E siamo a undici. Tanti sono ormai gli album di inediti del rocker emiliano Luciano Ligabue dai tempi del suo esordio "Ligabue" (1990). Ventisei lunghi anni segnati da incredibili successi e da canzoni che cantano la provincia italiana in cui sono state spesso trovate le giuste parole per creare identificazione in masse sempre più numerose.
Dopo undici lavori, milioni di fan sono ancora in fermento chiedendosi come sarà il nuovo album di Ligabue. C'è da chiedersi quali siano le ragioni di questa attesa; da un quarto di secolo ormai Ligabue propone pedissequamente lo stesso tipo di ricetta, condito con pensieri e idee uguali, fin dal suo lontano esordio. L'unico album leggermente diverso dai suoi tipici Lp di un pop-rock, negli anni divenuto sempre più patinato, è stato quel "Sopravvissuti e sopravviventi" (1993) poco amato dai fan proprio perché poco rassicurante e compiacente per chi è alla ricerca dell'eterna ripetizione consolatoria di ciò che è già noto.
Quello che Ligabue aveva da dire lo aveva già detto nei primi anni Novanta. Prima la musica, poi il cinema e infine i tentativi letterari dimostrano chiaramente un'innegabile ansia comunivativa che è l'aspetto più lodevole e apprezzabile della sua intera carriera. Ma oggi non ha più senso ripetere la stessa forma-canzone sempre identica a se stessa, gli stessi concetti ribaditi sino alla nausea, quella voglia di identificazione tanto ampia e vaga in cui tutti possono riconoscersi, dove c'è continuamente quella falsa duplicità tra un "Noi" buono e un "Loro" cattivo, dove il confine è tanto ambiguo di modo che tutti possono riconoscerci nel "Noi". Scomodando la grammatica nietzschiana, Ligabue rappresenta perfettamente l'eterno ritorno del sempre uguale. Confortevole, rassicurante e privo di pericoli come una domenica passata a casa di un nonno anziano ma in buona salute, dove non può succedere nulla di sbagliato o di imprevisto.
Il formato concept non aggiunge nulla al solito sound di Ligabue; la storia di Riko - per fare in modo che tutti si riconoscano - non può che essere di grande superficialità e vaghezza. La musica semplicemente non esiste, tanto uguale a se stessa e priva di spunti da far sembrare i pochi secondi di fiati vere boccate di ossigeno. I momenti più dignitosi di "Made In Italy" si hanno quando Ligabue si fa leggermente da parte, cioè nei brevi abbozzi folk di "Meno male", "Quasi uscito" e "Apperò". Quando Ligabue si allontana ancora di più da quello che è sempre stato, raggiunge il suo momento migliore, addirittura arriva a sorprendere con i cori di bambini di "Un'altra realtà", ninna nanna infantile alla Bruno Lauzi che chiude con un certa poesia un album che - per il resto - avevamo già sentito ventisei anni fa.
02/12/2016