Da circa un decennio a questa parte gli Helmet hanno cambiato rotta e, certamente, non si può negare che alle (cattive) intenzioni abbiano fatto seguire i fatti. La svolta patinata, voluta dal leader Page Hamilton a seguito del pur solido “Aftertaste”, ha segnato un tracciato ben definito da cui la band newyorkese non ha, successivamente, più sviato.
Del quartetto di album che segnò l’inizio folgorante della loro carriera, non resta che il ricordo. Un ricordo che reca con sé il sapore dolceamaro della malinconia, perché “Strap It On” e parzialmente “Meantime” ancora oggi troneggiano tra gli episodi più entusiasmanti della scena metal post-hardcore.
Quei lavori, caratterizzati da un approccio nudo e crudo, lodevole quanto spiazzante, col trascorrere del tempo hanno lasciato spazio a una serie di album dimenticabili e trascurabili.
“Dead To The World” è, in ordine di tempo, l’ultimo tra questi sfortunati episodi, definitivo a suo modo, in quanto suggella l’orizzonte degli Helmet odierni: una creatura nelle mani di Page Hamilton. La sua voce, la sua chitarra, e sullo sfondo una band di recenti innesti che si limitano a produrre quel suono post-grunge e furbescamente hard-rock che ha fatto le fortune di tanti. Ma ognuno ha le proprie doti: lì dove Queens Of The Stone Age, Foo Fighters e Pearl Jam riescono, gli Helmet 2.0 falliscono.
Il disco in questione ha quantomeno il merito di durare poco, mezz’ora e poco più; di essere più centrato rispetto al precedente “Seeing Eye Dog”; talune tracce, inoltre, non sono da cestinare a priori (“I Love My Guru”, “Red Scare” e la “Green Shirt” di Elvis Costello). Il resto è privo di mordente, banale rock che sembra scritto e pensato per una festa a bordo piscina di adolescenti californiani.
In definitiva, “Dead To The World” rappresenta il punto d’arrivo scientemente ricercato e perseguito da Hamilton. Con buona pace di coloro che, con un velo di malinconia, conservano il ricordo di ciò che è stato e non è più.
08/11/2016