Band francesi
Gli Indochine sono a oggi l’unica band di lingua francese con più di dieci milioni di dischi venduti in carriera. Non è un freddo numero da sbandierare, bensì un dato interessante, essendo la cultura francese da sempre legata a doppio filo alla figura dello chansonnier. Le prime band capaci di ottenere riscontri commerciali considerevoli sono emerse solo a fine anni Settanta, incredibilmente in ritardo rispetto non solo alla scena inglese, ma anche a quella italiana.
A questo si aggiunga una maggiore difficoltà per le band di rimanere sulla cresta dell’onda rispetto a un cantante solista, gli scioglimenti prematuri e le carriere difficilmente più lunghe di una decade, e si comprenderà come mai nella cultura francese venga riservata alla categoria una mitologia alquanto limitata. È questo che rende gli Indochine tanto significativi: hanno sfidato una condizione sfavorevole riuscendo a imporsi e a diventare una delle icone degli anni Ottanta. Sono poi sopravvissuti a un decennio – i Novanta – in cui tutto sembrava andare storto e che avrebbe portato grosso dei loro colleghi a gettare la spugna, sono quindi tornati alla ribalta nel 2002, rimanendoci fino a oggi. Sempre proponendo un pop-rock di qualità e al passo coi tempi, attraversandone i mutamenti stilistici e accettandone le sfide senza mai adagiarsi sugli allori.
Le origini e il boom
La nascita degli Indochine ha una dinamica estremamente veloce. Il chitarrista Dominique Nicolas e il cantante Nicola Sirkis si conosco nel dicembre del 1980, quando entrano nelle fila degli Espions, rock-band parigina destinata a sciogliersi senza lasciare traccia. La loro permanenza nella formazione è molto breve, perché nessuno dei due si trova a proprio agio. Decidono così di distaccarsene e dare vita a un nuovo progetto. Presto il sassofonista Dimitri Bodiansky, conosciuto tramite un’amica comune, si aggiunge al duo.
La neonata band, attenta ai suoni che provengono dalla Gran Bretagna, comincia a scrivere brani dai ritmi briosi, impostati su strutture semplici e ripetitive. Il 29 settembre arriva il debutto dal vivo al Rose Bonbon, locale di culto per la new wave locale, in cui militarono anche Taxi Girl, Suicide Romeo e Artefact. Gli Indochine avevano però un’arma in più: il leader carismatico. Sfoggiando abiti demodé con evidenti rimandi alle uniformi dei regimi anni Trenta, una capigliatura eccessiva, ma soprattutto una voce nervosa e potente, capace di mettere in risalto melodie ancora scheletriche, Nicola colpisce il giovane produttore Didier Guinochet.
Da lì al contratto con una succursale della Bmg è un passo. All’inizio del 1982 il 45 giri “Dizzidence politik” è nei negozi e in copertina la scritta Indochine campeggia a caratteri cubitali sopra l’espressione enigmatica e un po’ insicura del trio. Il brano passa inosservato, ma la band non si scoraggia e prende a bordo Stéphane, gemello di Nicola, che si alternerà fra tastiere e chitarre.
Quando i quattro entrano in studio per registrare il nuovo singolo, l’entusiasmo è tale che finiscono col mettere a punto una manciata di brani. Dopodiché fanno pressione su Guinochet affinché gli conceda il budget necessario per completare il mixaggio a Londra, avvalendosi così di apparecchiature più adeguate. Il produttore accetta, e a posteriori non potrà che ritenersi soddisfatto della scelta, perché il risultato di quelle sessioni è un mini-album passato alla storia del pop francese, L’aventurier.
Il debutto degli Indochine è lungo a malapena venti minuti e contiene sei canzoni acuminate come stiletti. La title track è uno degli inni della new wave, ma soprattutto è un brano che fa riflettere su quanto sia importante avere i mezzi adeguati per registrare musica ambiziosa. Fino a quel momento gli Indochine avevano suonato dal vivo con mezzi di seconda scelta, drum machine rudimentali e amplificatori a basso costo, e se si escludeva la personalità del cantante erano indistinguibili dalla marea di band che popolavano l’underground francese, confluendo nel calderone poi denominato coldwave. Musica che pur vantando ancora oggi un accanito zoccolo di estimatori, appariva perlopiù come una controparte sfigata del post-punk britannico. “L’aventurier” liberò gli Indochine da quel recinto e li lanciò nell’empireo. Prodotta con un budget all’altezza, non soffre alcun complesso di inferiorità e mostra un suono arioso che ancora oggi non ha perso un’oncia del suo miracoloso mix di energia e delicatezza. È un piccolo vulcano di idee e temi melodici memorabili: le tastiere dell’introduzione, che sembrano sorgere dal lontano oriente; il riff di chitarra che proietta il surf rock nello spazio; i refrain sintetici che si susseguono allo scattare del secondo e poi del terzo minuto; la pausa tesa e dissonante che spezza in due il brano; la coda strumentale. Una band synth-pop di basso profilo avrebbe costruito una canzone su ognuno di questi motivi, ma gli Indochine sono in missione e ne sembrano già consapevoli.
