermano i treni” e “Piccola città eterna” - prima canzone dedicata a Correggio - pennellano una carrellata neorealista in stile “Bar Mario”, “Walter il Mago”, “La ballerina del carillon” e “I duri hanno due cuori” narrano un’entità soltanto, attorno alla quale ruotano, come satelliti intorno al proprio pianeta, anime e oggetti: la storia del mago di periferia, in bilico tra mito e realtà, le serate di una spogliarellista nel locale in cui lavora, la squallida e triste notte di Veleno, a un passo dal suicidio. In particolare, dietro al rock melodico de “I duri hanno due cuori” si cela una delle canzoni più ispirate del Ligabue cantastorie (“un quarto alle due e Veleno è seduto sul ponte sul fiume a vedere la pistola affondare, adesso il freddo è reale, è passato alle ossa uscendo per forza dal cuore”). Grazie al parlato, in stile “Ballerina e Barracuda”, il cantautore emiliano può introdurre con dovizia di particolari la storia di Veleno, protagonista di un fallimento irrimediabile e antagonista di sé stesso, che l’unica cosa di cui può compiacersi, “in tutto questo perdersi”, è l’aver deciso, alfine e anche questa volta, di non togliersi la vita. A casa, “l’unico posto in cui possa tornare”, c’è la sua donna con un altro uomo. Bussando alla porta della camera, le chiederà di fare più piano e poi si sdraierà sul divano, stanco della vita più che della giornata trascorsa. Ligabue trasforma in canzone rock un racconto che sembra uscito da un libro di Bukowski, ma che in realtà ha scritto pensando a qualcuno che abita le sue strade, i suoi locali, il suo borgo. Si può dire che in questa fase della carriera Ligabue abbia il gusto, e certamente anche il buon senso, di limitarsi a fare quello che gli viene meglio. Con l'avvento del nuovo millenio questo buon senso verrà progressivamente meno.

ligabue93L’album non è accolto bene né dalla critica né dal pubblico. È troppo triste, ruvido, duro e per certi versi anti-radiofonico, non avendo singoli d’impatto nel proprio repertorio. Il relativo tour fa numeri drammatici, anche a causa di una sciagurata promozione. Scrive Ligabue nella sua autobiografia: “Cinque mesi fa, sulle stesse assi su cui adesso sono seduto, ci siamo esibiti a Milano davanti a dodicimila persone. Poche ore fa erano centoventi. Esattamente un centesimo. Sono tornato ad avere di fronte le stesse presenze dei primi concerti con gli Orazero (“Una Storia, autobiografia", Luciano Ligabue, Mondadori).
Con il passare degli anni Sopravvissuti e sopravviventi verrà rivalutato da pubblico e critica, passando dall’essere il disco del fallimento all’essere il capolavoro di Luciano Ligabue. Nessuna delle due affermazioni è vera. Sopravvissuti e sopravviventi è un disco che gode di una identità forte e di una omogeneità, dal punto di vista sonoro e stilistico che sarà possibile ritrovare soltanto in Buon compleanno Elvis, il capolavoro - questo sì - della carriera di Ligabue. Molte delle canzoni contenute in Sopravvissuti e sopravviventi, pur non essendo minimamente accostabili a una musica “sperimentale”, sono in un certo senso audaci e disegnano sonorità più complesse e coraggiose, se paragonate ai lavori precedenti (e anche a quelli successivi) di Ligabue. “Quando tocca a te”, ad esempio - quasi mai eseguita dal vivo - è una ballata marziale di speranza e coraggio, che sul finale, a sorpresa, vede la Asioli Jazz Band di Correggio marciare insieme a Ligabue verso uno scanzonato epilogo. Allo stesso modo, la perla dell’album, “Ho messo via”, mette insieme, all’interno di un blues che gira come un carillon, i riff di Cottafavi con bottleneck, il pianoforte da soffitta di Fornaciari - subentrato a Marani, tormentato dalla tossicodipendenza - e un intenso assolo di tromba di Demo Morselli.
Come in una qualsiasi pièce teatrale, dalle più prestigiose fino alle filodrammatiche, al termine dello spettacolo cala il sipario. Il drappo rosso, in questo caso, è la strumentale “Tema: sopravvissuti e sopravviventi”, in cui Ligabue sceglie uno strumento inusuale come il kazoo per abbozzare una melodia liberatoria in stile Ennio Morricone, che, dolcemente adagiata su un tappeto di fiati e di archi, squarcia il cielo cupo di Sopravvissuti e sopravviventi. Uno spiraglio di speranza forse, o semplicemente, il riposo perpetuo di un’anima e di un corpo.

(Non è) la fine del mondo

Appoggiati a me
che se ci dovesse andar male
cadremo insieme

ligabue_3Nel dicembre del 1993, sul palco del secondo raduno del fan club, un Ligabue semi-depresso - appesantito dal fallimento di Sopravvissuti e sopravviventi - annuncia di volersi prendere un anno sabbatico, lontano dalle scene. La promessa viene tradita nell’agosto successivo, quando esce il singolo “A che ora è la fine del mondo?”. Il sound del cantautore emiliano subisce una mutazione evidente. Non siamo ancora alle iconiche sonorità di Buon compleanno Elvis, ma i semi sono stati gettati. La rottura con i Clandestino e con Angelo Carrara - che ha perso il duello con Claudio Maioli - è totale e apparentemente insanabile. Rimane soltanto Fornaciari alle tastiere, per il resto la formazione che incide il nuovo singolo è completamente rimaneggiata e comprende, tra gli altri, Andrea Braido alle sei corde.
Dopo il singolo, inaspettatamente, Ligabue pubblica anche un disco di otto “schegge sparse”, ossia otto pezzi (in verità sei, se si escludono la sopracitata e “Urlando contro il cielo”, qui riproposta in versione live) già incisi ed esclusi, per vari motivi, dagli album precedenti. Scrive Ligabue nel booklet: “Questo non è il mio disco nuovo! I dischi nuovi sono fatti con pezzi nuovi. Queste sono invece canzoni che hanno (a parte un paio) mediamente sette-otto anni di vita. Mi andava di metterle insieme”.
A che ora è la fine del mondo? (Wea) non contiene alcun pezzo degno di nota, ad eccezione della title track - un ispirato rap-rock, nato di getto sulla base di “It's The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine)” dei Rem, dopo la prima elezione vinta da Berlusconi. Suona divertente "Gringo 94'" e quantomeno peculiare “Cerca nel cuore”, una ballata acustica scritta da Ligabue a quattro mani con Fornaciari, che riscuoterà un discreto successo nei live acustici.

