Wu Tang Clan

Wu Tang Clan

L'urlo del Clan terrorizza l'occidente

L'avvento del gruppo newyorkese ha cambiato per sempre il mondo dell'hip-hop. Il loro capolavoro, "Enter Wu-Tang", è la pietra miliare dell'hardcore rap e l'"hip opera" più significativa degli anni 90. Il suo successore, "Wu-Tang Forever", li ha trasformati in un fenomeno sinergico, multimediale e commerciale di proporzioni inedite e, nel suo genere, inusitate. E la saga continua...

di Simone Coacci

Come un “Rashomon” tramandato dai pistoleri di “Pulp Fiction” (o dai “samurai” di “Kill Bill”). Bianco o nero, come le due facce del Tao. Come la musica tonale e l’hip-hop. Come i precetti dell’autocoscienza (lo Shao-lin del lontano Oriente e la Five Percent Nation di fede musulmana) e le logiche perverse del “ghetto” di Staten Island (sei degli otto membri ufficiali del Clan sono dei pregiudicati, esistono fascicoli dell’Fbi su un loro presunto coinvolgimento in un traffico d’armi e circolano parecchie voci su meno presunte amicizie “pericolose” con alcuni affiliati della famiglia Gambino). I princìpi della Zulu Nation e i consuntivi del business corporativo (“Cash Rules Everything Around Me”).
Quando si parla del Clan, ogni storia ha almeno due risvolti. Ogni profilo il suo doppio. Ogni impressione ibridata dal suo contrario. La sola cosa di cui possiamo essere certi è che l’avvento del gruppo newyorkese ha cambiato per sempre il mondo dell’hip-hop, aumentando a dismisura il controllo e l’indipendenza creativa degli artisti sulla propria carriera ed elevando il concetto di crew a vera e propria comunione collettiva del fatto estetico, musicale e, non ultimo, affaristico e multimediale.

Mescolando spietati stralci di vita vissuta a riferimenti letterari (l’hardboiled school e il “colore noir” di Mosley e Pelecanos, i fumetti di Miller e O’Barr o quelli della Marvel), cinematografici (Spike Lee, Jim Jarmusch, il Leone/Kurosawa di “Yojimbo”/”Fistul Of Dollars”, i celeberrimi film di kung-fu alla Bruce Lee, quelli di cappa e spada degli Shaw Brothers e i classici minori della blackexploitation) e musicali (il sampling strumentale esteso in dissolvenze incrociate, il taglio episodico e concettuale delle canzoni legate fra loro nello sviluppo di un vero e proprio scenario audiovisivo, come avviene per le colonne sonore), il loro capolavoro, Enter Wu-Tang (36 Chambers), col tempo, s’è innalzato fino al soglio di “hip opera” per eccellenza degli anni Novanta.

Il suo successore, Wu-Tang Forever, più che enfatizzare e “volgarizzare” l’eredità stilistica dell’esordio, ha segnato il trapasso della street culture (e della black culture) a fenomeno discografico, sinergico, commerciale di dimensioni inedite e inusitate nel suo genere. Con il lancio di un merchandising tanto capillare da rivaleggiare coi fenomeni della musica bianca (i Beatles, gli Stones o gli stessi Kiss), di una linea di abbigliamento (la “Wu-Wear”) e di una vera e propria società di entertainment autogestita dai membri del gruppo (con l’abbrivio di una corte sterminata fra legali e management) capace di spaziare dalla produzione musicale, a quella cinematografica o televisiva e persino di progettare  un’intera collana di videogame (debitamente ispirati a scenari da “boyz in tha hood” quanto ai vecchi “picchia duro” a base di arti marziali) per la Play Station.