È un pezzo talmente potente e programmatico che vi si possono già rintracciare molte delle caratteristiche che avrebbero reso leggendaria la band. L’essere un simbolo rock senza dover ricorrere a muscoli e ostentazioni machiste, facendo anzi del candore il proprio punto di forza. L’aver creato un immaginario positivo dominato dalla fantasia e ricco di speranza, in aperto contrasto con il post-punk anglofono. La capacità di colpire gli adolescenti e generare in loro un forte senso di appartenenza, in particolare nei più sensibili. E infine, l’utilizzo strategico dei videoclip, nello specifico un piccolo gioiello di immagini sovrapposte e filtrate, col faccione androgino e i ciondolanti ciuffi corvini di Nicola sbattuti ripetutamente in primo piano.
Gli altri brani non sono tuttavia meri riempitivi, “Indochine” è anzi fondamentale, e non solo perché ha dato nome alla band: la carica power-pop, le frenetiche linee chitarristiche che si intrecciano e giocano con l’eco, il testo che mette in contrasto gli idoli della musica occidentale (Elvis, Buddy Holly) con scenari vietnamiti densi di mistero, perlomeno agli occhi di un adolescente francese (il golfo del Tonchino, la battaglia di Dien Bien Phu). C’è infine spazio per una bella rilettura elettronica de “L’opportuniste”, dal canzoniere del grande Jacques Dutronc, e per una nuova versione di “Dizzidence politik”, il cui riff ossessivo non ha perso un grammo dell’energia originaria.
Il successo non è immediato: l’album esce nel novembre del 1982 e lì per lì se ne accorgono in pochi, ma nell’estate dell’anno successivo gli Indochine sono la band più cool della nazione. L’Lp si spinge al numero 7 e la medesima posizione viene raggiunta dal singolo della title track: se ne smerciano rispettivamente 210mila e 580mila di copie. Ancora oggi “L’aventurier” è il brano con cui tutti identificano gli Indochine.
Le péril jaune (1983)
Il secondo album esce nel novembre del 1983 e mostra una band in evoluzione. Quello che i pochi brani del debutto hanno solo potuto presentare, viene qui sviscerato e portato alle estreme conseguenze. Le suggestioni orientali occupano sei titoli su dieci, il canto emotivo e nervoso di Nicola si fa logorrea, i ritmi sono sempre più martellanti, ma l’armonia fra i vari elementi non è in discussione.
Sospinta dalle superbe rifrazioni chitarristiche di Dominique e dal potente sax di Dimitri, “La sécheresse du Mekong” trasporta subito l’ascoltatore a migliaia di chilometri di distanza: “Partiti per esplorare una foresta vergine, la regione sconosciuta delle risiere di Kao Bang, disseminata di bestie feroci e cannibali/ Durante la siccità del Mekong restarono isolati dieci giorni dal mondo”. Il bombardamento di nomi incomprensibili crea un senso di spaesamento e di fascinazione per l’esotico con ogni probabilità simile a quello che in simultanea gli italiani stanno provando per le creazioni di Franco Battiato.
L’altro pezzo forte è “Miss Paramount”, che descrive l’appuntamento al cinema con una ragazza e le immagini di film d’avventura di varie epoche. La foga è tale che Nicola arriva a sfiorare il canto vibrato del rockabilly, mentre la seconda parte del ritornello è regno della chitarra effettata di Dominique. Il resto della scaletta è diviso fra sincopi funk (“Kao Bang”), progressioni anfetaminiche (“Razzia”, sorta di remake de “L’aventurier”) e saltuari momenti d’atmosfera (“Okinawa”).
“Miss Paramount” e “Kao Bang” escono come singoli, lì per lì senza particolari riscontri, pur diventando negli anni due cavalli di battaglia durante i concerti. L’album vende comunque 110mila copie in Francia (dove si piazza al numero 12) e 50mila in Svezia, una vampata che purtroppo non si ripeterà, soprattutto a causa della scarsa voglia di volare in Scandinavia per promuovere le uscite successive.
3 (1985)
È per diritto uno dei grandi classici della new wave. Il quartetto decide di rilassare un po’ i toni, ne esce così un disco più variegato, che non rinuncia al dinamismo e alla vitalità, ma mostra una band maggiormente capace di giocare con le sfumature. La raggiunta maturità è certificata anche dall’ampliamento delle tematiche trattate.
Ispirata dalla copertina di “Horses” di Patti Smith, “3ème sexe” è un inno alla diversità e alla tolleranza, in tempi in cui l’argomento non era affatto all’ordine del giorno, perlomeno in Francia: “E si prendono per mano, un ragazza al maschile, un ragazzo al femminile [...] Il grande shock per i più viziosi, è quasi una caccia alle streghe”.