Rivincita e consacrazione

Se sotto il cielo
c'è qualcosa di speciale
passerà di qui,
prima o poi

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Dopo la crisi, Ligabue torna a scuola. Lo fa a Budrio, in una elementare abbandonata vicino a Correggio. Decide di farsi affiancare da un nuovo produttore, Fabrizio Barbacci, con cui aveva già collaborato al brano “L’han detto anche gli Stones”, una delle “schegge sparse” contenute nel disco precedente. L’intuizione è vincente. Ligabue fissa come priorità assoluta la creazione di un gruppo affiatato e di un ambiente stimolante, che aiuti il processo di gestazione. In poco tempo, la scuola abbandonata di Budrio si trasforma in una sala prove che di sera accoglie artisti, spettatori e “personaggi” dei dintorni. I suoni si impastano e rimbombano, ma non è un problema; l’importante è suonare “stretti”, possibilmente con musicisti della zona: “Roby” Pellati alla batteria (Casalgrande, Reggio Emilia), “Rigo” Righetti al basso (Modena) e “Mel” Previte alla chitarra (modenese di adozione). Insieme a loro "Capitan" Federico Poggipollini, bolognese e già nel giro della musica mainstream, come chitarrista dei Litfiba in "El Diablo" (1990) e "Terremoto" (1993).

liga95Dalle sessioni di Budrio nascerà un album di quattordici tracce, che verrà registrato allo Studio Esagono di Rubiera, un ex-deposito di forme di Parmigiano a sei lati, situato a pochi chilometri dalla scuola. Con questo disco Ligabue diventa un fenomeno di massa. In Italia, a metà degli anni Novanta, quasi un italiano ogni cinquanta ha in casa una copia di Buon compleanno Elvis (Wea) e la ragione del successo è dovuta a tre elementi: le chitarre, ovvero il sorprendente affiatamento di Mel Previte e Federico Poggipollini, le intuizioni melodiche di Ligabue, ossia quattordici potenziali singoli su quattordici tracce, e l’eccelso lavoro di Fabrizio Barbacci. Nella copertina - diventata iconica - un bambino sorridente viene ritratto in bianco e nero, con una corona d’oro in testa. Sotto, una scritta in rosso dice Buon compleanno Elvis. In fondo al booklet Ligabue scrive: “Un sentito in bocca al lupo ai Clandestino e ad Angelo Carrara, sperando che, al più presto, ci venga facile ricordare solo i momenti belli”.
L’inizio è un pugno in faccia: grancassa e rullante secco. Le chitarre distorte di “Vivo morto o X” strisciano sincopate, mentre l’armonica a bocca e le percussioni nascoste di Candelo Cabesaz colorano il sound rendendolo quasi un passo marziale. La coda del brano è un crescendo trascinante, che si interrompe all’improvviso, quando l’incapacità cronica di conformarsi, di rientrare in caselle disegnate da qualcun altro, in sondaggi di opinione, in una quotidianità ostinata e per niente contraria, si trasforma nella necessità di nascondersi in luoghi familiari e sicuri: una notte, una campagna, da soli, lungo i fossi. “Seduti in riva al fosso” è la solita, trita e ritrita retorica di Ligabue, ma il risultato - inclusi due ottimi assoli di chitarra - è tra i più riusciti dell’intera discografia.
L’impresa di Ligabue, con Buon compleanno Elvis, è quella di riuscire a pubblicare un disco furbo e prodotto egregiamente, eppure ancora autentico, sincero e folkloristico. L’Esagono, ad esempio, è uno studio talmente
naif e bucolico che le sessioni di registrazione vengono spesso disturbate dalla fauna esterna, come il cinguettio degli uccelli di campagna o il gracidare delle rane che popolano i fossi delle campagne circostanti. Per Ligabue è esattamente così che deve andare. Ovunque si spingerà - e sarà così anche nella vita privata - che sia Graceland, Memphis o l’altro capo del mondo, alla fine Ligabue tornerà sempre dal posto in cui è partito. Non a caso, lo sconosciuto intro della sua immortale canzone “Certe notti” è un breve blues acustico messo lì ad “accontentare” le rane dei fossi di Rubiera, che tanto ci tenevano a entrare nelle sessioni di registrazione dell’album. Negli ultimi secondi di “Rane a Rubiera blues” il motore di una macchina passa e copre il rumore degli animali. Come dice Ligabue - anzi, come ripete per l’ennesima volta - non è importante dove quella macchina andrà, perché a volte, soprattutto di notte, ciò che conta è andare e basta, "inseguendo un odorino", per citare Tondelli. “Certe notti” è quindi “Sogni di rock’n’roll” cinque anni dopo, ma semplicemente e sbalorditivamente più bella. Il riff, ipnotico - ideato da Poggipollini ispirandosi a “Lucy In The Sky With Diamonds” dei Beatles - ti prende per mano e ti porta in giro per le campagne estive dell’Emilia, dopo cena, quando l'aria è finalmente fresca e tutto profuma in maniera diversa. Per apprezzarla in pieno - dopo tutti questi anni e tutti questi ascolti, volenti o nolenti - è necessario uno sforzo immane: dimenticarla completamente e quindi ascoltarla di nuovo, un'ultima volta.
Nel rock’n’roll incalzante della title track e della successiva “La forza della banda” Ligabue rivolge a tutti il solito invito a ballare - e ora anche a suonare - farcito per l’ennesima volta da riferimenti epici angloamericani e tradizional-nostrani: Reggio Emilia, le campagne, le parrocchie, Liverpool, Memphis, Nashville, Elvis, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin. È quello che Ligabue dice ormai da cinque anni a questa parte, solo che ora lo dice in maniera differente e la differenza sta nel vantaggio dell’esperienza - ora Ligabue sa davvero come si registra un disco - e nell’aver superato quegli anni Ottanta che lo stesso rocker emiliano, in “Ancora in piedi”, si chiedeva se mai se ne sarebbero andati. Il sound di Buon compleanno Elvis, infatti, è ora un rock anni Settanta dritto e privo di filtri: è Iggy Pop e Bruce Springsteen senza U2 e The Police.
Con la già citata “La forza della banda”, ma soprattutto con “Non dovete badare al cantante”, Ligabue affronta una tematica per lui inedita, ossia il ruolo dell’artista nella società, riproposta due anni dopo, in maniera ancora più diretta, con “Tra palco e realtà”. Nella parte finale del disco Ligabue canta così: "Non dovete badare al cantante, quello lì che si crede una star, quello lì che si crede uno che lasci il segno, e invece una volta passato chi si volterà?”. Sono parole di una sincerità disarmante, che suonano come un epitaffio scritto per sé stesso dopo il flop di Sopravvissuti e sopravviventi.
Il resto dell'album è un insieme di successi che porteranno Ligabue a diventare un eroe da palcoscenico, nonostante il suo carattere introverso: l’irresistibile e trascinante “I ragazzi sono in giro”, anch’essa, come “Sarà un bel souvenir”, introdotta da un omaggio a Fellini, la ballata “Viva!”, in cui Ligabue, per la prima volta, fa lo sforzo di mettersi a nudo e di raccontare in prima persona la sua relazione con una donna e “Quella che non sei”, un riuscito tentativo di esplorare il mondo femminile senza ricorrere a quella piaggeria e quella retorica che caratterizzeranno i brani di Ligabue sulle donne nel nuovo millennio.
In “Hai un momento Dio?” e “Il cielo è vuoto o il cielo è pieno” ritorna il tema religioso, già toccato in “Libera nos a malo”, ma ora sviluppato in maniera più personale e autobiografica. “Leggero”, infine, è l’epilogo perfetto, una canzone che entra nell’album all’ultimo istante, mentre le porte si stanno chiudendo. Scritta a mixaggio praticamente chiuso, la quattordicesima traccia di Buon compleanno Elvis è una delle più poetiche della carriera di Luciano Ligabue, una foto in cui si sono praticamente tutti: la Banda, le auto che dondolano di notte nelle piazzole di sosta, Elvis e i suoi fantasmi, il mago Walter, l’odore dei fossi e i ragazzi che "vagano" e "gironzolano". C’è persino Kay, mai nominata prima, ma protagonista di una canzone che uscirà quattro anni dopo. Sentirsi leggero, niente più, questo descrive Ligabue. Sul finale, a sorpresa, si uniscono tutti gli altri musicisti, quasi fosse la celebrazione di un sentimento comune, da onorare ognuno con il proprio strumento e, idealmente, per sempre. Buon compleanno Elvis, infatti, con la coda in fade-out di “Leggero” non finisce mai, semplicemente si allontana piano piano, come un’auto di notte, tra le campagne buie dell’Emilia. Senza andata né ritorno, senza destinazione.

