"Io vidi cose che mi fecero proporre di non dire/
Io spero di dicer quello che mai non fue detto".
Uscita inattesa e singolare per la Ipecac di
Mike Patton, che due anni fa ha confermato la sua vocazione all'eclettismo con questa incursione nella musica d'arte del secolo scorso. Essa fa seguito, per giunta, a due album solisti nel solco della produzione nostrana: così che dopo il
tributo agli anni 60 e il
film score per l'opera seconda di Saverio Costanzo, il trasformista dà alle stampe la registrazione del "Laborintus II" di Luciano Berio (nientemeno), già presentato all'Holland Festival di Amsterdam nel 2010.
L'opera, come suggerisce l'indicazione numerica del titolo, non è altro che il seguito musicale (ma si è parlato anche di teatro-musica) di un omonimo scritto di circa dieci anni prima del poeta Edoardo Sanguineti, il cui stile poliglotta si manifesta come sempre in versi al limite della schizofrenia. Trattasi di un'opera tanto breve quanto furiosa e abrasiva, addirittura caotica nelle suggestioni che trae dall'Inferno dantesco come da Eliot e Pound, mescolandole in un
pastiche pressoché indecifrabile.
È anche una delle massime espressioni della "golosità fonica" del maestro Berio, talentuoso e instancabile sperimentatore nazionale: spesso molto più ardito rispetto ai suoi colleghi, nel 1965 con quest'opera egli dimostra di sapersi già destreggiare facilmente tra musica concreta, free jazz e veri e propri labirinti cameristici. E così, come nel caso del sopracitato scrittore, probabilmente nessuno vorrà (o meglio sarà in grado di) spiegarci i significati profondi che l'opera porta con sé, di modo che non resta altra via se non quella dello smarrimento. Diversamente dall'altro colosso del nostro secondo Novecento - Luigi Nono - nel caso di Berio l'approccio razionale è futile, se non addirittura controproducente: perdersi risulta dapprima necessario e si rivela, solamente a posteriori, utile a un parziale svolgimento di quella fitta matassa che è la partitura.
Questa volta è la superstar Mike Patton ad avere l'onore di dialogare con un'eccellenza dell'interpretazione contemporanea, ovvero l'ensemble Ictus di Brussels: collettivo di grande rilevanza, anzitutto, per aver riportato al pubblico l'innovazione stilistica del compianto
Fausto Romitelli, con ottime registrazioni dei suoi apporti più significativi. L'attuale registrazione del "Laborintus II", nel loro repertorio già da alcuni anni, ha come sicuri pregi la buona qualità audio e una migliore spazializzazione degli elementi, che in precedenza rischiavano di assestarsi quasi su un'unica superficie sonora. Con la conduzione di Georges-Elie Octors non mancano i fondamentali accenti e il vorticoso andirivieni delle singole voci, con i quali si ottiene un maggiore dinamismo nella figurazione mentale dell'enigma.
Tra solenni frammenti di testi antichi e annunci da metropoli postmoderna, il flusso narrativo sfugge al tempo reale e procede per associazioni libere; il ruolo relativamente limitato di Patton, qui in veste di mera voce recitante, viene se non altro evidenziato per mezzo di un primo piano acustico che gli conferisce centralità nei momenti
clou della pseudo-trama. Difficilmente però non si farà caso, come già in "Mondo Cane", ad alcuni inciampi nella pronuncia della lingua italiana, peraltro qui spesso in forma arcaica.
Ictus conferisce la giusta profondità alla partitura attraverso il fluido utilizzo dei fiati, i quali emergono come minacciose stilettate - si direbbe quasi a "fitte" - nel rispetto del più puro stile tardo-novecentesco. Di nuovo sorprendente, e all'epoca lungimirante, l'inserimento di una batteria di stampo jazz in una partitura cameristica, accostamento con cui Berio anticipa di alcuni anni altri talenti allora in ascesa come Alfred Schnittke e Helmut Lachenmann. Ne guadagna la sempre più ampia natura degli stimoli miscelati nella composizione: è nella seconda metà che si materializzano anche le venature di musique concrète incise su nastro, oggi meglio equalizzate in modo da non coprire gli altri elementi; esse segnano l'aggravarsi dei toni e dei ritmi, le strade della strumentazione sembrano perdersi in tante diverse direzioni. Le maglie del caos si addensano al massimo come in un dripping pollockiano, un gorgo che lentamente va dipanandosi in un terrificante vuoto cosmico, in cui le voci ricompaiono a singhiozzo come lampi di memoria. Un'atmosfera che dominerà sino al finale onirico, dove sussurri femminili si incrociano agli ultimi rintocchi di una pendola immaginaria, elemento simbolo della riemersione allo stato di veglia.
Clamore e mistero, linguaggio antico e rapimenti futuristi si avvicendano in questi storici trentadue minuti che sembrano riassumere decine di flussi di (sub)coscienza rimasti a lungo sepolti. L'impatto dell'opera è capace di scuotere nel profondo anche chi la ascolta a così grande distanza di tempo: ma lungi dal professare alcun purismo, la portata "sovversiva" di quella prima registrazione datata 1969, condotta e recitata rispettivamente dagli stessi Berio e Sanguineti, certo non traspare con la stessa limpidezza. La violenza con cui questo incubo atonale dev'essersi avventato sul pubblico del suo contesto storico è ora filtrata in un disco che suona, semplicemente e inevitabilmente, come un sincero e riverente omaggio, senza la pretesa di eguagliare la direzione che il compositore diede con tanta chiarezza alla sua controversa opera.
Quest'ultima pubblicazione, oltre ad aver già deluso i fan del Mike Patton più scatenato, probabilmente farà altrettanto con chi vi cerca un prodotto di facile consumo: d'altronde qui viene trattato, peraltro egregiamente, un mirabile passo della nostra storia musicale, a conti fatti molto più "estremo" di tanti pur lodevoli progetti odierni. Ripescaggi come questi sarebbero particolarmente illuminanti per chi si appresta a proporre nuova musica d'avanguardia, magari all'oscuro delle grandi rivoluzioni che già cinquant'anni fa si realizzavano sul pentagramma. C'era bisogno (come anche no) di scomodare un così noto frontman per arrivarci, ma tant'è.
16/07/2012