Nel 1998 i Placebo fecero un buon disco, "Without You I'm Nothing" - il loro secondo lavoro. Un buon disco nel senso di dodici canzoni accattivanti e molto ben prodotte, scritte con ispirazione e proposte al pubblico con un atteggiamento nichilista e ambiguo al punto giusto. Il problema dei Placebo, da allora, è fondamentalmente lo stesso di gran parte delle band pop-rock, ovvero la cronica mancanza di un pur minimo straccio di idea che al "buon disco" (generalmente il primo o il secondo) consenta di avere dei seguiti degni quantomeno di essere ascoltati perché portatori di nuove soluzioni e nuove ispirazioni.
Problema questo che diventa una tragedia, artisticamente parlando, se si è inglesi, perché la stampa d'oltremanica se fai un "buon disco" ti proietta seduta stante nella galassia delle grandi star, ti spinge a bruciare tutte le tue doti, che generalmente sono limitatissime, nell'arco di un anno, ti trasforma da gruppo musicale a prodotto di marketing. E se al successo commerciale, certamente gratificante, non fai seguire un'adeguata rivitalizzazione della tua proposta musicale allora, volente o nolente, dal piccolo mondo del pop-rock non ne uscirai mai, a meno di non chiamarti Radiohead o Blur (solo per citare le due band più "coraggiose" del recente pop britannico), e finirai presto o tardi nell'affollato dimenticatoio dove vanno a finire le "next big thing" dopo uno, massimo due dischi.
Alla luce di questo nuovo "Sleeping With Ghosts", appare infatti sempre più evidente come i Placebo siano totalmente sprovvisti tanto della capacità artistica quanto forse della voglia di tentare qualcosa che superi il loro ormai abusatissimo cliché, che è quello di una pop-song nel più classico significato del termine appena appena sporcata da attitudini, o meglio velleità, "darkwave".
Quarto album del trio capeggiato dall'androgino Brian Molko, "Sleeping With Ghosts" fa seguito all'ancor più banale e ripetitivo "Black Market Music", e come da programma non offre nulla più che la solita, stessa, identica canzone che Molko, Hewitt e Olsdal ci propongono ormai da anni, confermandosi sempre più fortemente come una band che ormai scrive le sue canzoni all'insegna del "vorrei ma non posso": vorrei essere suggestivo e iconoclasta come la new-wave e il dark-punk (il singolo "The Bitter End" o "English Summer Rain"), vorrei essere precursore e innovativo come i Massive Attack (la patetica incursione dub di "Something Rotten", quasi peggio dello scellerato hip-hop di "Spite & Malice" dal precedente album), vorrei essere affascinante ed espressivo come David Bowie (ma quand'è che Molko la pianterà di atteggiarsi a fratellino "dark" di Ziggy Stardust?).
Purtroppo per loro i Placebo non sono nulla di tutto ciò e quel poco che avevano da dire lo hanno bruciato in un solo disco, cinque anni fa, e da allora continuano stancamente a sfornare lavori impersonali e scialbi con il solo obiettivo di vendere qualche disco in più. Padronissimi di farlo, ma alla prova del tempo è difficile che qualcuno si ricorderà di loro se continueranno così.
29/10/2006