I Pholas Dactylus, sono una
delle parentesi più interessanti e convincenti nel panorama del rock progressivo
italiano "minore" degli anni 70. Il loro unico album, Concerto delle
menti, pubblicato nel 1973 dall'etichetta genovese Magma, è diviso in due
tracce a causa dei limiti tecnici del vinile e rappresenta una perla nel cosmo
della musica di quel periodo. E' di certo un'opera sperimentale pregevolissima,
scevra dai barocchismi di cui molte volte il progressive si fregia. Più di una suite
dà l'idea di un "pezzo" teatrale, in cui il testo, recitato anziché cantato, ha
la stessa forza emotiva, se non superiore della parte
musicale.
"Tra poco voi salirete su di un
tram." con queste parole sospese nel vuoto strumentale, l'album inizia con un
recitativo inquietante. Inquietante e visionario come tutto il resto del testo,
che proietta l'ascoltatore dentro uno scenario percettivo e
immaginifico.
La voce di Paolo Carelli è
impostata, ipnotica, è quella di un profeta dissennato dal tono minaccioso, che
ti trascina in un mondo lisergico e allucinato. Il testo è scandito da stacchi e
cambi di tempo, sorretto dalla parte musicale che in alcuni casi diventa
trascinante e coinvolgente, in altri si dilata e reitera in una sorta di
psichedelica accennata.
Le tastiere di Galbusera e
Pancotti si intrecciano in una trama di 50 minuti con la chitarra di Colledet su
una matrice jazz che serve come base.
Ci sono
tratti di quiete, in cui la voce è rilassata in aperture di ampio
respiro.
E' un'opera che orbita attorno
alla mente come alternativa a un mondo a cui non si vuole appartenere, ai suoi
viaggi, alla forza dell'immaginazione che dà vita a una serie di allegorie e
simbolismi. E' una fucina di alchimie.
Il testo a stralci ricorda le
pagine dell'Henry Miller più visionario o le righe zeppe di assenzio di
Baudelaire, ma con un senso apocalittico delirante che ci prospetta scenari
decadenti, viaggi a ritroso nel tempo in una visione circolare in cui il primo
giorno ciba l'ultimo. Esseri umani nudi e senza volto, rospi con occhi di gemme,
edifici fluttuanti, un boia, sei angeli di acciaio, un colosso dai piedi di
argilla, una tromba solare, un bimbo di pietra sono tra le figure che
incontriamo nell'incedere narrativo.
La seconda parte del disco
inizia in maniera incalzante, e in alcuni tratti ricorda alcuni album dei
Jethro Tull. Musicalmente è più
coinvolgente della prima parte, dove il testo era molto più
presente.
"Il tempo e lo spazio non ci
sono più" e cosi si arriva alla dissoluzione delle coordinate di riferimento,
l'uomo si perde, rimane fluttuante, sospeso fin quando non si arriva
all'epilogo, recitato su un tappeto corale di gorgheggi, che ha il senso e il
tono di un monito; è drammatico finché, incalzato dalla chitarra, acquisisce
vigore e ci lascia con un interrogativo.
L'opera, che
può sembrare ostica al primo ascolto, risulta alla lunga ben omogenea anche se
non manca talvolta di pretenziosità, non sempre disillusa. Sospesa tra
l'avanguardia di Christian Vander e il rock progressivo più convenzionale dalle
influenze jazz è un'opera che, a differenza di buona parte degli album di rock
progressivo, ha un valore intrinseco: ha il pregio della freschezza di una idea
nuova.