Tra palco, successo e realtà

Quando sembra tutto fermo
la tua ruota girerà
sopra il giorno di dolore
che uno ha

ligamilanoNel maggio del 1997 viene dato alle stampe il primo live ufficiale di Ligabue, che documenta il passaggio dai palazzetti dello sport agli stadi. Su e giù da un palco - disponibile in doppio cd, doppia musicassetta e triplo Lp a edizione limitata - venne registrato in un modo piuttosto rivoluzionario per quel tempo, ossia con tecnologia digitale su nastro. La sua fortuna fu talmente grande da giungere inaspettata. Forse, a premiare fu la pazienza e la lunga attesa: sette anni di carriera e ben cinque album in studio alle spalle. In ogni caso, ancora oggi Su e giù da un palco è il disco live italiano più venduto della storia.
Nei ventinove brani totali sono inclusi, in ordine sparso, tre inediti registrati in studio: “Tra palco e realtà”, “Ultimo tango a Memphis” e “Il giorno di dolore che uno ha”. Il primo ragiona ancora sulla figura dell’artista, riprendendo le fila del discorso iniziato con “Non dovete badare al cantante”, ma conferendo al tutto un piglio da arena e una intro in stile “Baba O'Riley” degli Who. La seconda traccia è un altro tentativo di reinterpretare una canzone altrui - “Suspicious Mind” di Elvis Presley - stravolgendo sia il testo che la musica, sulla falsariga di “A che ora è la fine del mondo?”. Ligabue prova a mettersi nei panni di Elvis e parla in prima persona, chiudendo, dal punto di vista concettuale e sonoro, l’album del 1995.
La perla dell’album, tuttavia, è “Il giorno di dolore che uno ha”, dedicata al giornalista musicale Stefano Ronzani, dentro cui si scioglie il toccante tentativo di uomo, Ligabue, che vuole ancora dire qualcosa a un amico ormai prossimo alla scomparsa, quando anche parlare o farsi coraggio non ha più alcun senso. Nel giorno del suo compleanno Ronzani riceve un nastro registrato da Ligabue con l’incisione del brano suonato insieme alla Banda. Dopo averla ascoltata, chiederà a Ligabue di pubblicarla per non farla scomparire insieme a lui. “Il giorno di dolore che uno ha” è più che una splendida ballata, rappresenta il canto del cigno di Luciano Ligabue. Tutto ciò che segue la pubblicazione di questa canzone può infatti considerarsi un percorso di lento e inesorabile declino artistico. La ragione principale di questo costante declino è l’affrancamento dai luoghi tipici di Ligabue e quindi dai suoi soliti personaggi. D’ora in poi, Ligabue parlerà d’altro, pubblicando canzoni incentrate su tematiche universali quali la vita, l’amore, la società e le donne. Quando personali e intimamente cantautorali - e quindi, per forza di cose, autentiche - queste canzoni, eccezionalmente, saranno in grado di comunicare ancora qualcosa.