Il brano risulterà nell’immediato un’arma a doppio taglio: gli adolescenti ne ameranno il messaggio di libertà, ma i media ne criticheranno fortemente i contenuti, accusando a più riprese la band di propagandare l’omosessualità. Il tempo gli ha per fortuna reso giustizia e oggi “3ème sexe” è un punto fermo del rock francese, apprezzato trasversalmente per la sua lungimiranza. La base sfoggia chitarre jangle, tastiere d’atmosfera, linee di basso divise fra sintetizzatore e fretless, stratificazioni percussive a cura del turnista Arnaud Devos, e pulsazioni di sax a rinforzare il ritornello. Meglio ancora fa “Canary Bay”, che sfrutta suoni simili e ci aggiunge un intermezzo di campionamenti vocali dal sapore sinfonico. L’andamento militaresco di “Monte Cristo” apporta alla palette una buona dose di epicità, che trova conferma in “A l’assaut”, fra vortici di chitarra acustica e ritornello arioso scandito da sax e scintille sintetiche.
Ispirata dal celebre romanzo erotico di Marguerite Duras, “L’amante”, “Trois nuits par semaine” sorge da celestiali fluttuazioni elettroniche e, fra variazioni melodiche e chitarre tenui come una piuma, mantiene il tono incorporeo per tutta la durata, coda in particolare. L’apice romantico si tocca però nel finale, con “Tes yeux noir”, riflessione sull’abbandono della persona amata, che si dispiega fra ritmi soffusi, chitarre espanse, toccanti melodie di sax, e tastiere che imitano un manto orchestrale.
Il successo è enorme, l’album raggiunge il numero 2, rimane fra i primi venti per un anno e vende 910mila copie, mentre il singolo che contiene i remix di “3ème sexe” e “Trois nuits par semaine” finisce al numero 3 e tocca le 660mila copie. Anche una versione alternativa di “Tes yeux noir” viene pubblicata come singolo e pur fermandosi al numero 8, rimane in classifica abbastanza da raggiungere le 250mila copie: parte del risultato è da ascriversi al supporto televisivo del videoclip, diretto da Serge Gainsbourg e destinato a segnare la memoria di una generazione. Il maestro vi si concede un cameo, a fianco degli allievi più degni che potesse desiderare.
Indochine au Zénith (1986)
Più che per il contenuto, peraltro eseguito in maniera impeccabile, il primo live degli Indochine è importante perché la tournée da cui è tratto pone la band sotto i riflettori dei media come mai prima. Le critiche si fanno sempre più aspre: non sanno suonare, usano una drum machine mentre le band serie hanno un batterista, sanno solo mettersi in posa, e ovviamente sono troppo effeminati. Quando poi Robert Smith, di passaggio in Francia, li nota e li accusa di copiare il suo look, i detrattori si avventano su un simile assist come gli orsi sul miele. Il quartetto soffre la situazione, Nicola in particolare, ma decide di non cadere nella tentazione della polemica e continua per la propria strada.
Il pubblico più giovane gli rimane fedele e l’album non solo vende 250mila copie in Francia, dove tocca il numero 7, ma supera le 100mila in Perù, dove diventa il caso discografico dell’anno. La loro musica ha un tale potere evocativo che, laddove sostenuta da un’adeguata distribuzione, riesce evidentemente a demolire le barriere linguistiche.
7000 danses (1987)
La pressione si fa sentire e la band si prende un periodo di tempo considerevole per elaborare il seguito di 3, mirando a canzoni il più sofisticate possibile. L’uso del Fairlight, già accennato nel disco precedente, diventa massiccio e la produzione si complica, in quanto lo strumento si inceppa spesso e necessita di essere costantemente riprogrammato. Alle sessioni – che si svolgono in più riprese fra Costa Azzurra, Caraibi e Londra – partecipano batteristi del calibro di Mark Brzezicki (Big Country) e Warren Cann (Ultravox), il cui apporto si rivelerà tuttavia irrilevante a detta di Dimitri.
Alcune composizioni guardano addirittura alla musica classica, come dimostra la strumentale “La Bûddha affaire”, che sembra mescolare flauti andini e Prokofiev. A tratti si ha la sensazione che la band abbia eccessivamente dilatato le canzoni, con pause d’atmosfera e uno sfoggio un po’ autocompiaciuto dei vari ritrovati elettronici, ma come al solito non mancano le gemme. “La chevauchée des champs de blé” è un sognante manifesto rock con inserti di tastiere minimaliste, “La machine à rattraper le temps” una ritmata storia d’amore che sposa effetti futuristici e chitarra acustica, “Les tzars” un gioiello techno-pop disegnato su misura per riempire le piste da ballo. E per farsi censurare dalla neonata Mtv, a causa di un videoclip in cui Hitler, Stalin, Mussolini, Che Guevara e Giovanni Paolo II sfilano insieme allegramente.
Considerando la particolarità del prodotto, le vendite sono più che soddisfacenti: numero 5 e 320mila copie in Francia, più altre 100mila nel resto del mondo, la maggior parte delle quali in Perù.
La band decide allora per un tour di quattro date a Lima e dintorni. L’evento è epocale e occupa tutti i media locali per giorni. Su YouTube si può rintracciare una registrazione integrale del concerto più celebre, quello al Coliseo Amauta, per quanto l’audio sia piuttosto mediocre. I giornali peruviani evitano tuttavia di raccontare un retroscena piuttosto scomodo: l’organizzazione di uno degli eventi venne infatti subappaltata a un potente narcotrafficante locale, che tenne la band segregata per giorni nei propri appartamenti. Lasciato il Perù a un passo dall’incidente diplomatico, gli Indochine giureranno di non metterci più piede. Il loro successo locale andrà da lì in poi scemando, per quanto la band sia ancora oggi viva e vegeta nell’immaginario collettivo come uno dei simboli degli anni Ottanta.
