Gli interpreti di un'epoca
Quella dei Placebo non è che la storia di una delle tante band che, verso la tarda metà degli anni Novanta, fioccavano come funghi a ritmo forsennato in Gran Bretagna. Si potrebbe dire – e si andrebbe decisamente molto vicini alla realtà effettiva – che il maggior punto a favore della loro esplosione fu una discreta fortuna nell'azzeccare incontri giusti nei momenti giusti, benché sarebbe decisamente poco veritiero soprassedere su quelli che sono stati i meriti altrettanto decisivi di Brian Molko e compagni. Primo fra tutti l'aver saputo interpretare con lungimiranza un'epoca, come quella di fine millennio, dove la musica rock, fuoriuscita dalla morsa del grunge, si ritrovava a fare i conti con una netta difficoltà nel trovare linguaggi inediti ma al tempo stesso in grado di mantenersi fedeli alla definizione stessa. Per oltrepassare questo muro, vi fu chi trovò un varco nella contaminazione fra mondi diversi, chi si gettò in netti recuperi del glorioso passato e chi tentò di proseguire per la strada (quasi sempre a fondo cieco) intrapresa nel decennio precedente: senza volersi soffermare su dinamiche decisamente variegate e che meriterebbero ben più complesso approfondimento, il risultato fu un processo di “globalizzazione” della musica rock, a livello geografico tanto quanto sonoro, che ebbe come conseguenza pure il riversamento di parte di questo nuovo ibrido nel mondo del mainstream.
Sempre maggiore sarebbe divenuta la difficoltà nel categorizzare, distinguere e scindere le influenze alla base del sound di una moltitudine di band, parte delle quali sarebbe riuscita – con quello che si può opinare si sia trattato di merito o demerito – a semplificare forme d'arte fino a prima decisamente più ostili (il revival punk e il suo incontro con il pop ne furono la dimostrazione più calzante) sino a renderle merce appetibile per le classifiche di vendita al pari del pop più puro. In questa cornice culturale, dunque, il grande merito dei Placebo fu quello di aver intuito la necessità di un'arma di distinzione che andasse oltre la sola espressione musicale e che essi individuarono nell'immagine, nella teatralità della figura androgina di Brian Molko. Un frontman in grado di vestire, alternandoli, i panni dell'adolescente paranoico, della glamstar peccaminosa, del rude stupratore di chitarre e del tormentato pensatore oscuro. Un attore perfetto per la sua epoca, quella - come detto - dell'incontro-scontro e dell'intreccio fra correnti culturali in precedenza rivali e inconciliabili, come quelle che si ritrovano in dosi variabili anche solo da brano a brano nella musica dei Placebo.
Una musica che di fatto non è che un miscuglio delle velleità già incarnate nell'attitudine tanto quanto nel vestiario del loro leader e simbolo: il glam-rock chitarristico della seconda generazione britannica (Suede), il revival garage (Pixies), il lato più perverso dell'eredità grunge (Alice In Chains) ma anche quello più tormentato (Soundgarden), più la passione per gli oscuri psicodrammi punk-wave (Echo And The Bunnymen). Il tutto confezionato in una miscela condita con una spiccata propensione al melodismo e alla forma-canzone, elementi che si riveleranno decisivi per il successo commerciale del trio. Una mescola gradevole quanto energica, appetibile quanto “alternativa”. Tutto qui, si potrebbe dire. Non fosse che la grande differenza fra i Placebo e la gran parte degli (spesso decisamente più talentuosi e originali) contemporanei è stata l'incredibile capacità del trio di fare propria una miscela costruita sul citazionismo, al punto tale da renderla un autentico marchio di fabbrica, sul quale in ogni caso l'inconfondibile ugola metallica di Brian Molko ha giocato un ruolo di primaria importanza, fungendo di fatto da collante primo per l'apposizione del sigillo.
Oggi, ascoltando un loro brano, viene spontaneo in primo luogo individuarne la paternità, riconducibile solo ed esclusivamente al marchio Placebo, piuttosto che le (ancor oggi) numerosissime influenze riconducibili per via diretta ai loro storici modelli: è questa la grande vittoria del trio, assieme a un successo commerciale che ha inserito una manciata di loro singoli nel canzoniere rock degli anni Dieci, dal quale nulla e nessuno potrà mai escluderli.
L'incontro e i primi anni
“È una domanda a cui è effettivamente difficile rispondere.
Come musicista cerchi sempre un nome per la tua band che ti rappresenti e non ci riesci mai
perché, di base, tutti i nomi che trovi perdono il loro significato dopo un po'.
La cosa più importante per un nome è che tu possa immaginarti
quattromila persone che lo urlano all'unisono”
(Brian Molko sulla scelta del nome Placebo)
La storia sull'incontro e sulla nascita dei Placebo è in buona parte molto simile a quelle che si sente ripetere per quasi tutte le rock band che videro la luce a cavallo negli scorsi due decenni: Brian Molko e Stefan Olsdal sono due studenti emigrati in Lussemburgo per frequentare la prestigiosa American International School Of Luxembourg, entrambi appassionati di musica ma decisamente troppo timidi per avventurarsi a condividere le loro esperienze. Durante gli anni di permanenza a scuola i due non arrivano mai ad approfondire la loro conoscenza, tanto che – ed è questo l'unico elemento fuori dal comune – il loro primo vero incontro avviene dopo il rientro a Londra. Olsdal sta prendendo lezioni di chitarra, Molko lo vede con lo strumento appresso, lo ferma e gli chiede di assistere a una sua esibizione. Quando Stefan intuisce le doti di Brian, gli propone di fondare una band e cercare un batterista da aggiungere alla tipica line up r'n'r: è il 1994 e prendono così vita gli Ashtray Heart, a cui si aggiungerà pochi mesi dopo il batterista Robert Schultzberg, inizialmente preferito a un amico di Molko in quel periodo troppo impegnato: Steve Hewitt. I tre cambiano nome in Placebo e iniziano dunque a sfogare compulsivamente tutta la passione fino a quel momento tenuta a freno, e mettono da parte una grande quantità di materiale, parte del quale viene mandato sotto forma di
demo a varie etichette londinesi. Ad accettare per prima è la Deceptive Records, che prende in consegna e pubblica il singolo “Come Home”.
Questi primi Placebo non sono che un embrione di quello che la band diverrà negli anni a venire: il primo singolo è una veloce e sgraziata marcetta pop-punk “per suicidi rimandati”, come sarà lo stesso Molko a dichiarare parecchi anni più tardi. Ma tanto basta perché il produttore Brad Wood intuisca il potenziale, almeno all'inizio più commerciale che artistico, di Molko e compagni e procuri loro un importante contratto con Virgin, che li infila inizialmente nel catalogo Hut, dedicato alle proposte
indie-oriented britanniche. È il 1995 e i tre iniziano le
session di registrazione per il loro primo album, completato in meno di un anno con mezzi a dire il vero piuttosto limitati.
Placebo segue il trend del singolo ponendosi come il capostipite del
sound che verrà poi evoluto nel disco successivo: un garage-rock melodico dalle venature punk e dai testi da crisi post-adolescenziali, non particolarmente assistito da una produzione scarna e da una complessiva sensazione di incompiuto. Al disco non mancano una serie di singoli fortunati, che contribuiscono a far notare fin dal principio la band dalle parti delle chart britanniche: l'oppressiva e paranoica “Bruise Pristine”, la più veloce e scorrevole “36 Degrees” (con tanto di testo macabro, interpretabile come allusione a posizioni sessuali tanto quanto alla temperatura del sangue umano), la cruda e dissonante “Nancy Boy” e l'evanescente “Teenage Angst”, possibile manifesto contenutistico dell'intero lavoro.
