"Felicità? È una parola che, di tanto in tanto, nella mia vita, ho raccolto, ho osservato - ma mai l'ho scoperta sotto le stesse sembianze". Così scriveva il premio Nobel Doris Lessing nel suo romanzo "Memorie di una sopravvissuta". Chissà cosa pensano della felicità i due ragazzi di Manchester, il cantante Theo Hutchcraft e il polistrumentista Adam Anderson, che compaiono elegantissimi in bianco e nero in una copertina che potrebbe essere, senz'alcun problema, la réclame di una casa di moda di chiara fama (a guardarla meglio sembra un ibrido tra la foto di copertina di "Actually" dei Pet Shop Boys, senza sbadiglio, e quella di "The Time", il secondo album dei Bros).
Fuoriusciti da un paio di band, i Daggers e i Bureau, gli Hurts hanno trovato una studiata e congeniale immagine posh e la squadra giusta con cui lavorare: oltre al produttore svedese Jonas Quant c'è infatti Mark "Spike" Stent - che ha mixato brani per gli Erasure, Madonna, i Saint Etienne, i Kaiser Chiefs e molti altri artisti - e soprattutto quella "vecchia volpe" del pop che è Richard "Biff" Stannard, proprietario dell'etichetta Major Label nonchè autore e produttore per Kylie Minogue, le Spice Girls e gli East 17.
Proprio questa saggia combinazione di giovani talenti e di navigati protagonisti del
music business ha portato la coppia a confezionare un lavoro obliquo, il cui intento è quello di creare un ponte tra il
mainstream (pur sempre con un gusto non comune) e la scena
indie amata dai palati più sofisticati. "Happiness" è un album smaccatamente pop, fatto di ritornelli vestiti in lussuosi abiti da sera, capaci di attaccarsi come calamite alla nostra memoria: è un tour malinconico e a tratti catartico.
Tanto nelle sonorità quanto nell'immagine, la proposta del duo inglese è ispirata agli anni Ottanta e a quelle sonorità synth-pop che hanno caratterizzato il decennio: vengono in mente i già citati Neil Tennant e Chris Lowe - ma anche e soprattutto i primi
Tears For Fears di "The Hurting" - e nelle undici canzoni (dodici, se contiamo la non irresistibile
ghost track "Verona") sono moltissimi i riferimenti più o meno "aristocratici" che riaffiorano.
Si parla di "disco lento", o di "lento doloroso", tra le principali fonti di ispirazione degli Hurts - nient'altro che una
dance romantica e rallentata, figlia di un certo
euro-pop e in primo luogo dell'
italo-disco che tanto ha spopolato anche all'estero e che tuttora viene omaggiata fuori dai nostri confini (se i Pet Shop Boys affermano, tra le note dei libretti delle loro ristampe del 2001, di amare "I Like Chopin" di Gazebo e inseriscono nel loro volume della serie "Back To Mine" un brano come "Don't Cry Tonight" dell'italianissimo Savage, e se i
Royksopp in un'occasione hanno rispolverato "Get Closer" di Valerie Dore, tutto torna). L'idea era già venuta agli italiani Medusa's Spite, ma qui non si tenta di clonare quelle sonorità usando magari samples troppo sfacciati.
Il viaggio ha inizio con la
depeche-modiana "Silver Lining", contraddistinta da un coro sinistro, e con "Wonderful Life" - un brano che abbiamo già avuto modo di ascoltare e apprezzare diversi mesi fa (grazie ad una prima rudimentale versione del videoclip che è apparsa su YouTube). In questo singolo è evidente il contrasto tra le parole cantate da Theo e l'atmosfera in cui veniamo immersi - ci sono strati e strati di tastiere, una sfilata di accordi minori ed un etereo sassofono che ricorda, alla lontana, quello di Andy MacKay dei
Roxy Music trovato in "Love Comes Quickly" dei Pet Shop Boys (ma anche quello della meno ricordata "Samurai" dell'artista tedesco-rumeno Michael Cretu).
Le liriche, però, sono prevalentemente romantiche e assai meno ricercate rispetto a quelle dei loro predecessori: qui manca la
wittiness tipicamente britannica per cui è noto Neil Tennant, e al contrario dei primi lavori di Roland Orzabal e Curt Smith non c'è spazio per argomenti complessi come le terapie dell'urlo primordiale. "Blood, Tears & Gold" è il brano che i Keane di Tom Chaplin, perduti in maldestri tentativi di aggiornamento del proprio
sound (attualmente inquinato con dubbi inserti rap) non riescono più a comporre dai tempi del loro brillante debutto. I cori enfatici di "Stay" fanno invece immaginare un eccentrico connubio tra alcune cose scritte da
Jim Steinman e i
Coldplay di "Lost!", e un brano drammatico come "Evelyn" è costruito con un crescendo a dir poco emozionante. Anche "Sunday" è assai riuscita.
Non c'è un solo suono fuori posto, l'album è un vassoio di prelibatezze pop da
nouvelle cuisine. "Illuminated" è un altro gioiello, stavolta più timido e composto di quello che lo precede in scaletta. Farebbe un'ottima figura all'interno di un disco degli Erasure dello scorso decennio. "Better Than Love" è l'unico vero episodio danzereccio dell'intero "Happiness" - e non a caso è stato scelto come singolo di lancio. "Ogni secondo è una vita intera, e ogni minuto di più ti porta più vicino a Dio", mentre linee di synth creano vortici ipnotici accostabili a quelli di "Bliss" dei
Muse.
Arriva poi il momento dell'ospite d'onore, cioè Kylie Minogue, che regala un'interpretazione vocale capace di riportarci agli anni Novanta e alla sua produzione meno fortunata in termini di copie vendute, ma più avventurosa e interessante - e dal momento che i due hanno da poco riletto dal vivo "Confide In Me" della cantante e attrice australiana, l'effetto è certamente desiderato. "Devotion" è in bilico tra le cupe e ammalianti atmosfere di "Open All Night" di
Marc Almond e certe arditezze del
Darren Hayes post-Savage Garden (per intenderci, quello dello spigoloso "The Tension And The Spark"). Davvero suggestiva anche "The Water" - cui tocca il compito di chiudere questo primo capitolo.
C'è da credere all'
hype? Chi scrive crede di sì, anche se solo il tempo saprà dirci se l'accoppiata ora vincente avrà nuove cartucce da sparare. Per ora il proiettile ha colpito dritto al cuore: ecco come si può scrivere e cantare musica destinata al grande pubblico e di certo "derivativa" conferendole fascino ed immediatezza. "Happiness" farà piacere ai fan dei
Depeche Mode più recenti, ma spingerà anche l'
indie-snob più integralista a fare due conti con il proprio passato - e a recuperare qualche 45 giri che oggi avrebbe qualche problema ad esibire nella propria collezione. Perché se così tanti artisti attingono da quel tanto vituperato decennio significa che è il caso di rivalutare anche un certo modo di scrivere melodie e la
naiveté che poi l'house music (da una parte) e il
grunge (dall'altra) hanno cercato di seppellire. Senza però riuscirci.
09/09/2010