Ligabue "universale"

C'è chi mi vuole come vuole
un po' più santo, più criminale
un po' più nuovo, un po' più uguale

liga99Nel settembre del 1999 esce Miss Mondo (Wea). Mancano tre mesi al nuovo millennio e negli ultimi quattro anni Ligabue ha fatto uscire un libro di racconti brevi ("Fuori e dentro il borgo") e  "Radiofreccia", un film più che discreto con omonima colonna sonora al seguito. Gli ultimi gemiti artistici di Ligabue sono anche le ultime rappresentazioni di un mondo che il cantautore emiliano smetterà per sempre di raccontare. La strumentale “Radiofreccia” e il singolo “Ho perso le parole” - rispettivamente traccia iniziale e conclusiva del film - pongono una degna pietra tombale sulla prima fase della carriera di Ligabue, ossia quella che porta con sé un dignitoso valore artistico.
Vuoi per carenza di idee, vuoi per la fama, vuoi per l’età, Ligabue non è più in grado di raccontare ciò per cui aveva senso starlo ad ascoltare: le notti, la nebbia, i locali, i borghi e le anime che li abitano (“ho perso le parole, oppure sono loro che perdono me”). Pur provandoci timidamente - come con il fiacco blues di “E” - lo sforzo risulta del tutto vano. Raggiunto questo punto, sarebbe meglio smetterla del tutto e Ligabue ci pensa veramente, ma il destino di tante rockstar prevede che da un certo momento in poi, sebbene non si abbia più niente da dire, qualcosa lo si continui a dire lo stesso. A Ligabue, perlomeno, va dato il merito di non essersi trasformato in un papà vestito da figlio o, ancora peggio, in un nonno vestito da nipote e di aver accettato l’idea di diventare qualcun altro, di invecchiare, di non poter più vivere quei vizi che, come lui stesso cantava, “non vorresti smettere mai”.
Per forza di cose, quindi, Miss Mondo è l'album in cui, per la prima volta, Ligabue parla davvero di sé, senza frapporre tra lui e il pubblico la storia di qualcun altro oppure l'appartenenza a una generazione o a una categoria. Se questo finora era avvenuto raramente e comunque in maniera timida (“Ho messo via”, “Seduto in riva al fosso” e “Hai un momento Dio?”) in questo disco diventa la prassi e il risultato è a volte accettabile, come nell'autobiografica “Da adesso in poi” - una ballata di pianoforte in stile John Hiatt, dedicata alla nascita del suo primogenito - a volte meno, come nella sterile “Uno dei tanti”, che gira su slogan vuoti e sconnessi tra loro, messi lì affinché il fan di turno possa liberamente riempirli con i propri trascorsi e con il proprio vissuto. Che ciò sia il risultato di una siccità ispirazionale è lo stesso Ligabue a confessarlo, nell’unico passaggio della canzone che porta con sé un significato reale: “Non ho un granché da dire, ma quello mi viene bene”. Non si può dire che Ligabue abbia torto, in entrambi i sensi. Nell’ottica mainstream della diffusione radio-televisiva, infatti, Miss Mondo è un disco prodotto egregiamente e venderà più di mezzo milione di copie, lanciato da un singolo - “Si viene e si va” - tutto sommato dignitoso, che, a conti fatti, rappresenta la parte migliore dell'opera, insieme alla acustica e orchestrale “Kay è stata qui”, un pezzo sulla tossicodipendenza magistralmente arrangiato e sorprendentemente intenso, impreziosito da una chitarra a 12 corde e da una sezione d’archi che ricordano “Iris” dei Goo Goo Dolls, uscita l’anno precedente.
La strizzata d’occhio nazionalpopolare, in cui Ligabue parla di sé con falsa modestia, non può che consistere in una metafora sul calcio, un linguaggio che in Italia comprendono praticamente tutti. In passato Ligabue aveva soltanto sfiorato il tema calcistico (“Quando tocca a te” e “Hai un momento Dio?”), ma mai come in “Una vita da mediano” lo aveva messo al centro della canzone. Il brano sembra un plagio di “Walkaways” dei Counting Crows, una canzone contenuta in “Recovering The Satellites”, album da cui, non a caso, Ligabue estrapolerà “Angels Of The Silences” per la colonna sonora del suo secondo film, “Da zero a dieci”.
Nel videoclip di “Almeno credo”, terzo singolo estratto dal disco, fanno la loro apparizione personaggi della tv e dello spettacolo come Giobbe Covatta, Luciana Littizzetto, DJ Ringo e Vanessa Incontrada, a testimonianza del fatto che ormai Ligabue - deposti i gilet e le giacche luccicanti - è una star dello showbiz, che inizia a parlare di sé, abbandonando la prima plurale e affidandosi insistentemente alla prima singolare, sebbene non abbia sempre qualcosa di rilevante da raccontare (“Forse mi trovo” e “Sulla mia strada”).