L'impressione di fronte alla gran parte dei brani è quella di un potenziale evidente ma non ancora espresso al massimo, eccessivamente ancorato a strutture tematiche e musicali ancora acerbe: casi emblematici sono quelli di “Bionic”, prima espressione del Molko peccaminoso intento a descrivere una scena di sesso tra due robot, della ballata plastica “Lady Of The Flowers” e della conclusiva e coraggiosa cavalcata “Swallow”. La coda strumentale di “H.K. Farewell”, prima di una tradizione di chiusure “a sorpresa”, che perdurerà fino a
Black Market Music, è invece il primo indizio: i Placebo non sono solo la “solita buona band di revival garage”, come invece questo primo album sembra suggerire.
Placebo è, con il senno di poi, il frutto di una band trovatasi a sorpresa catapultata in un mondo complesso come quello del
music business senza la possibilità di passare mediante alcune, fondamentali tappe. E come spesso capita in questi casi, l'inatteso successo del disco, che riesce a piazzarsi addirittura quinto nelle classifiche di vendita in patria, funge da autentica ubriacatura per i tre. Sono in particolare Schultzberg e Molko a subire gli effetti della mancata abitudine a un ambiente all'epoca più che mai pieno di insidie: il primo, già distrutto interiormente da una serie di problemi psicologici, arriva a sfogare – a dire dello stesso Molko – il suo “odio contro il mondo” sulla band, cogliendo ogni occasione per sviluppare negatività su ogni decisione da prendere. Versione, quest'ultima, ribaltata a parti invertite dal batterista, secondo cui sarebbe stato lui a non poterne più dei continui attacchi del
frontman. Il secondo inizia invece a combattere l'emarginazione da sempre subita – accentuata dall'aver sempre rifiutato di negare la propria bisessualità – mediante l'uso di droghe, che lo porteranno a una serie di crisi personali che per assurdo condurranno la musica dei Placebo a raggiungere le proprie vette. La prima conseguenza di questa situazione è però la rottura con Schultzberg, consumatasi durante le registrazioni di
Placebo, ma tenuta nascosta per quieto vivere durante le
session promozionali organizzate dalla Virgin. Sarà dopo un tour americano, peraltro con ottimo riscontro di pubblico, che Robert verrà definitivamente estromesso dal progetto: al suo posto, non senza qualche difficoltà, Molko riesce a portare Steve Hewitt, che nel giro di pochi mesi concentrerà tutte le sue attenzioni sulla sua nuova band.
La consacrazione e i travagli
"Le persone che hanno l'hanno ispirata sono tutte mie amiche,
è una sorta di elogio all'amicizia tra uomo e donna.
È anche una canzone sul portare a termine un giorno,
perché un giorno di chiunque è un po' il punto di partenza
per sentirsi esclusi dal mondo ed avere bisogno di un'amica
che ti abbracci così da renderti tutto un po' più semplice”
(Brian Molko parla di "Pure Morning)
Quello che si tuffa nuovamente in sala d'incisione dopo l'inatteso e inebriante successo di
Placebo è un gruppo sofferente, i cui membri hanno ormai varcato gran parte delle soglie che dividono la tentazione dall'eccesso. Non fossero bastate le vendite dell'album – un colpo brillante ma da attribuire più all'intuizione dell'etichetta, brava a spedirli al momento giusto nella mischia del punk revival che infiammava in quegli anni – a portare ulteriormente Molko e compagni verso una Luna piena di insidie, arriva anche la chiamata cinematografica di Todd Haynes, che affida loro un
remake di “20th Century Boy” dei
T. Rex e
David Bowie, che li incarica di aprire alcune sue date e a suonare alla festa del suo cinquantesimo compleanno, al fianco di gente come
Lou Reed,
Robert Smith e
Billy Corgan. Questo processo di avvicinamento compulsivo al mondo del glam va però di pari passo all'ingresso in un tunnel fatto di droga e crisi personali: i tre si rendono conto di aver raggiunto a gran velocità dei risultati frutto quasi del tutto di ottime mosse strategiche, tanto quanto di essere destinati a divenire fra i tanti rappresentanti dell'ala più raffinata di un mix di revival fra punk e garage. Gli screzi interni iniziano a essere all'ordine del giorno, quasi sempre innescati da Molko per ragioni che spesso, come rivelerà lo stesso Olsdal, “lui stesso si scordava dieci minuti dopo aver tirato su il polverone”.
In un simile
background, come già accaduto in passato con esempi illustri, i Placebo partoriscono tra mille difficoltà quello che ad oggi resta il loro miglior disco.
Without You I'm Nothing è il classico colpo di genio fuoriuscito in preda a travagli di ogni genere: primo fra tutti il passaggio al catalogo-madre della Virgin e il conseguente aumento di pressioni e aspettative, seguito subito dietro dai crescenti problemi di droga di Molko – posti in circolo vizioso con la sua crescente alienazione e al fianco di essa cause prime della sua instabilità. Nei due anni seguenti al debutto, i tre si ritrovano in studio – per loro stessa scelta – con il produttore Steve Osborne: “Volevamo lavorare con qualcuno che fosse rock ma al tempo stesso vicino al mondo dell'elettronica, e a dire il vero non avevamo certo pensato a lui ma all'epoca non ci fu alternativa”, ammetterà più avanti Olsdal. Con il futuro regista dei debutti di Starsailor e
Cat's Eyes la scintilla manca dall'inizio: troppe le divergenze di opinioni fra lui e un Molko tutt'altro che affabile. “L'alchimia fra lui e noi non è mai scattata, e comunque non siamo mai stati d'accordo con la sua voglia di mettere le mani dappertutto e la sua pressione per inserire in tracklist un sacco di brani lenti, troppi per un secondo album”, la giustificazione che il leader addurrà a distanza di tempo. Il tutto culminerà con la cacciata, a giochi quasi fatti, di Osborne dal progetto, sostituito da Phil Vinall che farà però in tempo a occuparsi della sola “Pure Morning”.
Il disco è lo specchio in tutto e per tutto del
background in cui nasce e viene completato: l'aggressività punk del debutto è quasi del tutto diluita in uno spirito negativista, decisamente più maturo e psicodrammatico rispetto al pessimismo post-adolescenziale di Placebo. La crisi interiore di Molko diviene soggetto dominante di quasi tutte le liriche, equamente divise fra velate richieste d'aiuto, sguardi nostalgici al passato e tentativi di evasione dalla crudezza della realtà. Il
sound si fa più stratificato, complesso e oscuro: accantonata la burbera energia post-garage, la nuova frontiera è un equo mix di estetica glam e tinte dark, più vicino al mondo dei
Cure ma figlio anche del lato più noir del grunge. È il 1998: il ruolo di trampolino di lancio per l'album viene affidato, due mesi prima della sua uscita, a quella “Pure Morning” entrata in extremis nella
tracklist, e destinata a divenire forse il loro brano più famoso, grazie anche alle acclamazioni della critica settoriale e non. E, a conti fatti, si tratta effettivamente di uno dei vertici massimi dell'arte dei Placebo: una
dark ballad gelida e autobiografica in cui Brian si lancia in una rassegnata e lucida disamina di un'amicizia e della sua importanza anche all'interno di un solo giorno. Il tutto con lo spettro di una versione androgina e cibernetica dei
Joy Division alle spalle, rappresentato al meglio dal glaciale
videoclip d'accompagnamento e proprio anche del secondo singolo - il claustrofobico inno all'amore-odio di “You Don't Care About Us”, evoluzione in chiave dark del
sound delle origini e forte di un giro di basso che è un autentico inchino al post-punk - e nella paranoica analisi di fantasmi interiori di “Brick Shithouse”. Nella medesima direzione procede anche la bruta “Scared Of Girls”, che è pure il grado di separazione tra il suono dei primi Placebo e quello
anthemico che prenderà il sopravvento nel lavoro successivo, anticipato qui nelle evanescenze dell'altro singolo “Every You Every Me” e nel tentativo impegnato di “Allergic (To Thoughts Of Mother Earth)”, in cui Molko si scaglia contro i Cristiani e “il loro fregarsene dell'ambiente circostante perché tanto conta solo il paradiso”.
