Il loro primo album
We Care A Lot (in alcune edizioni iniziali stampato semplicemente come "Faith No More") esce per la Mordam nel 1985. Sebbene ancora lontano dagli schemi creativi che distingueranno i successivi lavori, il disco cerca di superare sia la parentela con la
new wave industriale di marca
Killing Joke che quella con il funk/dub alla
Gang of Four, tramite alcune sperimentazioni vocali, tastieristiche e, soprattutto, chitarristiche.
L'apertura è lasciata alla
title track, un brano ironico che diventa in breve l'inno del gruppo (e un
must nelle
college radio di Seattle), caratterizzato da un andamento ritmico funk rimasticato in modo marziale, spezzato da sprazzi di violenza punk, che fa da base al decantare quasi rap di Mosley, fino allo sfociare in un
chorus esaltato da tastiere e cori da pub. "The Jungle" definisce una formula chitarristica a metà tra funk e punk, dove la sezione ritmica martellante, le tastiere avvolgenti e la voce delirante si perdono in riverberi che riecheggiano oscurità in stile
Joy Division. Al contrario, la struttura di base in "Mark Bowen" è piuttosto influenzata dalla scena
glam-metal (al tempo rappresentata da band come Motley Crue), sebbene la voce si attesti su coordinate da lamento punk di strada e la batteria si esprima nuovamente attraverso un battito sincopato affogato da tappeti wave, creando un mix stilistico piuttosto inedito.
"Greed", pezzo celebre del disco, mette insieme post-punk e synth-pop come vuole la moda del momento, risultando però meno interessante del
minaccioso crescendo metal della successiva e strumentale "Pills For Breakfast". Anche "As The Worm Turns" riprende in maniera accattivante l’intenzione post-punk, grazie a un pianoforte con echi evidenti di Rachmaninoff che lascia spazio al synth, accompagnato da chitarre e
drumming muscolari, sui quali si innesta alla perfezione il canto sgraziato di Mosley.
In definitiva, sebbene il disco abbia importanza storica e un indubbio valore di originalità, la via che vogliono percorrere i Faith No More non è ancora per nulla chiara. L'insieme di influenze suona ancora disordinato e confuso
(da un certo punto di vista anche coerentemente con la copertina del disco, una stella a otto punte, che secondo le intenzioni di Gould rappresenta il caos, l'ordine attraverso il disordine), a tratti eccessivamente grezzo, e debitore di troppi trend in voga all'epoca; in particolare, è la sezione ritmica che fatica a emergere, dato che in ogni traccia si esprime ancora tramite stilemi new wave. Qualcosa trattiene ancora la spinta creativa del gruppo.
Con il secondo lavoro
Introduce Yourself (registrato nel 1986 e uscito per la Slash nel 1987), i Faith No More compiono un passo decisivo: il disco segna un importante punto di svolta nella carriera della band che, grazie a una maturazione della sezione ritmica e a un'attitudine generale più spontanea, spavalda e non intimorita dalle contaminazioni musicali, riesce a dar vita a un
sound finalmente personale.
Il basso di Gould aumenta le influenze funk (in questi anni ha suonato anche con Les Claypool dei
Primus). Sempre Gould, insieme a Bordin, si slega dalle radici new wave, mentre la chitarra di Martin sale al ruolo di protagonista e la voce di Mosley abbandona i toni più melodrammatici, aprendosi a soluzioni eclettiche; le tastiere di Bottum si fanno meno ingombranti e, più che esaltare i crescendo chitarristici, cercano di muoversi apportando maggiore raffinatezza all'arrangiamento.
Si vola così dai deliri tastieristici con voce riverberata e stratificata di "Faster Disco" (interrotta da stacchi sincopati tipici del funk-rock), al mix di synth-pop sinfonico, voce tra cantato e rap e basso funk presenti su "Anne's Song". È il preludio a una vera esplosione, che arriva con il minuto e mezzo della impetuosa
title track, che evidenzia una produzione abrasiva per quanto riguarda
drumming e chitarre, in grado di portare a un nuovo livello di violenza sonora il funk-punk tipico dei Red Hot Chili Peppers.