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Tra il 1999 e il 2002 Ligabue gira l’Italia insieme alla Banda, riempiendo stadi e palazzetti. Pochi mesi prima della pubblicazione del suo settimo album in studio, nel febbraio del 2002, esce il suo secondo film: “Da zero a dieci”. L’ambientazione della pellicola - Rimini e Riccione ammantate dalla malinconia di una giovinezza svanita - viene ripresa anche nel videoclip del singolo di lancio di Fuori come va? (Wea), “Questa è la mia vita”, un pop-rock con chitarre in primo piano. Ligabue ha ormai completato la sua trasformazione in creatore seriale di singoli radiofonici. Non che prima la sua musica non fosse diretta e pensata per raggiungere il maggior numero di persone possibili, ma ora sembra essere svanita qualsiasi urgenza comunicativa sottesa alla scrittura. L’unica cosa che conta è vendere dischi e vendere biglietti. Questo porta Ligabue a scrivere brani insignificanti o, nella peggiore delle ipotesi, orrendi. “Il campo delle lucciole” è probabilmente la canzone più brutta mai scritta dal cantautore emiliano in dodici anni di carriera: è Ligabue che copia Ligabue, peraltro male. La linea vocale della strofa è impietosamente simile a “Balliamo sul mondo” e l’ambientazione, pur riprendendo i temi del primo Ligabue, risulta pateticamente vuota e impersonale: una notte d’estate con una donna in campagna, sotto alla vigna.
“Nato per me” e “In pieno rock’n’roll”, che suonano di canzoni scartate da Buon compleanno Elvis - non a caso, Barbacci è nuovamente alla guida della produzione - non riescono a fare peggio giusto perché leggermente più accattivanti da un punto di vista melodico. La seconda, peraltro - palesemente ispirata a “Baba O’Riley” degli Who, canzone che rappresenta una sorta di ossessione per Ligabue - paga lo scotto di aprire un filone tematico populista e demagogico, che purtroppo sarà tanto caro al Ligabue del nuovo millennio: la forza salvifica della musica rock.
Nel complesso, con Fuori come va? Ligabue fa un passo oltre il sound più eterogeneo e riflessivo di Miss Mondo, tornando a un rock da arena, ideale per l'esecuzione dal vivo e, per la prima volta, arricchito da inserti elettronici. Scrollandosi di dosso la fatica della produzione - che nel precedente album aveva deciso di accollarsi nuovamente, dopo la pausa di Buon compleanno Elvis - si avvale del contributo di Fabrizio Simoncioni alle tastiere (già presente in Miss Mondo, ma ora più determinante) e, come detto sopra, di Fabrizio Barbacci.
Le atmosfere quasi orientaleggianti di “Eri bellissima”, che si intrecciano con sincera tensione autobiografica attorno a tonalità minori, sono, insieme alla ballata conclusiva “Chissà se in cielo passano gli Who” e a “Tutte le strade portano a te”, commoventi colpi di coda di un artista messo al tappeto dal proprio vuoto ispirazionale. Quest’ultima, in particolare, suona sorprendentemente sincera ed è caratterizzata da un ambizioso arrangiamento, che ricorda la tensione romantica di “Camera con vista sul deserto”, aggiungendo a questa, tuttavia, un tratto più autobiografico, un vero ritornello e - grazie allo sforzo creativo di Poggipollini - delle sonorità che suonano quasi shoegaze.

Oltre i record

Sono qui per l'amore,
per riempire col secchio il tuo mare
con la barca di carta
che non vuole affondare

ligateatro2_01Nei primi anni del 2000 Ligabue è tra gli artisti italiani viventi di maggior fama. Qualsiasi idea abbia, qualunque iniziativa intraprenda, il successo, almeno in termini commerciali, è garantito. Tra il 2002 e il 2003 decide di eseguire due concerti per ogni tappa del tour: uno nel palasport della città e uno nel relativo teatro. Le date nei teatri vengono registrate per dare alle stampe un disco live. Giro d’Italia (Wea) esce a fine 2003 in due versioni: disco doppio contenente 21 brani e disco triplo a tiratura limitata, contenente 11 tracce aggiuntive. Dopo Su e giù da un palco si tratta del secondo disco di Ligabue registrato dal vivo e contiene il frutto di un lavoro di riarrangiamento in chiave acustica, arricchito dal contributo di Mauro Pagani (Premiata Forneria Marconi) e dagli inserimenti elettronici del compianto D.RaD (Almamegretta). Il risultato è a tratti pregevole. Si distinguono soprattutto le riproposizioni dei brani più risalenti, come “Piccola stella senza cielo”, che fluttua su un tappeto di armonici e campionamenti, “Walter il mago”, in perfetto equilibrio tra moderno (elettronica) e tradizionale (bouzouki), “Camera con vista sul deserto”, sinistra e spettrale grazie al lavoro di Pagani al violino, e “Angelo della nebbia”, dall’incedere glaciale e dilatato, quasi elegiaco.

Dopo una pausa di circa due anni, interrotta soltanto dall'uscita del suo secondo libro "La neve se ne frega", nel 2005, per il quindicesimo anniversario di carriera, Claudio Maioli propone a Ligabue un’idea mastodontica: realizzare un concerto al Campovolo di Reggio Emilia, costruendo un’area delimitata da quattro palchi, attraverso cui mettere in scena quattro stage differenti, su cui saliranno tutti i musicisti con cui Ligabue ha collaborato nella sua carriera - dai Clandestino alla Banda, passando per Mauro Pagani. Da un punto di vista tecnico e sonoro il set sarà un flop, ma non se ne parlerà molto, perché registrerà, a pochi giorni dall’uscita del nuovo album, il record europeo di spettatori paganti per un concerto tenuto da un singolo artista.