L'altra metà di
Without You I'm Nothing, nonostante le lamentele di Molko, raccoglie una manciata di
ballad lente quanto tormentate, che saranno anche i primi e ultimi pezzi “lenti” a riuscire
in toto al trio. L'intuizione, col senno di poi lungimirante, di Osborne dona tra l'altro al disco quel misterioso equilibrio che ne fa forse l'unico vero, piccolo capolavoro della saga Placebo: a svettare su tutte sono la dolce “Ask For Answers”, l'elogio all'omosessualità della conclusiva “Burger Queen” e soprattutto la sofferente e gracilissima autobiografia di “My Sweet Prince”, in cui Molko racconta, accomunandole, la traumatica fine di una relazione e il complesso rapporto con l'eroina.
Non meno efficaci sono la più canonica “The Crawl” e la nostalgica “Summer's Gone”, che completano il quadro assieme alla sorprendente
jam di “Evil Dildo” - riproposta sotto forma di
bonus track a dieci minuti dalla chiusura ufficiale dell'ultimo brano – e dell'insuperato capolavoro della band, quella
title track in cui la rassegnazione lascia spazio a un irrefrenabile e psicodrammatica implorazione. Un pezzo eccezionale di cui il primo a innamorarsi sarà
David Bowie, che metterà la sua voce duettando con Molko nella versione uscita come quarto singolo dal disco.
Senz'alcun dubbio il punto più alto raggiunto dai Placebo,
Without You I'm Nothing non riesce a fregiarsi del titolo di capolavoro solo per l'evidente discendenza del suo
sound. Resta però l'emblema di una band e di una generazione sonora tutta, nonché un disco sostanzialmente privo di cali e forte di una manciata di canzoni stupende, tanto quanto di un fardello emotivo-tematico che si riflette nella musica così come nei testi. Sorprendente anche la maturazione raggiunta nel giro di soli due anni dal trio, avvallata da quei fantasmi interiori di cui già si è parlato, ma che saranno la causa prima del successivo declino. Nonostante l'evidente e notevole salto di qualità e il successo di “Pure Morning”, l'album non riesce a eguagliare il suo predecessore per prestazione commerciale, raggiungendo “solo” il settimo posto nella classifica britannica, ma riuscendo a farsi notare anche oltre la Manica e in particolare in Francia.
La deflagrazione
"Generalmente mi trucco anche nella vita di tutti i giorni,
di fatto l'uomo che sono sul palco lo sono anche fra le mura di casa.
Banalmente è una versione più eccitante del mio essere normale,
più colorata ed estroversa di quanto normalmente io sia.
Non è una maschera che indosso, anche se ammetto che mi piace essere freak!”
(Brian Molko)
Quando
Black Market Music vede la luce, nell'anno che segna l'ingresso nel nuovo millennio, i Placebo sono ormai una band affermata e forte di un seguito di fedeli tutt'altro che ristretto. Questo grazie anche e soprattutto a esibizioni sempre più cariche e ad alta tensione, spesso terminate con la pratica tutta
hard di distruggere la gran parte della strumentazione presente sul palco. La confidenza dei tre con l'ambiente e la loro musica è ben lungi da quella risicata di quattro anni prima: grazie anche ai plurimi riscontri positivi di
Without You I'm Nothing, Molko e compagni sono ormai sempre più sicuri dei loro mezzi e consapevoli delle loro capacità, nonché della forma incredibilmente personale assunta da una miscela germogliata esclusivamente su influenze esterne. Questi fattori, uniti all'ormai irrefrenabile megalomania con cui Brian tenta di combattere i suoi fantasmi, sono le cause prime di un disco che suona come il classico passo più lungo della gamba. Lodevole nell'intenzione di cercare più nuove strade ma sofferente a causa della presunzione con cui tale ricerca è attuata,
Black Market Music è un confuso compendio in cui i tre cercano quasi disperatamente di affrontare una moltitudine di mondi nuovi senza averne in certi casi nemmeno preso le misure.
A dire il vero, questa
débacle è tutto fuorché prevedibile quando, con la classica tempistica in anticipo bimensile, il singolo “Taste In Men” viene lanciato per le radio di tutto il globo. Si tratta di una sorta di “Pure Morning” evoluta, con un omaggio palesato ai
Pink Floyd nella citazione del
riff di “Let There Be More Light” e un condimento negativista che pare guardare da un lato ai
Sonic Youth e dall'altro alle trame autodistruttive dei
Nine Inch Nails meno rabbiosi. Una perla da aggiungere al canzoniere di Molko, che però risulta a conti fatti un bagliore di luce nel buio, nonché l'unico brano a trasudare rimasugli degli psicodrammi del passato, sia nella componente musicale che in quella lirica.
Per il resto, privi di mordente sono certi nostalgici ritorni al garage del primo album: in “Days Before You Came” questo avviene di nuovo fra venature rumoriste, in “Haemoglobin” a suon di
riff paranoici quanto fuori fase, mentre nel singolo “Black-Eyed” il grido
anthemico del ritornello rende un minimo più lusinghiero. Quasi tutti i brani sono inni all'uso della droga o riferimenti agli effetti della stessa: l'emblema della tematica è l'altro singolo “Special K”, un riuscito saggio di
rock arena che è pure elogio alla ketamina, futuro classico del canzoniere della band e unico episodio memorabile (seppur non certo eccelso) assieme alla più plastica “Slave To The Wage”, entrambi direttrici verso il
sound dei Placebo del futuro. Spente e scialbe – ben distanti dagli apici emotivi del predecessore – sono le ballate, più volte all'autocommiserazione che alla malinconia: “Blue American”, dedicata da Molko alla madre, e la conclusiva “Narcoplectic” sono tutt'al più soporifere, mentre la recitata “Passive Agressive” e la futilissima “Commercial For Levi” - dedicata all'ingegnere del suono Levi Tecofski che salvò un Molko ubriaco da un possibile investimento per strada – risultano addirittura fastidiose. A lambire l'imbarazzo puro è invece il tuffo nell'hip-hop al fianco di Justin Warfield in “Spite And Malice”.