Un brand subliminale e vincente che ha traghettato la loro dinastia discografica oltre l’orda scomposta e diseguale degli allori solisti dei vari membri (The W), piantato orgogliosamente la bandiera dell’hardcore al culmine dell’insorgere delle nuove leve di rapper e produttori (Iron Flag), più forte dei lutti (Ol’Dirty Bastard) e degli abbandoni (U-God, Cappadonna) nel tagliare il traguardo dei nostri giorni grazie all’ultima testimonianza di una progettualità musicale e di una coerenza stilistica fuori dal comune (8 Diagrams).

Scene di vita (e di lotta) prima del Clan: “Shame on a nigga who try to run game on a nigga”    

Wu-Tang Clan - RzaIn principio era la Force Of The Imperial Master. Sorvolando al telescopio la polvere di Kantor della scena newyorkese composta, sul finire degli anni Ottanta, per lo più da riluttanti nebulose, asteroidi, meteore che s’incrociavano e talvolta collimavano, ma più spesso collidevano, attorno ai pochi punti fermi della vecchia scuola (Public Enemy, Rakim, EPMD, Schooly D, KRS One, Big Daddy Kane), intercettiamo i tre membri fondatori del Clan, RZA “The Razor” (Robert Diggs), suo cugino GZA “The Genius” (Gary Grice) e Ol’ Dirty Bastard (Russel Jones), impegnati in una formazione al crocevia onomastico fra le “faide” hollywoodiane di George Lucas e l’“ascetica” ispirazione del Sol Levante.
Il gruppo ha uno stile ancora acerbo (registrazioni di quel periodo vedranno successivamente la luce nel progetto intitolato "All In Together Now") ma riesce, grazie al talento dei singoli componenti, a destare l’attenzione di alcuni pezzi da novanta dell’industria, fra cui il gargantuesco Biz Markie, le cui promesse legate a uno sbocco discografico si rivelano, però, amare chimere.
Sebbene animata da fieri propositi e suffragata da un certa nomea nell’imponente agone locale, la crew si dissolve nella disillusione e nel disinteresse dei grandi network musicali.

Covando già un motivato sdegno verso i “fratelli che s'approfittano di altri fratelli”, “il rasoio” e “il genio”, hanno tutta l’intenzione di battersi contro la fraudolenza ghettizzante di un sistema che si ciba di  nuove proposte da American Bandstand più che di integralisti delle sedici battute e, ognuno per conto proprio, nel 1991, collezionano il sospirato gettone di debutto rispettivamente con due singoli, “Oh Prince Rakeem” e “Oh My Deadly Venom” (sorta di novelty del romanticismo black più sfacciato in cui emerge, fra le righe, la sua vena sarcastica e la sua abilità negli accostamenti dei cut), e un album, "Words From The Genius", che passano equanimemente inosservati.
Secondo un copione che mescola leggenda urbana e pragmatismo imprenditoriale, a questo punto la trama s’infittisce: una sera fra le tante, per puro caso, i tre amici si riabbracciano e, com’è, come non è, decidono di riprendere il discorso esattamente dove lo avevano interrotto, cospirando un nuovo, definitivo assalto - o vittoria o morte -  al mercato discografico.
RZA pronuncia di fronte agli altri due la fatidica promessa: se avessero aderito al suo rivoluzionario piano di autogestione economica, estetica e musicale, lui li avrebbe condotti in cima al mondo dell’hip-hop fino a una progressiva, percentuale, condivisione dei profitti e del controllo complessivo sull’intera operazione.

