Da alfieri della new wave tricolore a precursori italici del rock latino con reminiscenze blues. L’ultraquarantennale parabola artistica dei Litfiba ha conosciuto tante svolte ma quella avvenuta a cavallo tra anni 80 e 90 è la più significativa. Da portatrice di una formula musicale ricercata, per pochi, la formazione fiorentina si fa “tamarra”; da marchio di nicchia garanzia di offerta sopraffina, diventa fenomeno mainstream, il che per un certo periodo le è anche venuto bene.
Dopo lo scisma
Al tramonto del decennio “edonistico”, che tutto è stato per i Litfiba meno che ricerca del godimento fine a se stesso, la band di Piero Pelù è ancora pressoché sconosciuta al grande pubblico. “Litfiba 3”, il terzo album in studio e capitolo conclusivo della cosiddetta Trilogia del potere, ha lasciato intravedere qualche apertura in questo senso (si pensi a un singolo accattivante come "Tex"), ma in fatto di popolarità siamo ancora sostanzialmente fermi a numeri risibili, a una dimensione di nicchia. All’interno del gruppo si parla di firmare per una major straniera, la Island pare profilarsi come la possibilità più concreta, ma alla fine la scelta cade sulla politica del passettino per volta e quindi si opta per restare ancorati alla dimensione nazionale in attesa degli sviluppi.
Le discussioni interne, anche animate, non sono una novità in casa Litfiba, anzi, a dire il vero, dopo quasi due lustri di ininterrotto percorso congiunto, la band è dilaniata da dissidi intestini che finiscono col minarne l’assetto, tant’è vero che nella primavera del 1989 inizia lo “scisma”. Il bassista Gianni Maroccolo e il tastierista Antonio Aiazzi escono dalla società legale a cui il marchio fa capo, primo step verso la diaspora che di lì a poco comprenderà gli addii anche del batterista Ringo De Palma, che il 1 giugno 1990 morirà per overdose da eroina, e del tastierista Francesco Magnelli, i quali insieme a Maroccolo faranno rotta verso i Cccp - Fedeli alla Linea (Aiazzi invece resterà coi Litfiba ma nella posizione ibrida di collaboratore esterno).
Così, della line-up originaria restano praticamente solo Pelù e Renzulli, ai quali si uniscono un nuovo bassista, Roberto Terzani, e un nuovo batterista, Daniele Trambusti, quest’ultimo affiancato nel reparto percussioni dall’altra new entry Candelo Cabezas. Ciononostante, la band da questo momento si configura sia de iure che de facto come duo, restando legalmente ogni decisione, artistica e non, in capo a vocalist e chitarrista.
Il primo frutto del nuovo corso è lo spostamento verso uno stile maggiormente rock. Il combo fresco di rimescolamento si rituffa in studio all’inizio dell’estate 1990. I due capitani hanno già scritto un paio di nuovi brani, “El Diablo” e “Proibito”, ai quali nel giro poche settimane vanno ad affiancarsi gli altri sei che compongono il primo lavoro lungo della nuova era (canzoni che la band presenta dal vivo nelle ultimissime fasi della vecchia, di era, le due dati finali del Pirata Tour). “El Diablo” è il primo capitolo della Tetralogia degli elementi – si inizia col fuoco - ossia l’espressione con cui, in modo simile a quanto accaduto con il precedente trittico di lavori, si farà informalmente riferimento alle fatiche della band dalla quarta alla settima.
Il disco viene pubblicato il 23 novembre 1990 su Cgd, etichetta milanese attiva da più di quarant’anni e che nel 1989 è stata acquistata da Warner. Mentre per il mercato estero il singolo di presentazione è “Il Volo”, in Italia il lancio è affidato alla title track, un brano che si innesta nella tradizione hard&heavy ma declinata in salsa mediterranea, che sarà presa a modello non solo da band italiane come Negrita e Timoria, ma anche all’estero come nel caso degli spagnoli Heroes del Silencio, non a caso soprannominati dai commentatori nostrani “i Litfiba spagnoli”. Il pezzo è tosto e caratterizzato da agganci classic con rimandi a Ennio Morricone (già presenti in alcuni dei passaggi più western di “Litfiba 3”) e soprattutto all’immaginario rock maledetto dei Doors (l’organetto 60s rievoca “Light My Fire”) e dei Rolling Stones (titolo e tappeto ritmico a base di congas fanno l’occhiolino a “Sympathy For The Devil”), ed è accompagnato da un semiserio videoclip a tema corrida, così come esilaranti sono i video dei successivi due singoli: “Gioconda”, dove va in scena un finto matrimonio (location, una chiesa sconsacrata sulle rive del Lago di Como) con protagonista un “renitente” Pelù, e “Proibito”, ambientato in una scuola cattolica, con i membri del gruppo nei panni di discoli in grembiulino.