Black Market Music non fa che fungere da specchio per i problemi che affliggono i Placebo nell'ingresso nel nuovo millennio. Un disco dove le ombre surclassano le luci, i difetti hanno la meglio sui pregi e dove è persa una qualsiasi forma di unitarietà, stilistica ma anche emotiva. Come se fosse anch'esso nato sotto gli effetti di qualche stupefacente, il disco cambia umore, affrontando con euforica ottusità mondi nuovi, salvo poi ripiegare verso il passato in preda a dei
down da astinenza mai così profondi e destabilizzanti. “Se non ci fosse stato Paul (Corkett, ingegnere di lungo corso ma sostanzialmente nuovo al ruolo di produttore) a tappare i buchi dubito che avremmo mai completato il disco”, avrebbe confessato cinque anni più tardi Hewitt, perché “Brian era diventato instabile in ogni ambito, vittima al tempo stesso dei suoi mali e della droga. A volte ti abbracciava altre ti insultava, a volte amava tutti altre si isolava”. Una situazione, questa, che all'esterno perviene solo a chi la deduce grazie agli occhi lunghi, perché nel frattempo la Virgin mette anima e corpo nel tentare di mantenere viva l'immagine della band senza rivelare alcun dettaglio sull'equilibrio interno della stessa, sfruttando semmai in parte la corazza da ribelle che il Molko di “Special K” ha iniziato a indossare.
E così, subito dopo la pubblicazione del disco, i tre si vedono catapultati in tutta una serie di eventi promozionali ben distanti dal loro mondo, riguardo i quali probabilmente poco o nulla viene loro comunicato. “Andate e suonate, anzi no, fate finta”: qualcosa di decisamente lontano dagli standard anche degli ultimi, vacillanti Placebo, e che non fa che creare occasioni su occasioni a Molko per mostrare il suo precario stato psicologico. Celebre, per il pubblico italiano, resta l'esibizione al Festival di Sanremo, dove i tre eseguono “Special K” interamente in playback con disappunto dell'androgino
frontman, presentatosi altresì sul palco in evidente stato di ebbrezza. “Per scaldare un po' una platea gelida”, si giustificherà poi, Molko conclude la sua esibizione – già forte di gestacci e gesti di sfida verso le telecamere – sfasciando la chitarra su un amplificatore, e provocando così la reazione sconcertata del pubblico sanremese, che attacca gridargli addosso improperi e i più blasonati coretti di sfottò nazionalpopolari, ricevendo a sua volta in cambio gli ennesimi gesti di stizza e un conclusivo, ironico inchino. In successivi filmati di repertorio si apprenderà del proseguimento della scenetta pure fuori dal palco dell'Ariston, con il cantante pronto a gridare di fronte a una telecamera superstite un rabbioso “fuck off” con annessa levata di dito. Al di là delle polemiche tutte italiche che sarebbero seguite, il siparietto non è che la dimostrazione definitiva di uno stato di precarietà dal quale, stavolta, la band tenterà di uscire prendendosi una (neanche troppo lunga) pausa di due anni, al ritorno dalla quale un cambio di sonorità, prima ancora che di volto, battezzerà la seconda fase della sua carriera.
La svolta anthemica"Il titolo dell'album si riferisce al portare con sé i fantasmi delle proprie relazioni umane,
al punto tale che anche solo un odore, una situazione o un colore
possano far rivivere il ricordo di una persona.
Alle volte questi fantasmi arrivano addirittura ad abitare i tuoi sogni.
Ci può sempre essere qualcosa nel futuro che ti porta a ricordare i fantasmi del passato.
Il disco è in sostanza una raccolta di storie riguardo questo,
e molte delle relazioni di cui si parla riguardano me.
Scrivere canzoni mi aiuta in un certo senso a riversare questi ricordi su qualcosa,
chiuderli in una scatola che non sia il mio cervello,
così da poterli poi analizzare con più obiettività
dopo essermi liberato delle emozioni che mi provocavano"
(Brian Molko su "Sleeping With Ghosts")
Dopo il fallimento plurifronte di
Black Market Music - pure su quello commerciale, date le vendite inferiori a entrambi i predecessori - Molko, Olsdal e Hewitt convengono sulla necessità di fermarsi per un po', nel tentativo di sconfiggere, lontano dalle scene, quei problemi ormai divenuti insostenibili, nonostante il continuo supporto di un pubblico sempre più numeroso. Un cambiamento è necessario, e il primo a intenderlo è proprio il leader, crollato - come già detto in precedenza - in un tormento interiore divenuto insostenibile e in una dipendenza pressoché totale da alcool e droghe. "Ho cercato di guardare indietro, contemplare quello che è successo in me dal punto di vista emozionale, comprenderlo. Di sconfiggere i fantasmi con cui ho dovuto convivere troppo a lungo. Può sembrare il vecchio cliché dell'auto-terapia, ma ha funzionato", spiegherà Molko tre anni più tardi presentando
Sleeping With Ghosts, il disco del cambiamento, l'apriporta di una seconda fase nella vita del gruppo tanto quanto nel suo
sound.
Messa da parte la sbornia di illusioni che aveva condotto al precedente lavoro, Brian e compagni si inseriscono in un processo di autoanalisi che porta a una svolta, sebbene posta in continuità con i linguaggi del passato, di cui l'album è perfetta rappresentazione. Via dunque gran parte delle trame oscure e oppressive che erano divenute caratteristiche prime del loro
sound: al loro posto, la prosecuzione del discorso iniziato con "Special K" e, soprattutto, "Slave To The Wage", fatto di chitarre issate a protagoniste indiscusse, un passo definitivo verso la forma-canzone, ritornelli killer e un clima nel complesso meno oppressivo e più energico. Sarebbe scorretto chiamarla svolta pop, per il momento: si tratta piuttosto di un tentativo di esorcizzare i demoni di
Without You I'm Nothing, trasformando la tensione psicodrammatica in energia vulcanica.
Sulla carta, la svolta è quanto di più coerente è lecito aspettarsi dalla band, e da un Molko che - sebbene non ancora completamente estraneo all'uso di stupefacenti - avvia un percorso di riabilitazione che lo porta a convogliare nella migliore delle maniere la sua ispirazione. A minare però la qualità di un lavoro che raccoglie alcune fra le canzoni migliori mai composte dai tre è la scellerata produzione di Jim Abbiss - già al lavoro su "Debut" di
Björk e futuro esegeta del pluripremiato
esordio degli
Arctic Monkeys - che dona una veste plastica e fredda a gran parte dei brani, decisamente fuori luogo per materiale nato da una tale tensione emotiva. Ciò nonostante, il disco riesce a reggersi grazie alla qualità del songwriting e a una serie di perle cristalline, classificandosi di fatto come l'altra vetta - dopo
Without You I'm Nothing - della carriera dei Placebo.
L'effervescente apertura chitarristica di "Bulletproof Cupid" suona come un autentico, breve sfogo delle negatività tenute segrete per tanto tempo, introduzione a una "English Summer Rain" che è l'emblema contemporaneamente dei punti di forza e di debolezza del disco: una
pop song vibrante e limpida, vestita di rintocchi elettronici maledettamente asettici e artificiosi. Un destino simile è seguito dall'omaggio ai
Sonic Youth di "Plasticine", di gran lunga il brano peggiore del disco assieme alla breve e ottusa "Second Sight", autentici riempitivi tranquillamente trascurabili. Decisamente più a fuoco sono la marcetta "I'll Be Yours" e la conclusiva "Centrefolds", ballata funesta a cui giova non poco l'esclusione dell'elettronica.
Ma la forza dell'album sta in una serie di perle: l'irresistibile "This Picture", fresco cocktail pop-rock dal sapore per la prima volta positivista, la malinconica e strappalacrime
title track, vero e proprio esorcismo in cui Molko si getta alla ricerca di una possibile anima gemella, e il suo ideale culmine tematico, la preghiera di "Protect Me From What I Want". A questi si aggiungono poi i due vertici insuperati del lavoro: "The Bitter End", travolgente cavalcata costruita sulla tensione di una relazione conclusa in dramma - scelta come singolo apripista e destinata a divenire il classico per eccellenza del canzoniere della band - e lo psicodramma di "Special Needs", emblema dell'autoanalisi emotiva rappresentata dal disco, dove la disperazione si trasforma in ferrea disamina sugli errori commessi nel sottovalutare la forza dei sentimenti.