Occuparsi direttamente e integralmente di ogni aspetto della filiera musicale, dalla creazione alla distribuzione (concordata con una major nel rispetto di precise condizioni), è un obiettivo tanto ambizioso quanto avveniristico e farà di RZA, de facto, il leader, il produttore e il portavoce della nuova formazione.
Il piano prevede l’arruolamento dei talenti più puri, incorrotti e promettenti  dell’underground newyorkese al fine di creare un vero e proprio collettivo, un’affiatata squadra di combattenti disposti a marciare in un'unica direzione.
La selezione avviene in lungo e in largo per cinque distretti: ben presto i quasi coetanei Method Man (Clifford Smith), Raekwon (Corey Woods), Ghostface Killah (Dennis Cole), Inspectah Deck (Jason Hunter), U-God (Lamont Hawkins) e Masta Killa (Elgin Turner) ne risulteranno i prescelti. Ma prima c’è bisogno di un moniker, di un marchio a fuoco che spazzi via ogni possibile tentativo d’imitazione lasciando, tutt’attorno, solo terra bruciata: filtrando i precetti della meditazione orientale, il retaggio della militanza in organizzazioni politiche di fede musulmana come la Five Percent Nation, attraverso l’estetica dei film sulle arti marziali, qual è appunto “Shaolin and Wu-Tang”, e la mitologia urbana del combattente “nero-asiatico”, fedele al codice della strada come gli antichi samurai lo erano al Bushido, il dedalo dei richiami e delle discendenze viene brillantemente espugnato.

Alla fine del 1992 il Wu-Tang Clan è già pronto a entrare in azione.

“Enter the Wu Tang”: my Hip-Hop will rock and shock the nation…


Anno di grazia 1993: un intero contingente di truppe americane, inviato in Somalia per dirimere la guerra fra i clan, viene praticamente annientato dalle forze locali; il serial killer Jeremy Rifkin è arrestato per l’uccisione di diciassette persone nell’area suburbana di New York; Marc Andreesen sviluppa l’antenato dei browser per il world wide web (Mosaic); viene immesso sul mercato il primo vegetale geneticamente modificato (Flavr Savr tomato). Bill Clinton è alla Casa Bianca da meno di un anno, un JFK con addosso più rotoli di ciccia e l’onnipresente screening dei media, la sua “nuova frontiera” è quella dei ghetti ostracizzati da dodici anni di “reagan-bushismo”, della sanità gratuita e della scuola pubblica.
La rinascita dell’ideologia democratica passa ovviamente per Hollywood, dove film come “Philadelfia”, “Schindler’s List”, “Carlito’s Way” e “America Oggi” rigirano l’arma bianca della critica in piaghe sociali vecchie e nuove.
Dall’arma della critica alla critica delle armi: il gangsta-rap ha già preso la strada della parodia sexy-demenziale, “Doggy Style” di Snoop Dogg, o del lirismo tragico e neo-romantico, Tupac Shakur; il mondo dell’hip-hop, già messo sottosopra dal G-Funk del Dr. Dre, è pronto per una nuova rivelazione, quella definitiva. Enter The Wu-Tang (36 Chambers) è la pietra miliare dei 90’s e l’inizio di quella che verrà denominata East-Coast Renaissance.

Da qui l’imprimatur ad almeno due filoni fondamentali nel successivo sviluppo del genere.
Il primo, sul breve-medio termine, è quello dell’hardcore o street rap, sorta di contrattacco east-costiero al gangsta californiano, che troverà di seguito più ligi campioni in personaggi come Onyx, NAS, Jay Z, Notorious B.I.G. e Puff Daddy. Il secondo, in prospettiva, è una forma di iperrealismo estetico e letterario (che conoscerà in Eminem il suo massimo esponente), una concezione polifonica, narrativa e cinematografica dell’opera, delle liriche e della personalità dell’mc che si manifesta nell’ alternarsi del discorso libero diretto e indiretto, nell’interpretazione mediata di uno o più alter ego. Doppelganger e maschere attanti d’ogni sorta, dramatis personae in cui l’autore può entrare e uscire a piacimento, sublimandosi dal semplice dettaglio cronachistico e autobiografico.