Le baiser (1990)
È la fotografia di uno dei momenti più duri per la carriera della band. Anzitutto per la defezione di Dimitri: Dominique e i fratelli Sirkis lo allontanano di comune accordo, dopo essersi resi conto che le sue condizioni peggiorano giorno dopo giorno, sia a causa della dipendenza dalle droghe, sia per lo stress fisico provocato dalle tournée. Benché Dimitri si ritenga ancora in grado di proseguire, accetta la decisione dei compagni e lascia la band, pur mantenendo l’indissolubile rapporto d’amicizia con Nicola.
In secondo luogo, emergono i primi scricchiolii fra Nicola e Dominique: il chitarrista è stanco del fatto che, nonostante gran parte dell’elaborazione musicale dei brani ricada sulle sue spalle, i riflettori siano puntati tutti sul cantante. Frustrato per la situazione, decide di non partecipare alla tournée a sostegno del nuovo album, costringendo all’immobilità l’intera band. Nicola racconterà in seguito: “Mi rendo conto ogni giorno che la gente guarda solo me, e questo dev'essere stato difficile per lui. Non lo sopportava, ma non ne avevamo mai discusso veramente. C'era un problema di ego che risaliva ai tempi de L'aventurier. Anche per questo avevamo scelto di non comparire mai in foto sulle copertine degli album”.
Nonostante la situazione critica, Le baiser è un lavoro ammirevole e mostra una band senza alcun timore, che mescola rock e strumenti inusuali, fra parentesi dance e new age. Grazie anche all’aiuto del produttore Philippe Eidel, grande appassionato di world music, gli Indochine comprendono da subito verso quale direzione si sarebbero mossi gli anni Novanta. Il singolo è “Des fleurs pour Salinger”, con i suoi archi orientaleggianti a far da contrasto al basso programmato, a due passi dalla musica house (si tratta di sonorità curiosamente vicine a quelle del coevo Battisti panelliano). Il testo è una biografia compressa e romanzata del celebre scrittore: “Nella sua stanza con il suo culto, molto prima che la psiche americana si infatuasse dello zen, lui si è ritirato dal mondo, dal mondo intero. Ecco dei fiori per Salinger, ospite di un monastero”.
“More…” è un imponente paesaggio dalle tinte mistiche: tastiere a tappeto, santur (antico strumento a corde iraniano) e percussioni meccaniche, che lentamente si ammassano fino a sfogarsi in un mosaico di riff elettrici. La title track è una vignetta di rock minimalista che rinuncia alla batteria, ma non a far battere il suo cuore elettrico. “Les plus mauvaises nuits” si basa su esotismi non distanti dai Japan di David Sylvian. “Punishment Park”, in duetto con un’eterea Juliette Binoche, sfoggia un’introduzione di archi minimalisti e scatta quindi in una leggiadra cavalcata elettroacustica.
Il disco si ferma al numero 9, ma riesce a piazzare 190mila copie.
La traversata del deserto
Nel 1990 il trio comico Les Inconnus pubblica “Isabelle a les yeux bleus”. Se la canzone è una parodia di “Partenaire particulier”, inno new wave a firma della band omonima, il video prende invece di mira gli Indochine, fratelli Sirkis in particolare. L’intera nazione si trova a deriderli e a poco serve la mossa, pur simpatica, di registrare quel pezzo a loro volta. In retrospettiva si può individuare in questo episodio il momento in cui gli Indochine iniziano a diventare impopolari.
C’è comunque ancora spazio per il successo di Le Birthday Album 1981-1991 (numero 3 e 410mila copie). È un’antologia importante in quanto riunisce le hit della band nelle versioni apparse sui singoli, spesso diverse da quelle degli album. Contiene inoltre il gradevole inedito “La guerre est finie”.
Dopodiché arriva il crollo: la band viene all’improvviso ritenuta superata, si parla di loro come di residuati degli anni Ottanta incapaci di aggiornarsi e nessuno sembra più interessato a ciò che propongono. Un jour dans notre vie (1993) e Wax (1996) vengono comprati soltanto dai loro fan più incalliti: rimangono entrambi in classifica una sola settimana, raggiungendo rispettivamente il numero 29 e il numero 27 (venderanno uno 19mila e l'altro 17mila copie).
Vanno invece bene l’antologia Unita (1996) e il disco dal vivo Indo Live (1997): facendo leva su una scaletta di classici raggiungono rispettivamente il numero 6 (170mila copie) e il numero 12 (220mila copie). Gli Indochine sono ormai la tipica band il cui pubblico aspetta impaziente che durante i concerti arrivino “le canzoni vecchie”. Nel frattempo la Bmg li scarica e si accasano presso la Sony.