Disco dal gran potenziale letteralmente disintegrato da scelte di produzione che è eufemistico definire discutibili,
Sleeping With Ghost segna l'ingresso dei Placebo nel "contro-tunnel" della risalita, che non porterà però a una contemporanea resurrezione musicale. Nonostante le sconsiderate reazioni di gran parte della critica, spiazzata dall'abbandono dell'oppressiva oscurità del passato, l'album è di fatto definibile come il primo atto di maturità della band, che culminerà però con lo scadere gradualmente, negli anni successivi, in una fase più simile alla senilità. Si tratta comunque del lavoro che trascinerà Molko e compagni al successo anche e soprattutto al di fuori della natia Gran Bretagna, nonché di una collezione di gioielli in grado di incorporare introspezione e forza
anthemica all'insegna di un equilibrio lodevole.
La
tournée che segue lancia i Placebo definitivamente in un olimpo che unisce
alternative e
mainstream, attirando un numero sempre crescente e sconfinato di fan. Le vendite del disco spingono la Virgin a sfruttare l'onda lunga e pubblicare
Covers, una raccolta di interpretazioni di classici altrui che il gruppo ha seminato negli anni sotto forma di
b-side di singoli. Fra questi spiccano la macchinale revisione di “I Feel You” dei
Depeche Mode, l'inchino ai maestri
Pixies in una “Where Is My Mind” che torna ai tempi delle primissime registrazioni, quella “20th Century Boy” già infilata nella colonna sonora di “Velvet Goldmine” e l'inedita “Running Up That Hill” di
Kate Bush, pronta a divenire presenza fissa nelle
setlist dei concerti della band.
L'anno successivo è la volta di
Once More With Feeling, raccolta di tutti i singoli pubblicati a partire dal 1996 accompagnata da un Dvd con i rispettivi video, probabilmente il documento migliore sull'attività della band per quella fetta di pubblico che non avesse il tempo o l'interesse di addentrarsi nell'intera discografia. Nel frattempo, Molko prosegue nella sua riabilitazione riuscendo a ridurre al minimo l'uso di stupefacenti, ma mantenendo per sua stessa ammissione l'inclinazione a esagerare con l'alcool. Solo quattro anni più tardi, infatti,
frontman dichiarerà apertamente di aver vinto la sua lunga e faticosa guerra contro le dipendenze.
Quest'ultima è pure il tema portante del quinto album in studio che il gruppo assembla, reduce da una lunga ed estenuante serie di concerti e da una breve sosta di qualche mese, tra la fine del 2005 e l'inizio del 2006.
I Placebo che si riaffacciano a tre anni da
Sleeping With Ghosts sono dunque una band che ha definitivamente ritrovato un equilibrio interno su cui fare leva, e azzeccato in quel disco una formula (involontariamente) più accessibile e facile da riprodurre. E proprio in questi due enunciati sta la sostanza di
Meds: un disco decisamente più sviluppato del suo predecessore dal punto di vista sonoro – grazie anche all'ennesimo cambio in cabina di produzione, con la chiamata di Dimitri Tikovoi, già assistente al missaggio nei due dischi precedenti - ma che si limita al tempo stesso a riproporre con risultati anche ragguardevoli quanto già sperimentato tre anni prima, senza però una presenza capillare della medesima tensione emotiva. Si tratta, insomma, dell'album che chiunque si sarebbe aspettato nel 2006 dai Placebo, e che vede appunto nelle nuove soluzioni in fase di produzione e arrangiamento i suoi punti di forza: protagonisti centrali tornano a essere chitarra e basso, con l'elettronica ridotta a collante e l'abbandono totale di quella freddezza plastica che aveva almeno in parte tarpato le ali a
Sleeping With Ghosts.
Di risultati pienamente soddisfacenti, a dire il vero, ve ne sono parecchi: l'uno-due iniziale è un autentico schiacciasassi, con la
title track - cronaca impietosa di una crisi d'astinenza da ecstasy – cantata in un efficace duetto con Alison Mosshart dei
Kills a sfumare di fatto nella marcia alterata di “Infra-Red”, a raccontare stavolta di “una dote che l'alcool sa mettere in risalto, ovvero quella di scavare nella memoria e trovare cose che altrimenti sarebbero dimenticate per sempre”, per usare le parole di Molko. I due brani, scelti anche rispettivamente come quarto e terzo singolo, sono di fatto la compiuta evoluzione in chiave
hi-fi delle trame più energiche del passato recente, nonché altri due classici annunciati del repertorio del gruppo, affiancati in tal ruolo anche dalla rovente “Post Blue”, da ormai dodici anni presenza fissa in quasi tutti i concerti. Ed è a conti fatti tutta la prima metà dell'album a mostrarsi compatta e convincente, completata dall'esplosiva (ed eloquente per tematica) “Drag”, dall'alienato ma compiuto esperimento proto-dub di “Space Monkey” e dalla
powerballad “Follow The Cops Back Home”, efficace nel suo adattare al
Placebo-sound un cliché in realtà piuttosto comune.
Le cadute pervengono però in corrispondenza dalla seconda metà del disco: “Because I Want You”, terzo singolo estratto dall'album - una “Plasticine” tirata a lucido nel suono ma non nel contenuto - si qualifica come frutto del puro manierismo, al pari nel suo contesto della sdolcinata
ballad “Pierrot The Clown”. Il cameo di
Michael Stipe in una spenta “Broken Promise” non riesce a bissare quel che
David Bowie fece otto anni prima su “Without You I'm Nothing” e se la parentesi atmosferica di “In The Cold Light Of Morning” fallisce nel tentativo di far accapponare la pelle, ancor più fuori fase e sconclusionato è il passaggio acido di “One Of A Kind”.
A risollevare le sorti del disco pensa in conclusione il colpo di genio del capolavoro “Song To Say Goodbye”, inno nichilista al fulmicotone estratto anche come fortunato singolo di lancio: un addio con una miriade di potenziali interpretazioni, in cui Molko sfodera in toto la frustrazione figlia della presa di coscienza dei tanti errori commessi, tenuta a freno in precedenza dai tempi di
Sleeping With Ghosts.
E questo sensazionale epitaffio sembra quasi suggerire il calo del sipario su qualcosa di più grande del solo
Meds, una sorta di chiusura non di uno ma di più cerchi, un punto di convergenza e di conclusione di più discorsi aperti. Gli errori, le dipendenze, ma anche la trama artistica condotta in dieci anni di carriera trovano un compimento definitivo: la luce a lungo intravista in fondo al tunnel si materializza in una vera e propria uscita, quell'uscita che mette potenzialmente la parola fine a quello che i Placebo hanno rappresentato in questi anni.