L'attitudine ironica evidenziata fin qui viene azzerata dalla successiva "Chinese Arithmetic", memore delle atmosfere dark di alcuni episodi del primo disco, ritoccate e fatte evolvere attraverso una maggiore espressività dal punto di vista tastieristico, che accompagna il crescendo di rabbia e violenza di Mosley, ora impegnato in sgraziate invettive punk, ora in
chorus melodici, ora in veloci rap.
In "Death March", una sorta di
happening hardcore-punk e new wave avanguardista, vengono esaltate le trame ossessive delle tastiere, mentre Mosley sottolinea le parti di chitarra sposandosi perfettamente alle lontane percussioni tribali che Bordin inserisce nel
pattern ritmico. La band sceglie anche di inserire, a metà disco, un rifacimento dell'inno del precedente album, "We Care A Lot", decisamente migliorato sotto il profilo della produzione
(scelta più che comprensibile, trattandosi del pezzo più originale e irriverente tra quelli presenti sul debutto).
Introduce Yourself è un disco che assimila funk, rap, hardcore, metal e sprazzi d'avanguardia, permettendo ai Faith No More di entrare nel novero delle band che vantano uno stile immediatamente riconoscibile. Con
Introduce Yourself,
crossover-rock non è più solo sinonimo della somma tra funk, rap e metal, ma assume un nuovo significato, che apre a un panorama di ampio respiro stilistico.
I punti deboli dell'album possono essere individuati sostanzialmente nell’impostazione vocale di Mosley, adatta sì a infondere ruvida attitudine punk ai pezzi
(e trainante per la stesura dei testi) ma piuttosto incerta nei passaggi più melodici. Come se non bastasse, il gruppo inizia a mal tollerare alcuni comportamenti stravaganti di Mosley, sia in sala prove (quando il cantante decide di trasformare intere serate in
session con la chitarra acustica) sia in tour (quando sale puntualmente in ritardo sul palco per l’esibizione). Queste e altre sregolatezze indotte da stupefacenti portano gli altri componenti ad abbandonare uno dopo l’altro la band, con lo scopo di isolare Mosley, di fatto licenziandolo (Chuck diventerà poi per qualche tempo il cantante dei
Bad Brains e, subito dopo, dei Cement, con i quali inciderà due album - lascerà purtroppo questo mondo nel 2017, dopo un lungo periodo di sobrietà, per cause nuovamente legate alla tossicodipendenza).
L’ormai quartetto si ricompatta piuttosto velocemente intorno a nuove idee musicali su cui lavorare. Dopo aver pensato per un attimo alla possibilità di sostituire Mosley con Chris Cornell (idea alla fine scartata per mancanza di sufficiente affinità stilistica, nonostante i
Soundgarden fossero buoni amici e non avessero ancora esordito discograficamente), viene invece reclutato l'allora ventunenne Mike Patton su suggerimento del chitarrista Jim Martin, che aveva ascoltato una demo dei Mr. Bungle, la band di Patton fin dai tempi della
high school.
Patton è l'esatto opposto di Mosley: figlio della cultura bianca americana, è un ragazzo piuttosto comune, proveniente da Eureka (California settentrionale), incastrato tra i doveri di studente e di commesso in un negozio di dischi. Inizialmente, si mostra esitante nell'unirsi al gruppo, anche per non mancare di rispetto al suo progetto musicale principale.
Il suo ingresso ufficiale nei Faith No More avviene quando la struttura ritmico/armonica dei nuovi brani è già definita, ma Patton riesce, nell’arco di due settimane, a completare con sicurezza testi e parti vocali che servono a chiudere l'impegno discografico con la Slash Records. Il suo talento eclettico diventa improvvisamente la chiave di volta per comprendere gran parte del mondo Faith No More così come lo conosciamo adesso. Con un’interpretazione al contempo spavalda, ironica e sperimentale (memore del lavoro di Corey Glover nei Living Colour), Patton non è solo l’uomo giusto per la
performance live dei Faith No More in quel momento, ma anche un personaggio in grado di far risaltare al meglio l’intransigenza della band.