Eppure il nuovo materiale è tutt’altro che stanco. Un jour dans notre vie mostra anzi suoni in perfetto sincronismo con quelli del rock anglofono, come dimostra la splendida title track, che sembra anticipare “Girls And Boys” dei Blur, ma la cui melodia struggente si presta benissimo alle riletture intimiste che sarebbero giunte dal vivo molti anni più tardi. Non parliamo poi del refrain chitarristico che spunta a 2’20’’ in “Sur les toits du monde”, clamorosamente simile a quello di “Diamond Sea” dei Sonic Youth, uscita due anni più tardi.
Se “Savoure le rouge” è il loro brano in stile Madchester, l’ansiogeno “Vietnam Glam” è pressoché spiegato dal titolo e “Crystal Song Telegram” propone un’inedita visione spaziale del battito rhythm and blues già tipico di Bo Diddley (il testo è invece una dedica di Nicola al fratello e ai suoi problemi con la droga). Non si capisce davvero come all’epoca si potessero ritenere superate canzoni del genere: molto più probabile è che fossero tutti intenti a sentire altro. I Noir Désir per esempio, che raggiunsero la consacrazione definitiva proprio in quegli anni.
Al termine del fallimentare tour del 1994, Dominique abbandona la band: non sopporta il calo di successo e soprattutto non sopporta più Nicola. Dopo quattordici anni di logorio, la corda s’è spezzata. Quando iniziano le sessioni di Wax, la band è ormai ridotta ai soli Sirkis, che non riuscendo però a fronteggiare la composizione e l’arrangiamento di un album da soli – essendosene sempre occupato Dominique fino a quel momento – assumono come membri effettivi i produttori Jean-Pierre Pilot (tastiere) e Alexandre Azaria (chitarre), nonché il bassista Marc Éliard, già utilizzato dal vivo anni prima. L’opera soffre diversi punti morti, comprensibili dato il riassestamento della formazione, ma come al solito non manca il materiale degno di essere tramandato: la power ballad suediana “Kissing My Song”, il siluro distorto “Satellite”, la marcetta elettronica “Drugstar”, in cui ricompare Dimitri come ospite al sax.
Dancetaria (1999)
Quando sembra che peggio non possa andare, le condizioni di salute di Stéphane si aggravano. Sfinito dall’epatite C, muore il 27 febbraio 1999, neanche quarantenne. Nicola si ritira per qualche mese in Bretagna, per elaborare il lutto. In seguito dichiara: “Da quel momento ho smesso di credere in Dio, prima credevo almeno un po’, ma la morte ha spazzato via tutto”. Mostrando una forza impressionante, il cantante – ormai ultimo membro della formazione storica – decide di proseguire e include nel nuovo album quattro brani composti dal fratello prima della fine. Sono ovviamente quelli a cui rimarrà più affezionato, in particolare “Atomic Sky” e “Stef II”, inseriti nelle scalette dei concerti ancora oggi.
Il disco è però importante soprattutto perché segna l’incontro fra Nicola e Olivier Gérard, giovane fan degli Indochine che un giorno gli spedisce delle cassette in cui si è dilettato a remixare i loro classici. Nicola è talmente colpito dal risultato che manda immediatamente a chiamare il ragazzo e gli affida l’arrangiamento del nuovo album. Appassionato delle tendenze elettroniche del periodo, Gérard non si fa problemi a tentare commistioni vicine a quelle di Chemical Brothers e Moby, mentre altrove si avvicina al pop ricercato di Cardigans, White Town e altri nomi oggi dimenticati dai più.
La title track è una collisione di sette minuti fra techno e arrangiamenti orchestrali, “Astroboy” si piazza da qualche parte fra hardcore e trance, “Justine” sposa saturazioni chitarristiche e ritmiche downtempo, “Atomic Sky” è un vellutato inno alternative dance. Le chitarre dominano invece le atmosfere romantiche di “Just toi et moi” e il power pop di “Stef II”. L’album raggiunge il numero 14 e vende 70mila copie.
Paradize (2002)
All’inizio del 2000 la Bmg prova a speculare sulla morte di Stéphane progettando una raccolta di vecchi successi, Génération Indochine, che fa in tempo a raggiungere il numero 3 e a superare le 240mila copie, prima che Nicola porti in tribunale l’etichetta e riesca a bloccare l’operazione.
Nel gennaio del 2001 esce il live acustico Nuits intimes (numero 22, 50mila copie), dopodiché viene composta una squadra per lavorare al nuovo album: è così che a Olivier Gérard e Marc Éliard si aggiungono Boris Jardel (chitarre) e Matthieu Rabaté (batteria).
Il risultato è un ambizioso progetto di quindici canzoni per oltre settanta minuti di durata, che la Sony cerca di indirizzare verso un pop-rock levigato e vendibile, soprattutto quando si rende conto dell’asprezza dei suoni elaborati da Olivier. Nicola ha però piena fiducia nel compagno e impone la sua linea.