Musicalmente, il disco è un episodio inferiore - per quanto nel complesso ben più che dignitoso – al suo predecessore, ma ricopre comunque un ruolo fondamentale nella storia della band: con
Meds (e il suo nuovo successo internazionale) per i Placebo si compie di fatto il completamento del travagliato percorso iniziato con
Without You I'm Nothing, quello degli eccessi e del successo, delle crisi e della ripresa, delle tensioni e del recupero dell'equilibrio, degli psicodrammi prima e dell'energia poi. Ogni tassello è ora al suo posto, con i pro e i contro del caso: alla suggestione dell'opera completa si oppongono i dubbi sul “poi”, sulla strada da intraprendere una volta abbandonata la precedente. Una scelta difficile che verrà influenzata, come di consueto nella storia del trio, da una serie di circostanze personali e di dinamiche interne al gruppo che caratterizzeranno il triennio successivo.
La prima di queste arriva allo scadere del 2006: i Placebo, dopo dieci anni di successi, pongono fine con il breve
Live At La Cigale – finito fuori catalogo nel giro di pochi mesi - al loro rapporto con la Virgin e dunque con Emi, cedendo alla Astralwerks (controllata Universal) i diritti sui loro primi cinque dischi, che vengono così ristampati nei dodici mesi successivi. Senza più un'etichetta alle spalle, i tre partono per la
tournée di promozione di
Meds che riuscirà a bissare (ma non a superare) per incassi e portata la precedente, facente capo a
Sleeping With Ghosts: è proprio durante le estenuanti date del tour che, nella più totale insaputa dei non addetti ai lavori, si consuma passo dopo passo una rottura interna fra i membri della band, pronta presto a prendere la forma di un Molko e Olsdal contro Hewitt. I tre proseguono per sei mesi senza esternare alcun segno di crisi, fino a quando, il primo di Ottobre del 2007, un comunicato sul sito della band annuncia l'uscita del batterista dal progetto.
Le versioni delle due parti sulla vicenda non tardano ad arrivare, come di consueto decisamente contrastanti: “Stare in una band è come essere sposati, può arrivare un momento in cui, sebbene non si perda l'amore, si capisca di aver cambiato i propri interessi e il proprio approccio e di non poter continuare a vivere sotto lo stesso tetto”, sarebbe stata la giustificazione, piuttosto aleatoria, di Molko. Più diretta e pratica la versione di Olsdal, secondo cui “durante la
tournée Steve ha iniziato ad alzare un muro, a cessare qualsiasi forma di comunicazione con noi, e abbiamo capito che se non volevamo portare i Placebo alla morte avremmo avuto bisogno di un cambiamento”. Per contro, secondo Hewitt, “tutto si è svolto a sorpresa, con una chiamata del nostro manager che mi comunicava che ero fuori dalla band, così, dal nulla, dopo dieci anni”.
Con l'uscita di Hewitt, la fine del percorso iniziato nel 1998 diviene ufficiale: per i Placebo è l'alba di un potenziale nuovo inizio che, sebbene si porrà in (scontata) continuità con il passato, condurrà la band verso una “ripulitura” tutt'altro che benefica della propria musica, in corrispondenza con la vittoria definitiva di Molko sui suoi fantasmi.
La "guarigione" pop“Abbiamo voluto incentrare il disco sullo scegliere la propria vita,
sullo scegliere di vivere uscendo dall'oscurità ed entrando nella luce.
Non per forza da intendersi come un dimenticare l'oscurità,
perché è una parte essenziale dell'esistenza,
ma piuttosto sullo scegliere e cercare la luce”
(Brian Molko su “Battle For The Sun”)
I Placebo che tornano a varcare le scene nel 2009 sono un gruppo pieno di novità rispetto al passato. Di fatto, un trio nuovo per alchimia e dinamiche interpersonali, grazie in primis ad un Molko che ha ormai quasi del tutto sconfitto i suoi travagli interiori e rinunciato al conseguente ricorso agli stupefacenti, galvanizzato anche da una fama ormai planetaria e dalla stima dimostratagli da numerosi colleghi – da Timo Maas a
Jane Birkin, per arrivare agli Indochine - orgogliosi di poter ospitare la sua voce nei propri brani. Il legame fra lo stato di salute emotiva di Brian e la musica della band sarà dunque, come in passato, elemento decisivo: la sua “guarigione” si ripercuoterà infatti in una svolta solare e melodica di cui il gruppo si renderà protagonista, e sul contemporaneo abbandono di gran parte delle forme estetiche che avevano composto il
sound della band. Via l'oscurità, gli psicodrammi, il tormento, l'oppressione degli inizi, ma anche l'energia e la tensione degli ultimi due dischi: al loro posto, una ventata di aria solare e positivismo, tradotta a suon di melodie e sincopi in una forma di plateale deriva pop-rock.
Altrettanto fondamentale al raggiungimento della nuova dimensione artistica è l'arrivo alla batteria dell'adone ex-Evaline Steve Forrest, in sostituzione di Steve Hewitt: un personaggio decisamente lontano dai vari costumi indossati (e ora abbandonati in favore di un meno attraente look da bravo ragazzo cresciuto) nel tempo da Molko tanto quanto dall'anima musicale dei “vecchi” Placebo. Al suo
drumming di origine post-core, decisamente più organico e aggressivo di quello di Hewitt, può essere ricondotta anche la svolta (firmata dal veterano David Bottrill, in precedenza con
Tool,
Muse e
dEUS) negli arrangiamenti dei brani, più spiccatamente
hi-fi e patinati, con l'elettronica ridotta quasi ovunque a corredo post-produttivo quando non accantonata del tutto. Ultima, ma non meno importante novità è la decisione, dopo la fine del contratto con Virgin, di non accettare la proposta di Astralwerks per abbandonare il mondo dell'industria discografica maggioritaria: a essere scelta per la pubblicazione del nuovo album è così PIAS – di fatto la
major per eccellenza del mercato indipendente – in un passaggio nel quale il trio si accoda alle esperienze di
Radiohead e
Nine Inch Nails.
Questa la natura della culla nella quale prende forma il sesto disco della saga Placebo e primo del nuovo corso. Un disco sul quale fan e critica ripongono aspettative a dir poco elevatissime, tanto da far trapelare nel giro di poche settimane dopo l'annuncio della futura pubblicazioni voci che l'avrebbero voluto come il migliore mai prodotto dalla band. La verità, però, è che
Battle For The Sun è invece un fallimento totale, che va a vertere su più fronti: svuotata dei tormenti e della tensione che l'avevano riempita fino a quel momento, la musica dei Placebo risulta priva di qualsiasi forma comunicativa, fiacca, vuota e non abbastanza “nuova” dal punto di vista sonoro per potersi distaccare in maniera totale dall'esperienza passata. Così, a salvarsi, in quello che è senza ombra di dubbio il peggior episodio della storia della band, sono pochi passaggi, peraltro non certo eccelsi: la
title track – riproposizione del clichè
anthemico in versione più sobria, salvata da un ritornello epico a far dimenticare una strofa quasi irritante – i fuochi d'artificio melodici al retrogusto elettronico di “Bright Lights” e il pop-rock senza troppe pretese della gradevole “The Never-Ending Why”. Il resto del disco alterna ricalchi più o meno lineari del “vecchio sound”, privi d'ispirazione e volti solo a non perdere fan (l'acida ma mai corrosiva “Kitty Litter”, l'insipida “Breathe Underwater”, l'ottuso verso ai
Soundgarden di “Come Undone”) a bagni a metà bacino nell'oceano del pop (la noiosa “Devil In The Details”, la scontatissima “Speak In Tongues”, le melense “Happy You're Gone” e “Kings Of Medicine”).