Senza contare che il
melting pot di influenze in seno al gruppo comincia in quel momento a diventare una specie di ragnatela tesa in tante direzioni: a Patton nel 1989 piace
Sade, così come a Bottum, che però segue anche la scena techno di Detroit, mentre Bordin continua ad amare Killing Joke e percussioni africane, e Jim Martin resta un
aficionado di
Black Sabbath e Corrosion of Conformity (o, piu in generale, di tutto il metal, come dimostra la sua antica amicizia con Cliff Burton e James Hetfield dei Metallica). Sebbene nella band non ci sia mai stato un vero e proprio leader, è Bill Gould a diventare il collante di tutto ciò.
The Real Thing esce nel giugno 1989, consegnando al pubblico una miscela esplosiva che diventa in breve tempo un riferimento importante per il crossover dell’epoca (cui appartengono ad esempio anche i
Jane’s Addiction). Alla forza del materiale si accompagna questa volta anche uno straordinario ritorno di vendite, trascinato dalle aperture melodiche e da un maggiore
appeal mainstream della vocalità di Patton.
In particolare, l’improvviso successo commerciale è in gran parte merito del primo singolo "Epic", che probabilmente resterà per sempre, nel bene e nel male, il pezzo più conosciuto della band (oltre a essere il primo vero esempio di rap-metal a occupare le radio americane); la scalata alle classifiche è possibile proprio in virtù di una proposta innovativa che non sacrifica l’immediatezza: basso funk con cantato rap,
chorus rock in crescendo con enfasi epica (appunto), divagazioni in cui Patton si diverte a emettere suoni gutturali, testo ironico e conclusione spiazzante nella quale un malinconico tema al pianoforte prende poco per volta il posto del finale di chitarra, sfumando il confine tra sperimentazione seria e auto-parodia in una maniera che ricorda, nello spirito più che nel risultato, Frank Zappa.
L'
opener "From Out of Nowhere" chiarisce subito la componente metal del lavoro, sostenuta magistralmente da chitarre e tastiere impegnate in una progressione dai toni epici, più vicini all'immaginario
fantasy che al
sound multietnico e da strada del crossover; "Falling To Pieces" è una memorabile
power ballad funk-rock, una sorta di versione sofisticata del
sound dei Red Hot Chili Peppers (con i quali emergeranno screzi causati dalle accuse di effetto fotocopia da parte di questi ultimi, soprattutto per quanto riguarda "Epic" - notare che le due band avevano condiviso un tour di 56 date soltanto un paio di anni prima), sublimata dagli intrecci vocali di Patton.
Se fino a questo punto del disco era palpabile uno sprizzante e contagioso entusiasmo giovanile, con "Surprise! You're Dead!" la band sfoga la propria vena di follia distruttiva, incastonandola alla perfezione prima di "Zombie Eaters", iniziale placida
lullaby (con arpeggio chitarristico "rubato" a "Love Seems Doomed" dei Blues Magoos, 1966) che si fa via via lacerante, sulla scia del
mood di
Introduce Yourself. La
title track, nei suoi 8 minuti di balzi stilistici, mostra pregi e limiti del nuovo corso della band: l'alternanza di soluzioni jazzate, sincopi funk e melodie vocali resta accattivante, ma non giustifica né i toni seri né la durata e, soprattutto, difetta di una vera, palpabile, tensione. I "nuovi" Faith No More, che hanno rimodellato in versione più liquida e commerciabile il
sound del precedente album, sembrano molto più a loro agio nei territori dell'ironia scanzonata. "Woodpecker From Mars" è un'orgia strumentale dalle ritmiche schizofreniche che si affaccia su territori prog-metal, mentre la trascinante
ballad soul-jazz per piano e voce "Edge Of The World" chiude l'album nella versione in vinile (mentre in tutte le altre viene preceduta da una riuscita cover di "War Pigs" dei
Black Sabbath, opportunamente trasfigurata per l’occorrenza).
La cosa che colpisce di più il produttore Matt Wallace (oltre ovviamente all'impatto dei brani, composti tutti prendendo spunto da vere e proprie immagini concettuali piuttosto che da idee musicali) è la scelta di Patton di cantare tutto il disco con una inflessione nasale e acuta, volutamente diversa da quella utilizzata con i Mr. Bungle; un atto che probabilmente tradisce la volontà di Mike di tenere ben separato il carattere vocale delle due band, sempre per una questione di rispetto.
