Un ritorno alle origini, ma ponderato. O meglio ancora, una visione nostalgica, irrimediabilmente filtrata attraverso l'esperienza di tutto quello che è successo nel frattempo. Sì, perché dopo una serie di lavori che hanno visto James Blake allungarsi verso la grande industria discografica con comparsate e produzioni per altri, l'intimità di "Playing Robots Into Heaven" suona come un momento di sacro raccoglimento emotivo, anche per i suoi canoni.
Certo, sulle prime qualcosa non quadra, è come se il tutto volesse sfuggire via dalla porta di servizio, evitando d'incrociare amici, conoscenti e pubblico pagante. Ma la magia della materia elettronica si esprime anche nelle infinite tonalità di grigio, nel ponderare all'infinito sui propri passi fino a trovarsi tra le mani un quaderno digitale zeppo di nuove idee che si riordinano da sole. "Playing Robots Into Heaven" è dunque l'inaspettata sintesi del Blake-pensiero: frattaglie breakbeat e post-club mescolate con l'austero soul-step degli esordi, calcolando al millimetro l'equilibrio tra elemento vocale, stridori Idm e un anemico calore umano. È come se il malessere cosmico di "Kid A" venisse acquietato con un abbraccio fraterno, lenito con un bacio e infine esorcizzato nella cava rimbombante di una pista da ballo rigorosamente vuota, lontano da sguardi indiscreti per non turbare l'intimità del rito. Ma quello che un tempo sarebbe stato concepito con polso ruvido sotto alle arcate del Fabric, oggi, viene processato seguendo un orizzontale gusto sinfonico per la stesura delle basi e l'orchestrazione dei sample, infilando brevi linee melodiche nel mezzo dell'operazione a cuore aperto di un produttore hip-hop - esplicativa l'apertura di "Asking To Break", nella quale angelici frammenti vocali viaggiano di pari passo accanto a timide idee di piano e tastiera, quasi fosse materia cosmica degli Air rimaneggiata da Dj Shadow.
Lungo undici tracce per tre quarti d'ora scarsi di durata, il lavoro cangia in continuazione tra grigi paesaggi di brughiera e piovose notti metropolitane, costruendo la materia digitale attorno a una "soul-tronica" che sa di folklore universale. Ecco "Loading", impreziosita da un suggestivo crescendo strumentale, e la splendida dance progressiva di "Tell Me", che sembra uscita dal "Raven" di Kelela per quanto suona oleosamente oscura e vellutata. Poi ancora gli acquerelli di "Night Sky", a ricongiungersi con l'ambient concettuale del duo Space Afrika, e i gorgogli dubstep di "Fall Back", stavolta presi in prestito dal collega Burial. Referenze forse non nuove, ma assemblate da Blake con mano riconoscibile che non pecca mai di cattivo gusto.
Difatti, poco più in là, ci si imbatte nella costruzione a blocchi di "He's Been Wonderful", la quale, tra cori gospel e interferenze noise, parla lo stesso linguaggio di associazioni libere di "The Life Of Pablo" di Kanye, un afflato vagamente metafisico che poi ricorre anche nelle decostruzioni di dub e soca dello spinto singolo "Big Hammer". Ed ecco l'amore: "I Want You To Know", con voci angeliche intinte in un soul cibernetico disidratato dal contatto con l'atmosfera terrestre, e "If You Can Hear Me", breve frammento pianistico dedicato alla figura paterna. Poco amorosa nelle liriche, ma stilisticamente affine, anche "Fire The Editor", un introverso momento che si apre in un carillion d'innata dolcezza, ma infine lascia da parte la voce per concludere l'andamento "lirico" con una fremente linea di tastiera. Sono questi gli accorgimenti che fanno del disco un ascolto così raro e cantautoriale, anche al netto della mancanza di una forma canzone classicamente intesa: la comunione d'intenti tra voce, macchina, strumento e manipolazione digitale crea un impasto sonoro denso e inscindibile.
Non stupisce la ricezione tutto sommato tiepida ottenuta un po' ovunque, dacché i motori dell'hype, prima o poi, imboccano il proprio naturale percorso discendente. Lo stesso autore ha pensato bene di ripresentarsi col suo lavoro più muto e insondabile dai tempi di "Klavierwerke" e "CMYK", smorzando nuovamente i toni in favore di un profilo più basso, ben lontano dalle collaborazioni con Kendrick Lamar, Beyoncé e Travis Scott. Da qualche parte nell'intimità della propria mente, infatti, James Blake è l'introverso beatmaker di sempre, a proprio agio per mesi interi di fronte al computer con la stessa curiosità di quando ancora studiava musica alla Goldsmith di Londra. Eppure, "Playing Robots Into Heaven" è tutto tranne che un ascolto auto-compiaciuto o forzatamente referenziale: smagliato ma avvincente, tondo e spigoloso allo stesso tempo, diviso tra stradaiola energia hip-hop e profondo candore soul, suona estremamente contemporaneo ma mai modaiolo. Uno dei dischi elettronici più quietamente emozionanti dell'anno.
22/10/2023