Ma gli autentici drammi arrivano in corrispondenza dei due singoli scelti per lanciare l'album: la sconsiderata ubriacatura da pub di “Ashtray Heart” - il modo peggiore di omaggiare la breve esperienza dell'"apprendistato" - e soprattutto l'orripilante e irritante tentativo
r'n'r di “For What It's Worth”, entrambi protagonisti di una clamorosa quanto comprensibile
débacle commerciale. Ma è tutto il disco a fallire persino da questo punto di vista, riuscendo a ottenere il non invidiabile primato di “album meno venduto” della carriera di un gruppo che sembra aver perso, assieme ai fantasmi, alle droghe e al batterista storico, anche un qualsiasi stralcio di idea sulla strada da intraprendere. E “confuso” è proprio l'aggettivo più adatto a descrivere
Battle For The Sun, un lavoro che brancola ovunque nel buio alla ricerca di una dimensione che di fatto non esiste, abbozzando qua e là qualche spunto possibile salvo poi abbandonare tutto in preda a un'euforia quantomai dannosa. Quella stessa che i Placebo dimostrano di portarsi dietro anche nelle esibizioni – anch'esse decisamente meno partecipate rispetto al passato – in cui si impegnano senza sosta per ben tre anni filati, col risultato di arrivare all'ultima
leg sfiancati, nervosi e svogliati, come ben dimostrato dalla poco lusinghiera prestazione romana di tre anni successiva all'uscita del disco.
Dodici mesi prima, quasi a voler prendere al balzo la nostalgia di gran parte dei fan verso il passato sonoro della band, la Virgin mette sul mercato gli ultimi rimasugli di materiale su cui possiede ancora parte dei diritti, ovvero le
b-side dei singoli pubblicati tra 1996 e 2006, nella forma di una compilation - intitolata appunto
B-Sides: 1996-2006 - imperdibile per i completisti ma non certo imprescindibile. Il tutto mentre la band inizia a presentare dal vivo un brano inedito, inizialmente annunciato come primo estratto di un possibile album, poi capostipite di un omonimo Ep – il primo ufficiale nella loro storia.
B3 è la conferma di quanto appreso in
Battle For The Sun: i Placebo sono ormai un fantasma della band che aveva partorito la quadrilogia da
Without You I'm Nothing a
Meds, rinvigorita nell'anima e nello spirito quanto indebolita allo strenuo dal punto di vista musicale.
Completato ancora con Bottrill in cabina di produzione e pubblicato stavolta dalla Vertigo, il
mini-album prosegue di fatto nella medesima direzione del disco precedente, anziché anticipare la svolta prettamente pop che caratterizzerà il nuovo album, pronto ad arrivare – non senza sorpresa – a distanza di un solo anno. La
title track è un'innocua cavalcata, resa quasi godibile dall'arrangiamento elettronico della versione in studio, ma di fatto impalpabile quando eseguita dal vivo, così come incapace di lasciare il segno è la cover di “I Know You Want To Stop” dei Minxus, nonostante il massiccio dispiegamento di chitarre. La plastica ballata “The Extra”, l'esperimento proto-
prog di “Time Is Money” e la più concreta quanto innocua “I.K.W.Y.L.” completano un quadretto di fatto più inutile che brutto, ulteriore conferma di quanto i “nuovi Placebo” stiano brancolando in un'autentica
Terra di nessuno.
Verso la metà del 2013, la band annuncia di aver riallacciato, per tramite di Vertigo, i ponti contrattuali con Emi e Virgin, divenute ormai un tutt'uno controllato da Universal, e di essere al lavoro su un nuovo album in studio. Interessante è anche la rivelazione di qualche dettaglio in più sulla gestazione di B3, nato in realtà dalle ceneri di quello che avrebbe dovuto essere a tutti gli effetti un nuovo album in studio, non completato a causa della poca convinzione rispetto alla direzione intrapresa al fianco di Bottrill. Proprio questa (tardiva) autocritica porta alla decisione di cambiare per la settima volta produttore, affidando questa volta al novizio Adam Noble il ruolo di vestire le composizioni del nuovo disco, per il quale la ritrovata etichetta prepara una campagna mediatica coi fiocchi: prima un breve teaser d'annuncio, poi l'anteprima del futuro primo singolo e infine, lo streaming integrale su Spotify a una settimana dall'uscita ufficiale. Il tutto a coronamento di un disco che, sebbene non riesca di certo a riportare in auge una band ormai in preda a una crisi d'ispirazione apparentemente senza fondo, segna quantomeno un passo avanti in coerenza d'intenti rispetto al suo predecessore. E la notizia sorprendente è dunque che
Loud Like Love non è il peggior disco della saga Placebo. Ed anzi, è a conti fatti un prodotto decisamente più onesto del suo predecessore, in cui la band si getta in un pop-rock senza pretese il cui punto di forza sta negli arrangiamenti, i più fluidi e accattivanti della storia del trio.
Andando oltre le barriere che definire giustificabili è decisamente riduttivo, va detto con onestà che all'album le canzoni, questa volta, non mancano: dalla
title track, progressione gradevolissima che porta a un coro finale che rievoca la carica
anthemica del passato, alle scariche elettroniche che pervadono “Exit Wounds”, senza voler escludere l'autoreferenziale “Scene Of The Crime” e la più distesa “Begin The End”. Brani tutt'altro che eccelsi, ma confezionati in maniera tale da suonare persino gradevoli, esattamente come il singolo di lancio “Too Many Friends”, sorta di inno melodico-nichilista per adolescenti tormentati dal
cyber-bullismo il cui crescendo strumentale finisce però, suo malgrado, per coinvolgere.
Non manca però nemmeno una bella serie di scivoloni, dalla melensa “Hold On To Me” all'imbarazzante “Rob The Bank”, un misto del peggio dei primi tempi e delle insopportabili venature
r'n'r di
Battle For The Sun, passando – anche se in dosi minori – per la sviolinata conclusiva di “Bosco”. Capita però che in tutto ciò, i Placebo versione pop-band riescano a tirar fuori dal cappello pure un colpo di genio che risponde al titolo di “A Million Little Pieces”,
powerballad dal
pathos psicodrammatico forte di una sezione strumentale da capogiro, senza mezzi termini la migliore mai partorita da una band che ha sempre avuto nella cura degli arrangiamenti il suo punto debole.
A conti fatti, risulta necessario rassegnarsi all'idea che ormai i Placebo siano divenuti in tutto e per tutto un marchio, legato quasi esclusivamente alla voce di un
frontman che da tempo ha abbandonato quei panni androgini e ribelli che avevano caratterizzato le grandi imprese quanto le peggiori cadute di una band oggi snaturata nel suo essere. Ipotesi che collidono in una verità unica e incontestabile legata proprio all'ultimo, emblematico album: se
Loud Like Love riesce a vivere di vita propria e a resistere neppure troppo a stento, sono i Placebo che di linfa vitale, prima ancora che creativa e artistica, sembrano averne sempre di meno. E pure se in quest'ultimo caso i risultati hanno superato ogni più rosea (e bassissima) aspettativa, è difficile credere che, se ci sarà, una futura prossima volta possa seguire il medesimo destino. Resta dunque il ricordo di una band emblema della sua epoca, sopravvalutata da taluni quanto sottovalutata da troppi, in grado di sfornare negli anni un canzoniere memorabile, benché privo di una particolare valenza storica. Una band che è e resta perfetta incarnazione di quello che il rock ha rappresentato nel passaggio tra i due millenni, i cui episodi più ispirati sono destinati a restare nel novero dei simboli dello stesso, ma soprattutto a essere ascoltati: ancora e ancora.