In ogni caso, a fronte di un'impronta di chitarre e tastiere indubbiamente cresciuta in termini di maturità espressiva e un mix stilistico più appetibile grazie al
l'ingresso di Patton, qualcosa sembra comunque essersi perso nel passaggio dal precedente
Introduce Yourself: la carica più punk, sovversiva, abrasiva è ridotta al minimo. Il disco può sicuramente definirsi riuscito e rappresenta un buon esempio di concordanza tra critica e pubblico (nonostante i fan metal osteggino a più riprese tutta l'estetica rap di "Epic"), ma servirà un ulteriore cambio di rotta per prendere le distanze da una formula ancora leggermente giovanilistica.
A dispetto dell'incessante tentativo da parte degli addetti ai lavori di affibiare ai FNM l'appartenenza a un genere ben preciso, la band prosegue il suo percorso artistico rifiutando ogni etichetta e rivendicando la necessità di non avere regole precise (muovendosi anzi di volta in volta per eluderle).
Forte del successo internazionale di
The Real Thing, Patton riesce a entrare nelle grazie del music business (Warner Bros) quel tanto che basta anche per esordire discograficamente con il suo gruppo d'origine Mr. Bungle. L’episodio è tutt’altro che irrilevante, dal momento che è proprio il carattere imprevedibile, schizofrenico e irriverente del materiale Mr. Bungle a permettere, attraverso lo stesso Patton, l’affacciarsi di un nuovo aspetto (
già a partire dal lavoro successivo) nella cifra stilistica dei Faith No More: quello del collage di generi, di emozioni, di stati d'animo.
Il progetto Mr. Bungle è inoltre fondamentale per introdurre un cambio di paradigma nelle teste di molti musicisti di rock
guitar oriented, grazie a una vera e propria opera di de-centralizzazione della sei corde in favore dell'eclettismo sonoro
tout court. Non a caso, in quegli anni inizia a prendere piede l'idea che forse non sia poi così necessario
avere sempre un assolo di chitarra in mezzo alla canzone. Nel 1992, il mondo è scosso dal ciclone grunge, e in particolare dalla furia commerciale di
"Nevermind" dei
Nirvana, diventato pietra di paragone per chiunque decida di affacciarsi al rock; i Faith No More vivono questo cambio di prospettiva lavorando sulla ulteriore personalizzazione del loro suono insieme al fido Matt Wallace, co-produttore di tutti i dischi della band. Al di là del ripensare la componente strettamente metal (che attraversa ormai una vera e propria crisi di identità), la band sceglie di mantenere viva e vegeta la voglia di mettersi in gioco senza piegarsi ovviamente ad alcun dovere commerciale.
Permeato da un'aura di crisi esistenziale semi-pessimistica
(raccolta nel primo singolo "Midlife Crisis") e sostanzialmente privo di facili ritornelli, il barocco e massimalista
Angel Dust esce in giugno, sempre per Slash Records, e ha come risultato quello di spiazzare il pubblico (abituato a fischiettare "Epic" o "Falling To Pieces") ed estasiare la critica.
Si tratta del primo lavoro in cui tutte le sfumature della complessità sonora della band riescono a trovare un punto di equilibrio pressoché perfetto, mentre la scrittura dei brani sancisce finalmente il contributo significante di Patton, che riprende anche a cantare con il suo vero timbro vocale. L'umore di fondo è terribilmente serio e maturo, mitigato solo in apparenza dalla spigliatezza e dal brio schizoide che caratterizza le strutture dei brani, costruite fin nei minimi particolari.
Basterebbe già
l’opener (e secondo singolo) "Land Of Sunshine", sorretto da un penetrante giro di basso di matrice funk, per far capire al pubblico che si trova di fronte a un’esperienza di ascolto non immediata: il pezzo comincia praticamente subito, dribblando la presenza di una qualsivoglia
intro, e scodella un primo ritornello composto sostanzialmente da risate schizofreniche su un sottofondo degno di una giostra circense. I due
bridge enfatizzano aspetti sinfonici, mentre nel finale Patton sembra farsi beffe dell'impostazione canora lirica trascinandola in un racconto del grottesco. In tre minuti e quarantacinque, i Faith No More condensano con facilità e coerenza una tale quantità di riferimenti da rendere pressoché impensabile il medesimo compito per qualsiasi altra band. Toccano i medesimi territori, a volte con una capacità unificante ancora maggiore, la
power ballad (con inserti rap metal) "Everything's Ruined", il valzer psicopatico di "Caffeine" e l’arabeggiante "Smaller And Smaller", impreziosita dai toni drammatici delle tastiere e dal canto di un nativo americano nel
bridge.