La title track decolla sulle note di un ingannevole synth dal sapore new wave, ma è presto chiaro che le coordinate siano altre, non appena scattano batteria filtrata, chitarre urticanti e imponenti cori elettronici. La voce di Nicola, da sempre particolarmente espressiva, si è con gli anni avvicinata a quella di Dave Gahan, benché disponga decisamente di più soluzioni, come dimostrano i falsetti eterei che spuntano qua e là. Per aumentarne il fascino mimetico, viene inoltre deformata alla bisogna da vari trattamenti elettronici.
Il suono granuloso degli strumenti, chitarre in primis, piazza l’album in territori inequivocabilmente vicini a quelli di Marilyn Manson e Nine Inch Nails, sposandoli al senso melodico di Nicola e generando un sorprendente ibrido fra chanson e rock industriale. La nuova formula sembra espandere all’infinito quelli che da sempre sono tratti caratteristici della musica degli Indochine, come epicità, malinconia, fantasia e romanticismo adolescenziale. Per questo “Electrastar” è forse il capolavoro del disco, il brano che racchiude tutti gli elementi e li libera in uno dei loro ritornelli più potenti. E non a caso il testo è dedicato a Stéphane: “Mi sarebbe pertanto piaciuto proteggerci, ti vedo cadere in battaglia ma non dimentico, il tempo s'è fermato ma tutto è continuato, e fa male”.
Più veloce e satura che mai, “Punker” è spinta dal puntellare di un piano elettrico, mentre “Mao Boy” allenta la tensione con archi e dolci partiture sintetiche. Il testo è tuttavia un altro quadro disilluso sulla morte: “Un giorno comprenderai, degli dei qua e là, che tutto ciò non esiste”. La delicata melodia di “Dunkerque” viene sommersa da un marasma di suoni (chitarre acustiche, distorsioni, programmazioni, ottoni, tamburi, sonagli, cori, synth che si prodigano sia in riff di ricamo, sia in sibili cacofonici), mentre “Dark” riesce a respirare, poggiandosi su scie elettroniche d’atmosfera e basso alla Peter Hook. Se “Marilyn” è un omaggio sin dal titolo e riprende l’andamento di “Disposable Teens”, l’orecchiabilità al vetriolo di “Popstitute” si scaglia, pur mediante metafore, contro la figura del papa: “Non ho più voluto perdere il mio tempo, a ripetere tutto quello che so già [...] voglio solo provare un giro in paradiso, voglio solo fare un giro all'inferno [...] ora che abbiamo l’età per capire tutto, odiare tutto è ciò che abbiamo imparato”. Nella ballata pianistica “Le grand secret” Nicola duetta con Melissa Auf Der Maur, in quello che è il momento più delicato dell’opera (il pezzo venne criticato dalla Sony per l’assenza di una sezione ritmica, ma alla fine uscì ugualmente come singolo).
Per quanto gran parte della scaletta sia firmata da Nicola e Olivier, per la prima volta in un album della band compaiono brani di autori esterni. Il geniale cantautore Jean-Louis Murat, tramite un amico comune, dona loro il bozzetto intimista “Un singe en hiver”, mentre “J’ai demandé à la lune” proviene da Mickaël Furnon, raccomandato a Nicola dal produttore esecutivo Hervé Lausanne. La band di Furnon, i Mickey 3d, sarebbe poi diventata un nome di peso della scena alternativa francese. Tuttavia nelle intenzioni dell’autore il pezzo era un lento per chitarra acustica dalla struttura tutt’altro che esaltante, nonostante una melodia peculiare. Olivier lo trasforma in una marcia dal ritmo stentoreo e carico di tensione, traversata da un inquietante fischio elettronico e sublimata nella seconda strofa dalla voce di Pauline Léonet, all’epoca otto anni di età, figlia di un amico di Nicola. Il risultato è un pezzo che non somiglia a nessun altro, non stupisce quindi che sia capace di risollevare la carriera della band. Pubblicato come singolo, raggiunge il numero 1 e vende 800mila copie, mentre l’album, picco al numero 2, ne totalizza un milione e 140mila.
Oggi come oggi, Paradize è considerato uno dei capolavori del rock in lingua francese, e chi scrive non ha argomenti contrari a questa teoria. Dalla sua trionfale tournée viene tratto il doppio live 3.6.3 (2004), che fra Cd e Dvd vende 170mila pezzi, diventando curiosamente il primo album della band a raggiungere il numero 1, a distanza di ventidue anni dal debutto.
Alice & June (2005)
Un nuovo batterista François Soulier, debutta in questo concept-album di un’ora e mezza per ventidue canzoni. Introspezione, critica sociale e allucinazioni da “Alice nel paese delle meraviglie” si mescolano allo scopo di raccontare la storia di due ragazzine morte suicide. Il suono si è smussato, spostandosi verso un indie-rock con ritmi serrati e linee di basso post-punk, non distante da quello che si sta sviluppando nel frattempo a nord della Manica, ma con arrangiamenti più variegati della media e una produzione maestosa.