“El Diablo” avrà il merito di schiudere alla band le porte del successo: 400mila copie vendute in un anno e mezzo e improvviso guadagno di popolarità, ma la ratio sottesa all’opera sembra più quella di saggiare il terreno in vista del prosieguo di percorso. Ognuno degli otto pezzi, tutti estremamente leggibili e senza più le asperità del passato, ha potenzialità da singolo. La classe dei Nostri è rimasta intatta ma la furbizia che ammanta il tutto, quel piglio bonariamente paraculo, ammiccante e allusivo infuso in ogni solco, rende abbastanza chiaro il dove Piero e Ghigo vogliano andare a parare. Di fondo, lo sguardo è rivolto agli anni 70 di Led Zeppelin e Black Sabbath, con ampie digressioni oltreoceano dalle parti del Delta del Mississippi ma anche nell'entroterra stellestrisce più country/folk (“Siamo umani”).
L’alternanza tra episodi con riff assassini e ritmiche serrate da una parte e ballad “da scortico” dall’altra è una spia delle mire della coppia, corroborata anche dalla sparizione di violini e fisarmoniche zingareschi che facevano tanto folk balcanico, nonché dal ridimensionamento dell’imprinting new wave delle tastiere di Aiazzi. Un mondo spazzato via da Renzulli che adesso, senza più freni di sorta, può finalmente fare quello che gli pare e prodursi così nei suoi amatissimi assoli, prendendosi la scena al pari dell’istrionico vocalist che per parte sua si lascia andare a eccentrici e lussuriosi vocalizzi.
Resta l’impegno politico, del quale troviamo traccia nell’ecologismo di “Woda-Woda” e nella denuncia sociale – peraltro lasca – di “Ragazzo”. “El Diablo” presenta infatti anche un'altra qualità dei Litfiba anni 90: l'atteggiamento anti-politico e un tantino qualunquista - diverso dall’impegno temerario, quasi engagé, degli 80 - che per certi versi anticipa il grillismo.
Il tour a supporto del disco inizia l'11 gennaio 1991 a Cuneo, tocca anche l'estero (Svizzera, Belgio e Francia) e culmina col concerto di Gallarate (Milano) del 20 settembre. Testimonianza video ne è la Vhs “El Diablo Tour”, con immagini dalla data del 22 gennaio a Cesena. A marzo 1992 è invece il turno della prima raccolta ufficiale, “Sogno ribelle”, in larga parte collezione di brani del repertorio degli anni 80 re-immaginati secondo il nuovo paradigma stilistico del gruppo (due sono versioni dal vivo), con l'aggiunta di due canzoni da “El Diablo” (la title track, anch'essa registrata live, e “Proibito”), la versione studio di “Cangaceiro” (in precedenza incisa solo dal vivo) e l'inedito “Linea d’ombra”.
Invettive da ragazzacci
Ma è già a un nuovo album in studio che guardano, i ragazzacci. È una villa di Ansedonia, in provincia di Grosseto, a fare da sfondo alle nuove incisioni. Ma altro che pace e tranquillità: il nuovo sound appare fin da subito molto più aggressivo e spigoloso, così come i riferimenti politici presenti nei testi sono decisamente più diretti e marcati. Tra improperi verbali e “zaccagnate” sonore, ne risulta un umore cupo e arrabbiato ai limiti del risentimento. Piero e Ghigo optano per un rimpasto della sezione ritmica, con la rinuncia a Trambusti (considerato troppo lineare) e Cabezas (troppo latino) in favore di un batterista con un passato heavy metal come Franco Caforio (ex-Death SS). L'attenzione al nuovo materiale è testimoniata anche dal fatto che la band organizza solo una manciata di concerti nell'anno solare proprio per concentrarsi su quello che, percepiscono, sarà un passaggio fondamentale della loro carriera.
In effetti con “Terremoto” tira un'aria diversa, beneficamente malsana verrebbe da dire. La morbidità di “El Diablo” cede il passo al veleno. Un lavoro, il secondo della Tetralogia (ovviamente qui l'elemento omaggiato è la terra) molto più forastico, i Litfiba adesso sono davvero incazzati. In questo senso la loro quinta prova è forse la più coraggiosa dai tempi di “17 Re” e di sicuro la più ispida, disturbata e scomoda della loro produzione 90’s, anche perché si inquadra nel contesto dell'Italia di Tangentopoli, della fine della Prima Repubblica, delle stragi di mafia (l'opening “Dimmi il nome” si apre non a caso con il suono di uno scacciapensieri), delle oscure manovre finanziarie internazionali ordite sulle teste di noi uomini della strada. Piero e Ghigo si fanno capopopolo, dei Masaniello del rock, il populismo anni prima del populismo. La loro proposta di rivoluzione è violenta come il pugno raffigurato in copertina e sovrastato dal nuovo logo del gruppo che richiama quello, caratteristico, dei Metallica.