Da un punto di vista concettuale, RZA fa muovere i suoi rapper come i personaggi di un film, ognuno dotato di un ruolo specifico e di una precipua personalità. Personaggi che raccontano storie, superano ostacoli, cantano vittoria e ingaggiano una perenne battaglia con se stessi e con il mondo esterno, subendone i rovesci e assimilandone le regole in un vero e proprio codice. Figuratevi la scena: da una parte i raffinati “spadaccini”, Ghostface Killah e GZA, con le loro intricate metafore mutuate dalla “black cultha” così come dalla “pop cultha” e la loro disarmante capacità di variare lo schema metrico all’interno di un singolo verso, dall’altra i “pistoleri” Raekwon e Inspectah Deck, i loro scenari hard-boiled e una visione dell’esistenza grama e cruda, aliena tanto da pentimenti quanto da compiacimenti “gangsta”; in un angolo Method Man, goliardo di strada, autore di moderni “griots” dal flow roco, vellutato e seducente, a quello opposto Ol’Dirty Bastard, l’irregolare, il sociopatico, un’inquietante maschera allegorica da clown omicida fra Stagger Lee e John Wayne Gacy, in mezzo RZA, il regista che lancia continuamente direttive e proclami dal suo mic/megafono, il predicatore shahadah, il gran visir musicale che introduce, sotto la sua ala protettiva, splendidi gregari come il baritonale U-God (in galera durante la maggior parte delle registrazioni) e il rapidissimo Masta Killa.
Iperrealista e quasi distaccato, vissuto in terza persona con l’ausilio dei suoi personaggi più rappresentativi, a 130 anni esatti dall’”Atto di Emancipazione”, il Clan elabora un affresco sanguigno e paradossale sulla condizione culturale dei giovani neri agli albori degli anni 90, sospesi fra i residui di una coscienza militante ereditata dai padri, le contraddizioni dei programmi di alfabetizzazione e di assistenza sociale, le frequentazioni del sottobosco criminale, l’elogio sfrontato delle droghe leggere, l’apologia anti-borghese (fosse pure la nuova borghesia nera che si affaccia al mondo delle musica e degli affari) e la fatalistica consapevolezza che la vita nel ghetto rappresenta una strada senza sbocco per la propria gente.

Sotto l’aspetto musicale l’album inventa di fatto l’hardcore rap: RZA ottimizza gli evidenti limiti tecnici e produttivi (l’album fu prodotto, inciso e mixato in uno degli studi meno costosi di New York, con le parti vocali spesso registrate contemporaneamente dai vari mc, tanto che l'assegnazione delle strofe fu il risultato di vere e proprie “battle” concertate fra gli otto) per ottenere un suono denso e scuro, mordace e corrosivo, costruito su volumi tonanti e sinistri, beat rugginosi e acuminati come chiodi su una vecchia cassa d’esplosivo, troncati da repentini inserti jazzati, armonie morriconiane, avariati loop funky che si crogiolano in un bagno d’acido post-industriale e digressioni orientali quasi raga. Il sampling sistematico di frasi significative tratte da film di arti marziali, che riassumono con slogan efficaci la filosofia del Clan, e l’uso di skit vocali, che riportano senza censure dialoghi sboccati o scherzosi pronunciati “dietro le quinte”, conferiscono all’opera un’inedita struttura da work in progress, una sorta di happening insieme aperto e controllato, al contempo ambientale e narrativo, che avvince l’ascoltatore come la sequenza di una partitura cinematografica post-moderna (viene da pensare al minimalismo trasognato di Jarmusch o a un cut-up citazionista sullo stile di Tarantino).