Cinque giorni dopo Campovolo, esce Nome e cognome (Warner Music Italia), il disco più scheletrico e diretto di Luciano Ligabue. Le chitarre tornano a essere protagoniste, anche grazie all'ingresso di Niccolò Bossini (Reggio Emilia), che disegna linee differenti rispetto a quelle già sentite con Mel Previte e Poggipollini, come nella parte finale di "Vivere a orecchio", un hard-rock in tonalità minori che ricorda Sopravvissuti e sopravviventi, ma senza quella decadente lacerazione dell'essere.
Gli episodi migliori del disco sono tre ballate, una sull'amore, una sull'amicizia e una sulla vita. Le prime due, "L'amore conta" e "Lettera a G.", sono dedicate a due persone precise: la ex-moglie di Ligabue e il cugino prematuramente scomparso, a cui il cantautore era particolarmente legato.
In "Lettera a G." torna quindi il dolore di una perdita, come quella dell'amico-giornalista Ronzani nel 1996, anche se a prevalere stavolta non sono rabbia e tristezza, ma nostalgia e malinconia. La missiva dedicata al cugino raccoglie, infatti, una carrellata di momenti, suoni e dettagli di un passato che odora di casa e di borgo (“non si affaccia più tua madre alla finestra, a urlare tòt a cà”). “L’amore conta” raccoglie i cocci di un matrimonio finito, ma lo fa rivolgendosi alla partner con uno sguardo di affetto e serenità (“quante briciole restano dietro di noi, o brindiamo alla nostra o brindiamo a chi vuoi”); l’inizio del brano - con palm mute, basso corposo e linee vocali gravi - lascia credere, finalmente, che le parole di Ligabue escano dalla pancia.
“Sono qui per l’amore” è un fluire poetico che gioca sul differente significato della preposizione "per", che - a seconda delle interpretazioni e delle circostanze - può essere causa e può essere effetto. La chitarra del nuovo arrivato Bossini dipinge con tratto gentile un rivolo in stile The Edge, mentre le parole di Ligabue si perdono in un flusso di coscienza che fa quasi gridare al miracolo. Il miracolo è che nel 2005 Ligabue riesce a dire ancora qualcosa, quando sente davvero l'urgenza di farlo. È un principio talmente semplice da sembrare scontato e automatico, invece non lo è. Non tutti riescono a trasmettere quello che vogliono dire, anche quando ne hanno estremo bisogno. Evidentemente Ligabue ancora sì. Il problema emerge in tutti gli altri casi.
“Happy Hour” è un brano inascoltabile e suona come un pezzo in stile Guns N'Roses, scritto appositamente per una campagna pubblicitaria italiana. “Le donne lo sanno” è un rock da autogrill, che sostiene con vivida piaggeria la superiorità del genere femminile perseguendo un fine esclusivamente adulatorio, palesemente rivolto alle orde di donne che compongono l’ormai trentenne, quarantenne e cinquantenne pubblico di Ligabue. “Il giorno dei giorni” funziona in radio esattamente come funzionava “Si viene e si va”, ma non parla di nulla. Il significato è inconsistente e il risultato è indecifrabile tanto quanto l’intenzione. Cos’è il giorno dei giorni? Viene il dubbio che il brano sia stato appositamente scritto con il fine di creare uno spot per l’evento dei record di Campovolo, che peraltro, guarda caso, iniziò proprio con l’esecuzione di questo brano.
Il resto del disco è davvero poca cosa e non aggiunge nulla al Ligabue “universale” già ascoltato in Miss Mondo e in Fuori come va?, a parte tre quarti d’ora di musica in più e circa mezzo milione di copie vendute.

Dai cinquant'anni in su

E allora avanti un altro
e con quello che guadagni stai muto
avanti pure un altro
con quello che guadagni, sorridi nella foto

mondovisioneNel 2010 Ligabue spegne cinquanta candeline e, dopo un lustro di pausa, pubblica Arrivederci, Mostro! (Warner Music Italia), prodotto da Corrado Rustici (Zucchero, Elisa e Negramaro). L’album si distingue dai precedenti tre del Ligabue “universale” per una produzione patinata e ipertrofica e, soprattutto per la voce del cantautore di Correggio, che suona più “pigra” e invecchiata. La formazione - per la prima volta in carriera - è composta da musicisti che non appartengono alle sue due storiche band. Bossini e Poggipollini intervengono a intermittenza, mentre si uniscono il producer Rustici alle chitarre, Michael Urbano alla batteria, Kaveh Rastegar al basso e Luciano Luisi e Josè Fiorilli alle tastiere.
Ligabue studia, osserva e ascolta. Cerca di decifrare la musica che cambia insieme al tempo che scorre e in questo tempo prova a starci dentro, coinvolgendo persino suo figlio Lenny, giovane batterista in rampa di lancio. Lo sforzo è percepibile: “Taca banda” è un divertissement à-la “Rainy Day Women #12 & 35” di Bob Dylan, che Ligabue non aveva mai provato a scrivere prima; “La verità è una scelta” affronta temi vagamente politici servendosi di elettronica, distorsioni metal e una tavolozza di colori cupi; “Caro il mio Francesco” è un flusso di coscienza notturno ed epistolare sull’industria musicale, che ha come interlocutore immaginario l’amico e collega Francesco Guccini; “Quando mi vieni a prendere” rappresenta il primo tentativo di Ligabue di raccontare un episodio di attualità: la strage di Dendermonde vista dagli occhi di un bambino che l’ha vissuta.
Il risultato provoca quel senso di tenerezza che si prova dinanzi a chi, pur fallendo, dimostra di aver fatto un tentativo. Quando Ligabue non si sforza neppure di provarci, scrive pezzi come “Il meglio deve ancora venire” e “Quando canterai la tua canzone”, ossia brani di rock’n’roll artificiale, perfetto, asettico, fatto in laboratorio, con tanto di wah-wah, distorsioni corpose, bassi potenti, batterie vibranti, ma - e questo è il problema - completamente vuote.
La musica di Arrivederci, Mostro! è una grande montagna che partorisce un minuscolo topolino e quel topolino racconta, con voce stanca, storie farcite da una retorica imbarazzante (come nella ballata “Il peso della valigia”), che, proseguendo sul solco tracciato da Fuori come va? e Nome e cognome, si concentrano soprattutto sulla funzione salvifica della musica e sulla superiorità del genere femminile.
“La linea sottile” prova a strappare il primato di canzone più brutta della carriera a “Il campo delle lucciole” e quasi ci riesce, per via del suo orribile testo e di una linea vocale tediosa; “Atto di fede” è un post-punk revival in stile Editors con un testo jovanottiano e un ritornello immediato, a prova di radio. “Ci sei sempre stata” prende in prestito da "Hoppípolla" dei Sigur Rós l’intro di tastiere e - sebbene impreziosita da lungo assolo finale di Corrado Rustici - ha un sound che va in una direzione opposta rispetto al messaggio. Ligabue, infatti, è un cantante di musica leggera che continua ancora a suonare rock: così facendo non si rende credibile né come cantante di musica leggera, né come rocker.