Ma non è quello l’unico
leit-motiv del disco.
Angel Dust vede per la prima volta nelle registrazioni l’introduzione (mal digerita da parte di Jim Martin) di campionamenti, seppur non predominanti, in un discreto numero di episodi (gli intermezzi di "Midlife Crisis", "Smaller And Smaller" e "A Small Victory"), mentre l’aggressività vera e propria viene confinata a "Malpractice" (un chiaro esempio di incubo di scuola Mr. Bungle) e "Jizzlobber".
Risultati davvero peculiari sono raggiunti anche da "Be Aggressive", incastrato tra un organo da inquisizione spagnola e un coro di
cheerleader (il
chorus cita un celebre canto sportivo delle tifoserie americane); la ballata pianistica country RV (con Patton che impersona un vecchio ubriaco dall'incedere sconnesso, prima di intonare un eccellente
chorus) e la già citata "A Small Victory", descritta da un critico dell’epoca come "una sorta di Madame Butterfly eseguita dai Metallica e Nile Rodgers insieme".
L'unico pezzo che sembra effettivamente ripetere
sound e formule di
The Real Thing è "Kindergarten", il cui impianto metal è smorzato dalle costruzioni melodiche di tastiera, mentre linee di basso funky e sprazzi rap lasciano spazio a malinconici e decadenti
vocals di Patton. Chiude il lavoro "Midnight Cowboy", rivisitazione del tema dell'omonimo film del 1969 (che tradisce la passione per le colonne sonore da parte
di tutti i membri), una
lullaby alla fisarmonica a cui si accompagnano tastiere maestose in stile
morriconiano, con un risultato volutamente lontano dall'augurio di una buonanotte serena e tranquilla.
Nelle versioni non americane è inclusa, come ultima traccia, anche "Easy", cover dell'omonimo successo soul pop di Lionel Richie & The Commodores (già
proposto dal vivo ai tempi di
The Real Thing), che curiosamente, o banalmente, data l'orecchiabilità, diventa il singolo di maggiore successo dei Faith No More in Europa.
Angel Dust è ciò che si può definire una
rock opera, uno degli album più rappresentativi della sua decade, un contenitore stracolmo di idee ed emozioni, con un Mike Patton che si rivela essere un folle trascinatore dalla voce straordinariamente eclettica (capace di assumere qualsiasi timbro, intonazione, stile espressivo). Sotto una coltre di sonorità chiaramente poco accomodanti rispetto ai precedenti lavori (si tratta in fin dei conti di un dramma schizofrenico-esistenziale messo in musica - praticamente un
concept album influenzato più di quanto sembri dalle sperimentazioni e collage di musicisti come Frank Zappa e
Foetus), si cela una natura profonda, quasi inaccessibile ai primi ascolti.
La copertina e il retro spingono l'inconscio verso una dualità estrema (la bellezza eterea di una garzetta e la crudeltà della cella frigorifera di un macellaio), ulteriormente sottolineata dallo stesso titolo ("polvere d'angelo" è anche il nome comune di un potente allucinogeno, il PCP).
L'istituzionalizzazione dei Faith No More è ormai completa.
Guns 'N Roses e
Metallica se li accaparrano per l'apertura dei loro imminenti tour mondiali (in Italia, ci saranno anche i
Soundgarden a fare da
opening act per Axl Rose e soci). In quegli stessi anni, inizia a emergere una scena metal alternativa, che attinge da crossover, sludge, grunge per forgiare nuovi stili e nuove tendenze, spesso diramandosi in molteplici direzioni, pur facendo riferimento alle medesime basi. Il pubblico alternativo pesante caratterizzerà una parte demograficamente consistente degli anni Novanta con le varie mode e tendenze che lo comporranno.