“Bring Da Ruckus”, “Clan In Da Front” (solo di GZA) e “Wu Tang Seventh Chamber” sono anthem martellanti, scabri, essenziali ravvivati dalla vertigine del “pass the mic” e dalle sottili perversioni armoniche (rintocchi di spade, accordi di piano, larsen industriali) di RZA.
Le più ricche e arrangiate “Da Mistery of Chessboxin’” (con l’intero Clan che si dibatte fra le spire psichedeliche del sitar, doo wop martellanti e le perle di U-God: “Raw i’m gonna give it to ya with no trivia/ Raw like cocaine straight from Bolivia/ My hip-hop wil rock and shock the nation like the Emancipation Proclamation” e Ol’ Dirty Bastard, “Here I go, deep this flow/ Jacques Cousteau could never get this low”), “Shame On A Nigga” (la metrica costruita su una frase jazzata di Thelonius Monk e l’apoteosi personale di Method Man, Ol’Dirty Bastard e Raekwon) e “Protect Ya Neck” (il loro primo singolo, il loro cut più oldschool) preludono alla macerante introspezione cool-soul di “Can’t Be All Simple” e “C.R.E.A.M.” (i due pezzi che scaleranno maggiormente le classifiche dei singoli: la seconda, in particolare, più cupa, feroce e quasi noir nelle rime di Raekwon e Inspectah Deck, si piazzerà addirittura in cima alle graduatorie di musica dance).
Una visione del mondo pulp, ironica e selvaggia, quella del Clan, da cui è recisamente espunto ogni riferimento alle figure femminili (tanto che alcuni critici hanno visto nel goliardico skit di “tortura” all’inizio di “Method Man” una sorta di sublimazione omoerotica di un desiderio represso fra le pareti claustrali dei “blocchi” più degradati) e che tocca il suo apice emotivo in “Tearz” (marcetta per basso e tastiera Roland), dove il ghigno sarcastico e la stoica indifferenza del combattente si stemperano nella strofa di RZA, la cui intonazione sembra quasi volgere al pianto, mentre rievoca l’omicidio del fratellino avvenuto, per futili ragioni, proprio davanti ai suoi occhi (“Memories on the corner of my mind/ Flashback I was laughing all the time/ I taught him all about bees and birds/ But I wish if wish I had a chance to sing this three words…”). D’altronde, chioserà cinico Raekwon: “Ater the laughter I guess come the tearz”.

Wu-Tang Killa Beez: primo sciame di opere soliste

Wu-Tang ClanIl successo di Enter The Wu-Tang (36 Chambers) è lento, costante e inesorabile, tanto da raggiungere il numero 41 di Billboard e laurearsi disco di platino nel 1995 (ad oggi le vendite complessive superano i quattro milioni di copie). La W marchierà in modo indelebile e definitivo la genealogia e gli stilemi della musica rap fino alla fine degli anni Novanta. E permetterà ai singoli membri di negoziare prestigiosi contratti solisti: l’interregno che divide il primo album del Clan dal secondo vede i suoi principali componenti dedicarsi con successo a una serie apprezzate escursioni (“the greatest winning streak in rap history”), tutte realizzate sotto l’egida del Clan (le maglie fra i vari featuring e collaborazioni sono strettissime) e con la produzione/supervisione di RZA. Il più redditizio (numero 4 di Billboard e Grammy Award) è quello di Method Man “Tical” (1994), che rivisita in chiave dance-pop la texture ritmica di Enter Wu-Tang, il più acclamato dalla critica “Ironman” (1996) di Ghostface Killah, considerato, ad oggi, il miglior album “off Clan” di sempre. Fra gli altri: lo spericolato Ol’Dirty Bastard di “Return To The 36 Chambers: The Dirty Version”, che estremizza in chiave hardcore i contenuti lirici e musicali dell’opera madre; “Only Built For Cuban Linx…” di Raekwon, che porta in auge gli stilemi caricaturali e criminologici del “mafioso rap” (tanto che gli uomini del Clan si ribattezzano per l’occasione “Wu-Gambinos”) e, nella produzione enfatica, orchestrale e classicheggiante, reca già i prodromi dell’evoluzione stilistica che RZA ha in serbo per il secondo lavoro del Clan; ugualmente ispirato da foschi riferimenti al mondo della criminalità organizzata newyorkese è “Liquid Swords” di GZA, anche se, nel suo caso, non si tratta di un esordio. Da segnalare anche l’uscita da “6 Feet Deep” (1994) a firma Gravediggaz, un progetto che vede RZA impegnato con Prince Paul, Frukwan (degli Stetsasonic) e Poetic, un caposaldo del sottogenere horrorcore (Natas, Triple Six Maphia), segnato da atmosfere grand-guignolesche, campioni di “slasher movie” e sottolineature heavy.