Quantomeno, nel successivo Mondovisione (Warner Music Italia), uscito nel 2013, Ligabue decide di limitare i suoni più aggressivi, pubblicando un album prevalentemente composto da ballate, sebbene risulti molto simile al predecessore, sia in termini qualitativi, che di formazione, arrangiamento e contenuti. Anche qui risuona la solita blandizia al genere femminile, come in “Tu sei lei” (gemella di “Ci sei sempre stata”), “Il volume delle tue bugie” e “Siamo chi siamo”, quest’ultima condita da citazioni più o meno dotte (Dante, Eraclito, Carducci e chi più ne ha più ne metta); c’è l'ennesima apologia del rock, visto come solito strumento di salvezza esistenziale (“Con la scusa del rock’n’roll”). “La terra trema, amore mio” è, dopo “Quando mi vieni a prendere”, il secondo prescindibile tentativo di Ligabue di trattare un fatto di cronaca: il terremoto in Emilia del 2012.
Non manca neppure la retorica da diario delle superiori, come nella tediosa ballata “La neve se ne frega” e nella conclusiva “Sono sempre i sogni a dare forma al mondo”. Lo scarto tra i versi di quest’ultimo brano e quelli dell'apprezzabile “Ciò che rimane di noi” è evidente, così come la ragione di questa enorme differenza: nel primo caso Ligabue si inerpica sulle ripide e pericolose vette dei “massimi sistemi” (la vita, il mondo, l’uomo, la speranza, i desideri), nel secondo descrive l’abisso di una perdita - quella del proprio figlio - vissuta sulla sua pelle e su quella della compagna (toccante il passaggio dei regali di Natale che vengono donati senza alcun biglietto, durante un periodo di festa vacuo e inopportuno, praticamente impossibile da celebrare).
Se c’è qualcosa che Ligabue ha dimostrato di saper raccontare tramite canzoni, libri e film, quel qualcosa è tutto quello che si trovava vicino a lui. Se non è più possibile cantare ciò che una volta lo circondava (le campagne, i borghi) e quello che lui stesso incarnava (il sogno americano, il desiderio della fuga, lo spirito di rivalsa), la speranza è che perlomeno - se proprio deve - Ligabue parli di Ligabue, come in “Per sempre”, dove descrive piccoli dettagli di vita vissuta (“mia madre che prepara la cena cantando Sanremo, carezza la testa a mio padre, gli dice vedrai che ce la faremo”).

Nei dieci anni successivi, Ligabue pubblica quattro dischi, di cui uno, 7, consiste in una raccolta di brani rimasti fuori da Buon compleanno Elvis, Miss Mondo e Nome e cognome. L’idea è simile a quella con cui Ligabue nel 1994 raccolse le “schegge sparse” lungo il suo allora breve cammino, con la differenza che in questo caso i pezzi non sono sempre completi e pronti alla registrazione. Nonostante modifiche e aggiunte postume, in alcuni episodi si percepisce ancora la vitalità e l’ispirazione del Ligabue di fine anni 90, impossibile da rintracciare negli ultimi Made In Italy, Start e Dedicato a noi, che non aggiungono nulla ai primi vent’anni di discografia del cantautore di Correggio.

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Ormai Ligabue pubblica dischi per continuare a realizzare tour ed eventi. Il bisogno non è più quello di raccontare - non lo è più da molto tempo - ma di continuare a “sentirsi vivo” e per Ligabue “sentirsi vivo” significa suonare di fronte al proprio pubblico. Anche quando avverte il bisogno di scrivere, ciò che genera deve passare attraverso il filtro del “sistema” che lui stesso alimenta. Made In Italy (Warner Music Italia), ad esempio, secondo le volontà dell’autore, doveva consistere in un doppio concept formato da ventotto brani in sequenza, simile a una sceneggiatura attraverso cui raccontare la storia di Riko, un italiano sulla cinquantina alle prese con le difficoltà e le fatiche della vita. L’idea fu ovviamente bocciata dall’entourage di Ligabue, che convinse quest’ultimo a dividere l’opera in due album con uscite dilatate nel tempo e intervallate dalla realizzazione del suo terzo film, ispirato alla storia di Riko. Il film poi verrà effettivamente realizzato, mentre la seconda parte di Made In Italy, per vicissitudini varie, non verrà mai registrata.
Ciò che ne deriva è quindi un album “monco” rispetto alle intenzioni dell’autore, che ammicca più o meno spudoratamente al funk, al soul e allo ska, distinguendosi quindi per un sound più variegato rispetto ai successivi Start (Warner Music Italia) e Dedicato a noi. Al netto della title track - una brutta copia del singolo “Buonanotte all’Italia”, incluso nell'antologia del 2007, Primo tempo - il filo conduttore dell’album, ossia la storia di Riko, scongiura la presenza della solita retorica di Ligabue, condita dagli usuali ammiccamenti verso soggetti vari, che invece tornano con insistenza negli altri dischi. In Start, ad esempio, “Certe donne brillano” è la copia di “Le donne lo sanno” scritta quindici anni dopo, perfetta per essere pubblicata su Facebook da mogli divorziate o quarantenni deluse in cerca di riscatto.
In Dedicato a noi (Warner Music Italia) Ligabue si spinge persino oltre, omaggiando Roma con un brano - “Una canzone senza tempo” - pieno di cliché e luoghi comuni, che testimoniano l'inesistenza di una intima e sincera connessione tra l'autore e la Capitale (“Totti ovunque alle pareti, [...], il tassista maledice le famose buche, qualche autobus va a fuoco, ma da sopra Monte Mario, guarda che presepio”). Con "Così come sei" Ligabue arriva addirittura a citare sé stesso, mettendo in scena una sorta di sequel di "Salviamoci la pelle!!!", in cui i due protagonisti, braccati da un destino "scritto da altri, altre vite fa" ce l'hanno fatta e si trovano ancora insieme, trent'anni dopo ("ci siamo salvati la pelle oramai, e i figli ce la fanno senza di noi, da sempre e per sempre ti voglio così come sei"). Ad un certo punto, i due protagonisti volgono lo sguardo verso Reggio Emilia, dalla collina in cui si trovano, nei pressi di Albinea. Quando una storia potrebbe accadere ovunque, c'è bisogno di fare i nomi dei luoghi per posizionarla nello spazio e ancorarla a un immaginario e a un contesto ben preciso. Nei primi anni di carriera Ligabue non aveva bisogno di specificare dove fosse ciò che raccontava. Le sue storie, le sue descrizioni, i suoi personaggi facevano parte di un mondo inequivocabile in quanto "tipico" e "tipico" in quanto suo, condiviso da lui e da tutti i suoi "sopravvissuti e sopravviventi".