Il passo è più lungo della gamba, ma in mezzo alla valanga di materiale si scovano diversi momenti memorabili: il contrasto fra canto estatico e chitarre vorticose di “Les portes du soir”, che ricorda i Bunnymen; la corsa a perdifiato della title track, fulcro di tanti concerti da lì in avanti; “Gang Bang”, metafora pornografica che narra in realtà una storia d’amore; “Ladyboy”, che segna il momento in cui Alice e June decidono di vivere insieme e sfidare il mondo circostante (l’arrangiamento punta quindi su elementi sottilmente disturbanti, mirati a creare una sensazione di incertezza, come le stonature del pianoforte e il coro infantile che si ripete incessante). La ballata “Pink Water 3” non è invece fra le migliori, ma se ne parla molto per via della partecipazione di Brian Molko (si conti che in Francia i Placebo hanno molto più successo che in Gran Bretagna).
L’album va al numero 1 e vende 340mila copie. Dal suo tour vengono registrati due doppi album dal vivo: Hanoï (2007, numero 1, 100mila copie), con orchestra sinfonica, e Alice & June Tour (2007, numero 15, 90mila copie).
La république des meteors (2009)
È la versione riveduta e senza ridondanze dell’opera precedente, un affresco di rock alternativo sui generis dove le chitarre generano un muro di suono incessante, distinto di volta in volta dagli strumenti più diversi (oltre a tastiere e quartetti d’archi, si possono udire ukulele, pianoforte giocattolo, bandoneón e xilofono). L’energia sinfonica e la ricchezza melodica di questi brani ha ben pochi uguali nel rock anglofono degli anni Duemila.
Il tastierista François Matuszenski, nuovo ingresso in formazione, si distingue da subito componendo il cadenzato gioiellino chamber pop “Le lac”, in seguito pubblicato come singolo. Il resto della scaletta è comunque dominato dagli arrangiamenti di Oliviér e dalle atmosfere tragiche di Nicola, che è rimasto colpito dalla lettura di una serie di lettere anonime scritte da giovani soldati durante il primo conflitto mondiale. Il tema della separazione e lo sfondo della guerra sono così ricorrenti tanto nei testi, quanto nei videoclip, costruiti con immagini di repertorio del ‘14-‘18.
La bomba elettrica “Go Rimbaud, Go!” è dedicata a uno dei più celebri viaggiatori della cultura francese, il poeta maledetto che passò buona parte della sua vita lontano da casa; “Little Dolls” racconta sin dal titolo la condizione dei soldati, bambole senza valore che combattono per cause che non gli appartengono, mentre gli strumenti scorrono torrenziali (la batteria-incudine, l’epico giro di piano, i coretti minimalisti in sottofondo); nel folk marziale di “Le grand soir” si racconta la sera di Natale vista dagli occhi di un ragazzo che ha appena ucciso un nemico in battaglia (“E i miei vent’anni sono morti qui, e i miei vent’anni sono morti qui con lui”). Guidata da un bel riff sintetico, “Play Boy” allenta la tensione tornando sui sentimenti adolescenziali cari a Nicola, mentre “L World” è una dedica alla sua ex-compagna, che inizia e termina come un quadretto intimista, salvo premere l’acceleratore sulle chitarre nei due minuti centrali.
C’è però un pezzo che si staglia sugli altri, “Un ange à ma table”, in duetto con la misconosciuta Suzanne Combo. È la storia di una coppia separata dalla guerra, con il soldato al fronte che si perde nei ricordi e la sua amata che, rimasta in un paese dove ci sono più solo donne e anziani, vede scorrere i giorni tutti uguali e immobili, convincendosi pian piano che lui sia morto. Le minacciose progressioni d’archi, il ritmo serrato, i synth un attimo a tutto volume e subito dopo frantumati in mille rivoli, l’accavallarsi delle voci, gli spessi strati chitarristici, tutto contribuisce a ingrossare il dramma raccontato.
Il disco entra al numero 2 e vende 280mila copie, ma ciò che rende meglio l’idea della popolarità del nuovo corso è la tournée che segue, che annienta ogni record possibile in terra francese. Il culmine è il concerto allo Stade de France del 26 giugno 2010, che genera il live Putain de stade (2011, numero 2 e 60mila copie). Il relativo Dvd è uno dei più grandiosi documenti visivi della storia del rock e contiene quello che di fatto è il miglior concerto mai tenuto dalla band, un carro armato musicale di due ore e mezza.
Black City Parade (2013)
Ormai trovata la formula perfetta, la band si ritaglia uno spazio indipendente dalle mode circostanti, una sorta di moto perpetuo del rock più ricercato. E torna al centro delle polemiche dopo anni, a causa del video di “College Boy”, diretto da Xavier Dolan. Colpito dalla visione del film “Les amours imaginaires”, Nicola desidera che il giovane regista canadese curi un clip per la band. I due entrano così in contatto e comunicano tramite e-mail durante la realizzazione. Si conosceranno di persona solo dopo l’uscita del singolo.
“College Boy” è l’inno di turno contro il bullismo e la discriminazione, in particolare nell’ambiente scolastico, una piaga che continua a mietere vittime ogni anno e che Dolan dipinge tramite scene d’una violenza parossistica, con tanto di crocifissione, plotone d’esecuzione e adulti bendati che fingono di non vedere. Nicola canta “Comprendo che è dura essere diversi, per questa gente/ Quando sarò sicuro di me, un po’ meno fragile, funzionerà”, mentre un possente rock sintetico si apre in continue evoluzioni melodiche, con almeno quattro segmenti diversi a creare un crescendo sinfonico. Anche “Memoria”, l’altro singolo, punta tutto sull’accumulo, sorgendo da un solenne organo elettrico, per poi erigere un muro di riff elettrici, trame acustiche e simulazioni di canti gregoriani.