Cash still rules: “Wu-Tang Forever”

Frutto di un budget sfarzoso, ormai consono all’acclamato status di “rap superstar”, e di ambizioni espansionistiche degne di una multinazionale, il kolossal Wu-Tang Forever (doppio album per più di due ore di musica) cala sul mondo dell’hip-hop col fragore di una corazzata in assetto di guerra. Anche se un esperimento di questo tipo era già stato tentato l’anno prima da Tupac con “The Don Killuminati: The 7 Day Theory” (1996) e quindi ricalcato da Notorious B.I.G, “Live After Death” (1997), né l’uno, né l’altro s’erano lontanamente avvicinati a uno sfoggio di così larghe proporzioni.
Musicalmente, l’opera è un vero proprio tour de force personale di RZA, che rielabora i tratti distintivi del primo album (i sample esplicativi dei film di kung-fu, la continuità narrativa fra i singoli pezzi, i beat caustici e altisonanti) arricchendo a dismisura lo spettro degli arrangiamenti (dal sixties soul all’acid folk, dall’essenzialità cripto-morriconiana e dalla grandeur orchestrale di John Williams alla suspence cinematica di Bernard Hermann e Howard Shore) e la sequenza della strumentazione (parti cantate, sezioni d’archi e fiati, flanger, arpeggi di chitarra acustica, synth e mellotron).
In altri termini: dall’hardcore al pomp-core. Una vena compositiva spesso barocca, stordente, ridondante, che si coniuga in lunghe code esclusivamente strumentali, montaggi analogici e improvvise ripartenze che lasciano poco tempo per distinguere la fine di un brano dall’introduzione dell’altro. Un’elegante virata su tonalità spesso trionfalistiche, eterogenee compiaciute, che se da un lato rendono le canzoni accessibili anche a chi ha poca dimestichezza con le basi minimaliste della musica rap, dall’altro, complice la loro ostentata raffinatezza, finiscono spesso per soffocare l’anima più street e ruggente del gruppo.

La maggiore estensione metrica a disposizione dei vari mc porta a una sostanziale, attenta redistribuzione dei contributi di cui beneficiano soprattutto i “comprimari” U-God e Masta Killah (oltre che l’esordio di Cappadonna, nono membro “non ufficiale” del Clan), mentre le liriche, ancora più dense e virtuosistiche che in passato, sono incentrate soprattutto sull’auto-incensante celebrazione di chi, dopo una lunga gavetta, sa di essere ormai giunto all’apice del successo, pur senza tralasciare gli scorci autobiografici e le violente istantanee sull’inferno dei bassifondi catturate da diverse angolazioni, a seconda del punto di vista dei personaggi, come in un film di Spike Lee.
Pur osservando le contraddizioni della loro città da una suite milionaria del Plaza, gli uomini del Clan ci tengono a testimoniare l’integrità delle loro radici, la caducità della gloria mondana e la relatività dei giudizi morali. E lo fanno attraverso accostamenti arditi, associazioni libere, frammenti di attualità, sport e cronaca nera, memorie in cui si mescolano ironia, vanteria e introspezione, oltre a una più massiccia vena predicatoria ispirata agli insegnamenti della Five Percent Nation (specie nei sermoni in spoken word di RZA, come l’iniziale “Wu Revolution” o nell’intro al secondo lato).