A fine 2015 i Placebo pubblicano un live registrato per il format
MTV Unplugged, riarrangiando diciassette canzoni in chiave acustica, registrate in presa diretta eseguita a Londra. Difficile replicare
unplugged la forza dei primi lavori, ma la band di Brian Molko, che ha sempre puntato con decisione sul vigore elettrico, sa giocare di fino, modificando ad arte molti arrangiamenti. I celebri hit “Slave To The Wage” e “
Meds” vengono spogliati quasi di tutto, alcune tracce subiscono persino un processo di riscrittura (è il caso di “Every You Every Me”, in duetto con Majke Voss Romme), mentre in altre la presenza degli archi assicura il mantenimento di quella melodrammaticità che caratterizzò gli originali (“Without You I’m Nothing” è la più riuscita in questo senso).
I ripescaggi dal passato più lontano (“36 Degrees”, l’efficace “
Protect Me From What I Want”, qui con il contributo di
Joan Wasser alla voce) fanno ancora battere il cuore, i brani più recenti lasciano invece meno il segno, pur identificando una band che dopo i primi ottimi lavori ha sempre preservato un livello qualitativo quanto meno onesto. Il risultato dei nuovi arrangiamenti è ora dolente (“Jackie”, “
Loud Like Love”, “Hold On To Me”, “Bosco”), ora più energetico (“
For What It’s Worth”, “Too Many Friends”, “Post Blue”), ora una gradevole via di mezzo (“Because I Want You”). Per chiudere l’esibizione vengono scelte l’omaggio ai
Pixies di “Where Is My Mind?” e la celeberrima “The Bitter End". La situazione intima porta l’androgino Molko a dialogare spesso con il pubblico presente, spazzando via quell’aura da rockstar scostante e irraggiungibile che spesso gli viene cucita addosso. Ed anche questo va considerato come un risultato tutt’altro che trascurabile.
Nel 2016 il ventennale viene celebrato - oltre che con un lungo tour europeo - con il "best of" "A Place For Us To Dream" e con l'Ep di cover e chicche per aficionados
Life's What You Make It.
La cover dei
Talk Talk apre e dà il nome a questo nuovo lavoro, un incipit dal mood riflessivo che spiana la strada alle melodie del nuovo singolo "Jesus' Son".
La malinconica e potente "Twenty Years" è presente in due versioni, entrambe dal vivo, la seconda "solo piano". Bella e toccante la cover di "Autoluminescent" di Rowland S. Howard (chitarrista dei
Birthday Party, scomparso prematuramente nel 2009), seguita da una chiusura di classe per questo extended play come la rilettura di "Song #6" dei Freak Power.
Never Let Me Go: il disco della maturitàSebbene i Placebo non abbiano mai sortito grande simpatia tra i critici, possono senz’altro vantare una fanbase affezionata e fedele. Il rischio, però, dopo nove anni dall’ultimo album in studio,
Loud Like Love, era che avessero scelto di appiattirsi su sonorità pop dall’impalcatura collaudata. E invece la band - ora ufficialmente un duo, composto da Brian Molko e Stefan Olsdal - sceglie di spogliarsi dal tartufismo che l’aveva ammantata nel post-
Meds per abbracciare un nuovo approccio compositivo.
In un’intervista alla Bbc 6, Molko ha spiegato: "Sono andato da Stefan con delle immagini e una lista di titoli di canzoni che ho scritto negli ultimi cinque anni e gli ho detto: scegliamo la copertina dell’album prima di scrivere la musica, iniziamo con i titoli delle canzoni e poi registriamo tutto l’album senza un batterista. Ovviamente non abbiamo potuto lavorare esattamente al contrario, ma è stato interessante cambiare completamente approccio. Alla fine abbiamo usato non uno ma due batteristi".
Al di là dell’approccio compositivo, ciò che sorprende in
Never Let Me Go è un’urgenza creativa che ai due mancava da un po’. A solleticare la sfera emozionale di Molko e Olsdal due “twin demons” in particolare: il Covid 19 e la rabbia per Brexit, che ha costretto Molko a lasciare la sua “isola” per andare a vivere in Europa, dove, a suo dire, “la società è un po' più libera, meno sciovinista, xenofoba e sociopatica", argomento indagato principalmente in “Chemtrails”. Le canzoni sono animate, inoltre, dai topoi di sempre: il rapporto con le droghe nella loro doppiezza, intese quindi come pharmakon (φάρμακον), la morte e una rabbia sempreverde e malmostosa in grado però di trascendere, abbandonandosi a riflessioni e distici malinconici.
In “Happy Birthday In The Sky” il tema della scomparsa si lega a quello delle droghe/medicine, mentre in “Forever Chemicals” il cinema della memoria, impigrito dagli eccessi, proietta ricordi anestetizzati dagli psicofarmaci in un
hic et nunc in cui il piano della realtà e quello della memoria si rincorrono senza sosta. “Hugz” intercetta certe istanze noise e
glam degli
anni 90 lasciando che la mente corra a “Kool Thing” dei
Sonic Youth, laddove “Went Missing” sbocconcella invece dal loro stesso repertorio, grazie a uno
spoken word che ricorda quando “Lady Of The Flower”, quando “Passive Aggressive”. Non a caso sul finale vien voglia di sovrapporre il verso “secret destroyers keep away” a quel “soul mates never die” tanto caro a chi ama i Placebo da una vita. Un piccolo, dolcissimo tributo a
Dolores O’ Riordan e alla sua “Zombie” sembra inoltre emergere dall’orgia intorcinata di strumenti nell’outro del brano.
I pezzi più
radio-friendly, come “Beautiful James”, in cui i due giocano coi sintetizzatori, e la banalotta “Try Better Next Time”, pur nella loro semplicità, sono funzionali all’economia del disco, che recupera così un tocco giocoso, prima di rituffarsi nelle turbe paranoidi di “Surrounded By Spies”, nei deliri autobiografici di Molko in “Sad White Raggae” - con quell’attacco EBM che ricorda l’
IAMX dei tempi migliori -, “Twin Demons”, che ha tutte le carte in regola per accompagnare la doppietta “Special K” e “The Bitter End” ai concerti e l’invettiva finale di “Fix Yourself”, forte di un passo claudicante che ricorda a tratti i
Radiohead di “
How To Disappear Completely”.
Vi è poi “The Prodigal”, testamento sentimentale di un’anima guarita in procinto di andar via, offerto in dono per lenire il dolore di chi rimane, con una semplice consapevolezza: la morte del corpo libera l'anima da patemi e brutture (
So please don’t cry/ don’t think it’s wrong/ my soul is pure/ it sings along). Le tessiture orchestrali, coi violini in crescendo, impreziosiscono ulteriormente questa inaspettata gemma, immersa nel chiarore dorato della speranza e della redenzione.
Ottimo, in generale, il lavoro fatto su mix e arrangiamenti, da sempre il punto debole della band. Niente compressioni estreme a castrare il suono, che qui attinge, abrasivo, soprattutto al mondo industrial ed elettroclash, ma vi è anzi un buon range dinamicoin grado di offrire alle canzoni un respiro ampio e meno prevedibile rispetto ai due album precedenti.
Never Let Me Go è quindi il lavoro della maturità dei Placebo: solido e ispirato, da una parte recupera il piglio beffardo degli esordi e dall’altra si offre di sperimentare una nuova, sfolgorante maturità.
Contributi di Claudio Lancia ("Mtv Unplugged"), Lorenzo Pagani ("Life's What You Make It") e Giulia Quaranta ("Never Let Me Go")