Degni di nota i momenti che tornano a flirtare con la dance, come “Belfast” e la title track, ma l’apice è forse “Le fond de l’air est rouge”, titolo in prestito dal film di Chris Marker, che si apre con un etereo lamento femminile e si libra in un nuovo, disperato grido contro il mondo che non rispetta le minoranze: “E noi lassù, e tutti i nostri vascelli, il giorno sarà rosso/ E poi lassù, sfidare il cielo e tutte le bandiere/ Marceremo insieme, noi angeli malvagi, noi disonorati/ La vita non ci toccherà…”.
Sono canzoni così che spiegano il senso di protezione e comunità generato dagli Indochine sin dai tempi di “3ème sexe”, e ammirevole è riscontrare come in oltre trent’anni di carriera Nicola non sia stanco di mettersi in posizioni scomode pur di fornire un appoggio, anche solo simbolico, a chi ne segue le gesta. È per questo che i loro concerti hanno un pubblico così trasversale per età, look, estrazione sociale.
L’album va al numero 1 e tocca le 220mila copie, la tournée che segue eguaglia la precedente, concedendosi due sold out consecutivi allo Stade de France. C’è chi vende più dischi degli Indochine in Francia, ma nessuno che attiri più gente dal vivo e il motivo è presto spiegato: spettacoli mai sotto le due ore, spesso sopra le due ore e mezza, suonati da musicisti navigati, con un frontman che sembra aver fatto i patti col diavolo, un repertorio che attraversa quattro decadi di cultura popolare francese e brani nuovi capaci di reggere il confronto coi classici (cosa che si può dire di pochi artisti al mondo, soprattutto fra quelli che hanno debuttato all’inizio dagli anni Ottanta).
Anche questa volta ne vengono tratti due doppi album: Black City Tour (2014, numero 10, 60mila copie) e Black City Concerts (2015, numero 25, 80mila copie).
13 (2017)
Soulier e Matuszenski non sono più della partita, mentre alla batteria entra lo svedese Ludwig Dahlberg, già fondatore degli International Noise Conspiracy. Sono movimenti che ormai non spostano l'asse creativo di un centimetro: Sirkis e Gérard compongono e producono il disco a quattro mani.
"La vie est belle", singolo di lancio dell’album, è stata scritta insieme a Mickaël Furnon, che nel corso del tempo ha mantenuto i contatti con la band. La strofa accumula tensione grazie all’assenza della sezione ritmica, per poi sciogliersi durante il ritornello, dai toni più tenui. I raffinati giochi ad incastro di elettrica arpeggiata, synth e cori vanno a rifinire il mosaico e a comporre uno dei migliori inni della fase matura degli Indochine.
La veste scelta questa volta dalla band per risultare vitale è un parziale ritorno alle origini. Certo quello che si sente risuonare tra queste quindici tracce non è solo un sunto di pop anni Ottanta, ma trae spunto anche delle tendenze epiche e drogate della scuola sintetica angloamericana più recente.
Quindi, in "Henry Danger" sembra di affogare nelle sonorità narcotiche dei Crystal Castles, mentre la grandeur meccanica di canzoni come "2033", "Station 13" o "Kimono dans l’ambulance" richiama i vari Electric Youth, Glass Candy, Hurts e in generale quel movimento cristallizzatosi nella colonna sonora del film "Drive" di Nicolas Winding Refn.
La penna degli Indochine è tuttavia più ispirata di quella dei gruppi citati, tanto che i brani vengono lasciati liberi di fluire per parecchi minuti, senza mai risultare stanchi (si pensi all’impeccabile crescendo sinfonico di "Black Sky" o alle continue micro-variazioni vocali della succitata "Kimono...").
Alcuni dettagli lasciano sbalorditi per la maestria messa in campo: "Un etè francais" e "Song For A Dream" sfoggiano lo stesso giro armonico, semplicemente spostato di un paio di semitoni, eppure non suonano per niente simili. La prima è infatti un trasognato indie pop con un riff portante di chitarra jangle, la seconda un numero pop d’alta scuola, sapiente nel gestire le dinamiche tra una strofa soffice e pianistica, un pre-chorus inondato di massicci power chord, e un liberatorio tema chitarristico neworderiano nel ritornello.
Da segnalare la partecipazione di Asia Argento, che dirige il drammatico video di "La vie est belle" e canta in "Gloria", brano più lungo della scaletta.
L'album entra al numero 1 e rimane a lungo in classifica, vendendo mezzo milione di copie. La band che visse due volte sembra insomma lungi dall’aver esaurito il proprio potenziale.
Si ringraziano Adrian Vaindoit per le numerose consulenze, e Giacomo Rivoira, sulla cui recensione per Ondarock è stata basata la descrizione dell'album "13"
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