“Maudit”, singolo di lancio con tanto di videoclip in stile U2 di "Zoo TV", è manifesto della nuova direzione. Renzulli è imponente e Pelù, che si conferma come probabilmente il più grande frontman della storia del rock italiano, diventa una belva inferocita, un reietto che impreca al vento e sfoga tutto il suo odio maledicendo quei malandrini di colletti bianchi burattinai. Il mood generale è negativo, sfiduciato, carico di sdegno. Il piglio è militante, forcaiolo. I Litfiba comprovano ancora una volta la tendenza italiana a importare stilemi musicali dall’estero poiché “Terremoto” appare come un brillante (e raro) esempio di disco grunge italiano, realizzato paradossalmente da coloro che dieci anni prima declinarono nella lingua di Dante l’inquietudine dei Joy Division.
Di nuovo, sono le tastiere di Aiazzi a dare la misura della giravolta: le epiche cattedrali sonore wave cedono il passo a organetti sixties in stile Procol Harum. Ma tra i numi tutelari ci sono anche i Nomadi, il quale leader, Augusto Daolio, muore nell'ottobre 1992 proprio mentre i Litifba stanno lavorando a “Terremoto” (al compianto cantante dedicano la succitata “Sotto il vulcano”, non fosse altre perché hanno appreso la notizia della sua scomparsa il giorno in cui stavano registrando il pezzo).
Le nuove pièce hanno il sapore contemporaneo del rock di Seattle. La trascinante “Fata Morgana” e l’appassionata ode anti-naja “Prima Guardia” partono lente ma poi si sgranano in tutta la loro magnificenza; però è anche il sempreverde metallo la stella polare, santificata col growl di “Dinosauro” ma anche con gli spasmi guitar hero-ici di “Soldi” e “Il mistero di Giulia”. A dispetto dell'afflato minimale, “Terremoto” è un lavoro molto partecipato. Alla sei-corde di Renzulli si affianca infatti quella (ritmica) di Federico Poggipollini, in aggiunta al basso di Terzani e al già citato Aiazzi; e qua e là compaiono pure lo scratching di DJ Style e il sitar di Harish Powar.
Il tour di “Terremoto”, partenza il 10 febbraio da Cannes, si profila come uno dei più importanti della carriera di una band ora più in forma che mai. La produzione dello spettacolo è molto più sofisticata non solo in fatto musicale ma anche scenico, con l’uso molto ricercato delle luci che impone alla band scalette più ingessate ma non per questo meno cariche di elettricità. Renzulli stesso si riferirà a questo periodo come a uno dei più carichi e ispirati del gruppo, un momento di grazia.
Non fa parte del tour in senso canonico ma è a suo modo una data cruciale quella del 1° maggio a Roma in occasione del tradizionale Concertone in piazza San Giovanni. Pelù si prende il proscenio (e l’occhio delle telecamere Rai) dapprima bruciando sul palco una copia del quotidiano il Messaggero e poi prendendo di petto il “padrone di casa” papa Giovanni Paolo II (“Ne sai una sega tu, di sesso e dintorni”, gli dice accennando alle frasi del pontefice sull’uso del preservativo). Non solo. Durante un’intervista dietro le quinte rilasciata all’inviato Vincenzo Mollica, infila proprio un profilattico sul microfono dello stesso giornalista, che resta attonito.
La promozione di “Terremoto” è affidata anche al rilascio di ulteriori singoli: “Sotto il vulcano”, omaggio alla cultura messicana che, come l’italiana, è legata al terremoto e al fenomeno del vulcanismo, e “Prima Guardia”, accompagnato da un videoclip girato in Marocco, sono rispettivamente il secondo e il terzo estratto.
Epilogo
Il giro di date dal vivo finisce il 12 settembre alla Festa de l’Unità di Reggio Emilia e cinque mesi dopo esce il live “Colpo di Coda”, registrato nella data di Bologna del 5 settembre (con due inediti, “A denti stretti” e “Africa”, quest’ultima registrata dal vivo ma risalente alle session di “El Diablo”) che segna il passaggio della band dalla Cgd/Warner alla Emi Italiana.
Qui però ci fermiamo col racconto dei Litfiba per quella parte di incarnazione nineties che, a parere di chi scrive, è più degna di nota. Non che il successivo album, “Spirito”, un lavoro molto più soft e animato da tendenze world, non meriti menzione, però la frase contenuta in uno dei suoi brani più famosi è un po’ il manifesto di una ulteriore transizione: quel “piacere a tanta gente è una gabbia seducente”, da “Lo spettacolo”, è in qualche modo la dichiarazione d’intenti in vista di un’altra svolta, magari meno evidente ma che regalerà la band allo sputtanamento definitivo, quello catodico e poppettaro di “Mondi sommersi” e “Infinito”, votato alla ricerca del consenso della massa teledipendente, ben oltre la cerchia dei fan del rock‘n’ roll.
L’ambizione più sfrenata raramente premia in termini di felicità e anzi può generare insoddisfazione perenne, condita da riflussi gastrici che avvelenano l’aria tua e di chi ti sta intorno. Non a caso inizieranno proprio dal disco dedicato all’acqua i gavettoni verbali tra Pelù e Renzulli che sfoceranno nella separazione definitiva, poi sanata dalla reunion del 2010. Ma questa è un’altra storia.