Basta poco tempo per veder approdare sui media una nuova generazione di band, che cita (sia nei suoni che nelle interviste) i Faith No More come influenza pesante: alcuni esempi rilevanti durante gli anni Novanta sono
Korn,
Deftones, Incubus, Snot; durante il passaggio al decennio successivo sarà poi il turno di
System of a Down e
Birthday Massacre a unirsi al computo e, negli anni seguenti, persino gruppi provenienti da altre scene come i
Pain Of Salvation in certe occasioni si avvicineranno esplicitamente al gruppo californiano
. Nel frattempo, anche i Primus raggiungono il circuito mainstream grazie alle porte aperte (in termini di esposizione mediatica) dai Faith No More, con i quali hanno in comune
background culturale e frequentazione degli stessi palchi fin dagli anni Ottanta (tra i membri dei due gruppi c'è una sincera amicizia).
In definitiva, svariate formazioni dal successo sia commerciale che di critica renderanno tributo a Patton & soci. L'alternative-metal segnerà il decennio e retroattivamente anche i Faith No More vi saranno inclusi dalla critica.Stare nel centro del ciclone significa però anche essere vittima dell'effetto centrifuga; gradualmente, l'insofferenza del chitarrista Jim Martin (pilotata principalmente dalla non condivisione di alcune scelte artistiche della band - che lo spingono a definire biecamente il suono di
Angel Dust come "gay disco" - e dall'avversione nei confronti delle intrusioni dei media) raggiunge il punto di non ritorno.
La separazione tra i Faith No More e Jim Martin avviene dopo il tour estivo del 1993 e rivela quanto fosse rilevante la presenza di quest'ultimo nel determinare l'equilibrio finale dei pezzi: il successivo, quinto
full length King For A Day... Fool For A Lifetime (Slash, 1995), in cui a suonare la chitarra viene chiamato Trey Spruance dei Mr. Bungle (rendendo di fatto la band un ibrido tra Faith No More e Mr. Bungle, vista già la provenienza di Patton dallo stesso gruppo), dimostra che il precedente apporto di Martin non si limitava solo al mantenimento delle influenze heavy-metal più classiche, ma serviva anche da argine e sintesi all'eccesso sperimentativo di Patton. Il disco fagocita infatti ancora più stili musicali rispetto ai precedenti, ma senza riuscire a replicare né la freschezza e spontaneità schizo-
teenageriale di
The Real Thing, né la matura sapienza con cui era stato assemblato il capolavoro
Angel Dust. Ciascuna traccia si rifà a stilemi di un singolo genere, raramente riuscendo a innovarlo. Viene dunque esaltato l’effetto collage
tout-court di tracce in cui ogni episodio sembra più che altro citare e quasi parodiare un certo genere musicale.
Il progetto non convince molto il pubblico e ancor meno la critica, ma fa ugualmente sfoggio di momenti interessanti. L'iniziale "Get Out", trascinata da una memorabile combo di ritmiche e voce, diventa un esempio di crossover potente e violento, che getta i semi per le idee di un'intera generazione di gruppi a venire (ad esempio, determinando in modo sostanziale il
sound degli allora neonati Incubus). Nonostante la
catchiness e le belle idee melodiche nelle strofe del singolo "Ricochet", poco la distingue davvero dalle
power-ballad sentite nei due precedenti album, mentre più fresca e intrigante è "Evidence". Risulta anche più convincente l'energica "The Gentle Art Of Making Enemies", i cui toni minacciosi sono sorretti completamente dalle schizofreniche soluzioni canore di Patton.
La band arriva poi a toccare territori ancora inesplorati con "Star A.D.", orgia di strumenti suonata per metà in 3/4 (c'è di tutto: fiati, sintetizzatore, organo), e con l'esperimento bossanova della quieta "Caralho Voador". L'ombra di "Malpractice" emerge in "Cuckoo For Caca", violenta sfuriata dalle reminiscenze hardcore, zeppa di urla e trainata da un
drumming schizoide, così come nella selvaggia "Ugly In The Morning". L'orecchiabile punk-rock "Digging The Grave", primo singolo, resta uno dei momenti più immediati, ma anche più lineari. Meno prevedibile è forse "Take This Bottle", lenta ballata country dall’impostazione tenorile.
La conclusione dell'album è affidata al susseguirsi della
title track (un mix di toni folk-rock e sfuriate chitarristiche), del pop/hardcore di "What A Day" e "The Last To Know" (sostanzialmente due
power ballad, ma ancora una volta inferiori a pezzi analoghi presenti negli album precedenti), e dell'esperimento gospel di "Just A Man".
