"Forse le lucciole non si amano più" è stato pubblicato nel 1977. E dal 1977 i commentatori sono concordi: è il canto del cigno del progressive italiano, è ben fatto ma è uscito troppo tardi, è poco originale come stile rispetto ai suoi modelli (Genesis, Banco, Gentle Giant). Nel corso degli anni, il disco si è guadagnato la fama di capolavoro presso gli amanti del genere, ma le tre valutazioni di cui sopra sono rimaste inalterate. Sono in effetti ragionevoli e giustificate, ma non riescono a rendere conto del fascino che l'album dopo più di trent'anni continua a esercitare. Per svelarne i segreti, conviene forse adottare un approccio opposto.
In primis, la questione data di pubblicazione. "Forse le lucciole non si amano più" non sarebbe potuto uscire prima. Un po' perché fino al 1976 la formazione era incompleta (mancava ancora Leonardo Sasso, il cantante); un po' - ed è questo il punto sostanziale - perché uno stile maturo come quello della Locanda delle Fate prima di allora sarebbe stato semplicemente impossibile. A differenza degli altri grandi del progressive italiano, infatti, la Locanda delle fate è una band di "seconda generazione": il nucleo del gruppo non si è formato sul beat, sul blues-rock, sulla musica di Woodstock, bensì sul già maturo verbo progressivo che giungeva dall'Inghilterra. I primi brani originali del gruppo di Asti furono da subito modellati su quelli che già allora erano classici del genere: King Crimson, Genesis, Gentle Giant, Yes.
Giungiamo così al secondo punto: l'originalità. Sarebbe un errore bollare la Locanda come "clone". La sua grandezza sta proprio nell'aver trovato la quadratura di un nuovo stile musicale, un "manierismo prog" che nell'emulare i classici ne rivede i canoni in modo sottile ma sostanziale. Se il motore del "rinascimento" progressive erano le nuove tecnologie sonore e l'esplorazione di schemi inediti per la musica pop, il campo da gioco della Locanda è la ricombinazione del già collaudato. Il suo affinamento, la fusione degli altrui spunti in un artificio che non sembri tale.
Fondamentale in questo senso il ruolo di Michele Conta, giovane pianista fresco di conservatorio che, assieme al batterista Giorgio Gardino, elaborò l'ossatura di quasi tutti i brani. Dalle mani di Michele usciva un fiume unico di idee melodiche lontanissime dalle gabbie ritmiche del rock (anche di quello più ostentatamente "dispari"), di cui Giorgio sapeva con grande inventiva portare in evidenza ora uno ora un altro elemento metrico, rimarcandone la mutevolezza senza appesantirle o costringerle in schemi più rigidi. Il manierismo dei pezzi della Locanda si fonda così sulla fluidità di un movimento che non è rintracciabile nei modelli di riferimento, orientati piuttosto agli incastri o alle successioni ben scandite dei "voltafaccia" nelle loro suite.
Nei pezzi che compongono il disco, tutto si muove e si trasforma, niente ritorna uguale. Pianoforte, sintetizzatore, flauto, chitarra elettrica si arrampicano in guizzi imprendibili, che spariscono in un lampo ma si imprimono indelebilmente nella mente. E mentre il flusso multiforme dei temi melodici procede, quei pochi secondi di perfezione continuano a risuonare nella memoria e pervadere le atmosfere di nostalgia.
Eccola: la nostalgia. È lei la chiave del disco, ciò che lo rende unico nel progressive italiano, al punto da guadagnargli la nomea di "canto del cigno" dell'intera scena. "Forse le lucciole non si amano più" non è infatti l'ultimo album progressive edito in Italia (continuano a uscirne anche oggi!), né l'ultimo a essere entusiasmante e personale. È però quello che meglio di tutti incarna la sensazione di "fine di un'epoca", e questo grazie a forma musicale, atmosfere, parole.
Iniziamo dal fondo: in prevalenza opera del cantante Leonardo Sasso, i testi dei brani sono manifestamente aulici, criptici e ingenui. Dietro a molta prosopopea, però, celano un umore fortemente malinconico: la title track è satura del ricordo di un'età dell'oro che non c'è più, "Profumo di colla bianca" è una scusa proustiana per ricordare la magia irrecuperabile dell'infanzia, e anche "Vendesi saggezza" sembra incentrarsi sulla perdita dell'innocenza causata dalla ragione e dalla società. In "Sogno di Estunno" si palesa invece l'elemento centrale del sogno: l'utopismo dei primi anni Settanta è definitivamente in declino, ma in "Forse le lucciole non si amano più" la dimensione onirica vi offre un ultimo rifugio per non scomparire del tutto. Tutti i testi, in effetti, più che narrare storie o lanciare messaggi, sfruttano linguaggio ampolloso e immagini ricercate per evocare un'illusione sfuggente, che le parole non possono definire con precisione.
La stessa chimera verso la quale convergono le atmosfere dei pezzi, senz'altro vicine a molto progressive romantico e sognante (dai Camel ai primi Pierrot Lunaire), ma qui velate di un insopprimibile sentimento di disillusione. È la consapevolezza - rimarcata dal gioco della nostalgia già evidenziato per la musica - che un'era intera si è ormai conclusa.
Come se la musica stessa intuisse la natura ultima del rock progressive: un sogno a occhi aperti, bellissimo ma irripetibile.
19/03/2011