Ligabue

Discografia

Anime in Plexiglass (con Orazero, Ep, Suonimmagine, 1988)
Ligabue (WEA, 1990)

7

Lambrusco coltelli rose & popcorn (WEA, 1991)6,5
Sopravvissuti e sopravviventi (WEA, 1993)

7,5

A che ora è la fine del mondo? (WEA, 1994)

5,5

Buon compleanno Elvis (WEA, 1995)

8

Su e giù da un palco (live, WEA, 1997)6,5
Radiofreccia (colonna sonora, WEA, 1998)
Miss Mondo (WEA, 1999)

5,5

Fuori come va? (WEA, 2002)

5

Giro d'Italia (live, WEA, 2003)7
Nome e cognome (Warner Music Italia, 2005)4,5
Primo Tempo (antologia, Warner Music Italia, 2007)
Secondo Tempo (antologia, Warner Music Italia, 2008)
Sette notti in Arena (live, Warner Music Italia, 2009)
Arrivederci, Mostro! (Warner Music Italia, 2010)4,5
Arrivederci, Mostro! In acustico (Warner Music Italia, 2011)
Campovolo 2.011 (live, Warner Music Italia, 2011)
Mondovisione (Warner Music Italia, 2013)3
Giro del mondo (live, Warner Music Italia, 2015)
Made in Italy (Warner Music Italia, 2016)3,5
Start (Warner Music Italia, 2019)4
7 (Warner Music Italia, 2020)4,5
Dedicato a noi (Warner Music Italia, 2023)3
Pietra miliare
Consigliato da OR

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Playlist consigliata

Bambolina e barracuda
(Ligabue, 1990)
Piccola stella senza cielo
(Ligabue, 1990)

Bar Mario
(Ligabue, 1990)

Non è tempo per noi
(Ligabue, 1990)

Angelo della nebbia
(Ligabue, 1990)

Camera con vista sul deserto
(Lambrusco coltelli rose & popcorn, 1991)

Anime in plexiglass
(Lambrusco coltelli rose & popcorn, 1991)

Libera nos a malo
(Lambrusco coltelli rose & popcorn, 1991)

Urlando contro il cielo
(Lambrusco coltelli rose & popcorn, 1991)

Ancora in piedi
(Sopravvissuti e Sopravviventi, 1993)
Ho messo via
(Sopravvissuti e Sopravviventi, 1993)

Dove fermano i treni
(Sopravvissuti e Sopravviventi, 1993)

I duri hanno due cuori
(Sopravvissuti e Sopravviventi, 1993)

Walter il mago
(Sopravvissuti e Sopravviventi, 1993)

Piccola città eterna
(Sopravvissuti e Sopravviventi, 1993)

Tema: Sopravvissuti e Sopravviventi
(Sopravvissuti e Sopravviventi, 1993)

A che ora è la fine del mondo?
(A che ora è la fine del mondo?, 1994)

Seduti in riva al fosso
(Buon compleanno Elvis, 1995)

Certe notti
(Buon compleanno Elvis, 1995)

I "ragazzi" sono in giro
(Buon compleanno Elvis, 1995)

Leggero
(Buon compleanno Elvis, 1995)

Il giorno di dolore che uno ha
(Su e giù da un palco, 1997)

Tra palco e realtà
(Su e giù da un palco, 1997)
Tema di Radiofreccia
(Radiofreccia, 1998)
Ho perso le parole
(Radiofreccia, 1998)
Kay è stata qui
(Miss Mondo, 1999)
Almeno credo
(Miss Mondo, 1999)
Eri bellissima
(Fuori come va?, 2002)
Tutte le strade portano a te
(Fuori come va?, 2002)

Chissà se in cielo passano gli Who
(Fuori come va?, 2002)

Piccola stella senza cielo
(Giro d'Italia, 2003)

Angelo della nebbia
(Giro d'Italia, 2003)

Walter il mago
(Giro d'Italia, 2003)

Camera con vista sul deserto
(Giro d'Italia, 2003)

L'amore conta
(Nome e Cognome, 2005)
Lettera a G.
(Nome e Cognome, 2005)
Sono qui per l'amore
(Nome e Cognome, 2005)
Caro il mio Francesco
(Arrivederci, Mostro!, 2010)
Ciò che rimane di noi
(Mondovisione, 2013)

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