Non si tratta di una
release eccezionale, specie perché uscita dopo una serie di lavori di sensibile qualità e originalità; le tracce più
heavy, che portano a nuovi livelli di cattiveria il
sound della band, resteranno forse le più influenti (contribuendo alla transizione da crossover a nu-metal), ma la capacità di emozionare il pubblico è stavolta ridotta al minimo, soppiantata da un esibizionismo stilistico disomogeneo e da una nuova parata di sperimentazioni eclettiche vocali da parte del talentuoso Patton, che se non altro si conferma come una delle voci più memorabili in ambito rock.
Successivamente al tour del disco (che non dà molte soddisfazioni al gruppo, tant'è che varie date verranno cancellate per svogliatezza), i Faith No More decidono di dedicarsi a un nuovo album.
Quello che per molto tempo verrà annoverato come l'ultimo lavoro in studio della band viene intitolato sarcasticamente
Album Of The Year (Warner, 1997), proprio perché, a fine registrazioni, nessuno dei componenti si ritiene soddisfatto dal lavoro e, in generale, della piega che la loro musica ha preso nell'ultimo periodo.
Album Of The Year è quindi apparentemente il canto del cigno.
Dodici brani, quarantaquattro minuti: Faith No More così essenziali non si erano mai visti. Semplici, leggeri, a tratti
naif (e da penombra di calura estiva), ma anche raffinati (ci tentano dalla foto anni Venti di copertina). Vengono allo scoperto, hanno qualcosa da dire e lo fanno scavando nei più reconditi ripostigli della gioventù: opportunità mancate, sogni infranti, ma anche persone che, seppur solo per un attimo, sono state care e poi perse per sempre (e non perché sono morte, ma perché non si sono più fatte vedere, che è peggio).
Album Of The Year, alla sua uscita, viene massacrato dalla critica; solo alcuni anni dopo riesce a essere più correttamente rivalutato, almeno parzialmente, e considerato un accettabile canto del cigno per una band capace di procurare assoluta linfa vitale al rock di un intero decennio. In realtà molte delle tracce presentano idee alla base interessanti (il rancore grunge di "Collision", le soluzioni elettroniche di "Stripsearch", la transizione da folk a post-grunge in "Helpless"), ma nella maggior parte dei casi non vengono sviluppate adeguatamente per potersi avvicinare ai ben più energici e innovativi lavori del passato.
Funzionano meglio delle altre il
progressive-goth "Last Cup Of Sorrow", gli ibridi funk-punk "Naked In Front Of The Computer" e "Mouth To Mouth", la
ballad dai tocchi sinfonici "Ashes To Ashes", lo schizofrenico hardcore-punk di "Got That Feeling", le languide e oniriche atmosfere create dalle tastiere nella traccia finale "Pristina". Deludono invece la pseudo-
love song "She Loves Me Not", le stramberie vocali adagiate sopra le percussioni marziali di "Paths Of Glory", lo zoppicante rock di "Home Sick Home".
In genere, prevale lo stesso principale difetto di
King For A Day, ovvero l'eccesso di linearità delle strutture e l'orecchiabilità melodica cercata a tutti i costi, che contribuiscono a togliere spessore emotivo e ricerca sperimentale, relegando la musica a un alternative-rock più manieristico e sporcato dal grunge.
Nell'immediato dopo-Faith No More, Patton riversa mente e corpo in un'infinita lista di progetti musicali, arrivando a fondare nel 1999, insieme a Greg Werckman, l'etichetta attraverso la quale vede la luce la maggior parte di essi, la
Ipecac Recordings. Attorniandosi intelligentemente, e di volta in volta senza compromessi, di protagonisti sublimi dei tempi andati, Patton capitana progetti sempre inaspettati, sempre irridenti, non sempre di qualità, sovente imperdibili
dal vivo. Dato il volume delle pubblicazioni e la forte volatilità qualitativa, ciascuno di essi meriterebbe una scheda a sé, pertanto in questa sede ci limiteremo a riassumere gli episodi più rilevanti.
Con i suoi Mr. Bungle dopo l'esordio escono finalmente
Disco Volante (1995) e
California (1999) a scardinare i confini tra funk-rock, metal e avanguardia.