Si passa così dai brani più auto-indulgenti, solenni, fastosi come “Reunited” (col loro primo ritornello interamente cantato da coriste soul), “For Heaven’s Sake” (sui lati oscuri e inconfessabili del successo), la più essenziale “It’s Yourz”,  il mega-singolo “Triumph” (che si rivelerà un successo clamoroso pur senza concedere nulla ai cliché commerciali: un climax da film di guerra lungo quasi sei minuti, nove strofe, una per ogni membro compreso Cappadonna, e neanche un ritornello o una frase ripetuta) o l’orchestrale e quasi divinatoria “Heaterz”, ai mai sopiti belligeranti street, come “Cash Still Rules” (col suo feroce disincanto lenito in un soffice vello synth-soul), “Little Ghetto Boys” (introdotta da uno skit in cui i nostri sniffano cocaina e vengono inseguiti da una donna poliziotto; dove storie di miseria e sopraffazione si mescolano a riferimenti alla famiglia Gambino e al look mafioso, mentre i beat metallici e ficcanti si fondono in un'orchestrazione degna dei Moody Blues), “The City” (one-man show di Inspectah Deck, ispirato a scenari di guerriglia urbana, un'armonia su cui si rincorrono violini quasi klezmer) e l’incalzante, stridente “Severe Punishment”.
Altrove le tematiche sociali (“A Better Tomorrow”, sulla popolazione carceraria nera e la parziale demistificazione dello stile di vita gangsta, “cause the good die young and the hard die first” compendia amaramente U-God) si mescolano ad accorati omaggi lirico-musicali ai padri putativi della oldschool (“Older Gods”, le geminali “Bells Of War” e “Duck Season”) o a se stessi (“Deadly Melody”, col featuring di un altro futuro affiliato, Streetlife, è una miniera di sample estratti da “Enter Wu-Tang”, da cui riprende anche la caratteristica battaglia a colpi di “pass the mic”). Per il resto “Impossible” è una summa efficace delle antinomie e delle ambizioni che permeano l’intero album, un pezzo in cui si mescolano l’afflato declamatorio di RZA, strali anti-reaganiani, esaltazione del successo raggiunto, una predica finale contro le armi da fuoco (di Raekwon), il cantato soul di Tekitha e addirittura un sample tratto dalla “Patetica” di Beethoven.

In “Maria”, invece, è l’universo femminile a fare una sua prima comparsa nell’immaginario del Clan, sebbene in modo ancora caricaturale, tra il serio e il faceto, uno zibaldone di storielle sboccate degne d’un filmetto porno di Gerard Damiano fomentate da Ol’Dirty Bastard, il quale può dare sfogo a tutta la sua insaziabile satiriasi nella successiva “Dog Shit”, un gioiello a tratti quasi pow wow cicatrizzato da un theremin urticante tolto di peso dai film di William Castle; e, dulcis in fundo, la straordinaria odissea collettiva di “Hell Windz Staff”, animata da un arpeggio raga/acid folk.
In aggiunta: un brano in stile girl group interamente cantato da Tekitha, “Second Coming”, e un solo di U-God, “Black Shampoo”, sospeso fra sexy-soul da exploitation e romanticismo black con espliciti riferimenti a Barry White, che suonano più come divertissement di classe che come meri riempitivi.

Wu-Tang Killa Beez part 2: la saga continua

Forgiato nel crogiuolo mediatico derivante dagli eventi luttuosi e dalla desunta faida East-West del biennio ’96-’98, Wu-Tang Forever, ottiene un successo ancora maggiore del suo predecessore, vendendo 650.000 copie nella prima settimana e debuttando direttamente al numero 1 di Billboard (le ultime stime lo accreditano complessivamente sugli 8,3 milioni di copie). Il disco conclude felicemente il “piano quinquennale” ordito da RZA che, da questo momento in poi, inaugura una gestione collettiva degli interessi legati al Clan, progressivamente aperta agli altri membri e ai collaboratori più fidati.
Contemporaneamente si registra l’immissione sul mercato di una mole crescente di prodotti (musicali e non) legati al marchio “Wu”. Il collettivo di Staten Island è a questo punto un'impresa multisettoriale che fattura in tutto il mondo cifre da capogiro.

Si apre così una stagione in chiaroscuro, segnata da una seconda tornata di opere soliste:  “Supreme Clientele” di Ghostface Killah, “Tical 2000: Judgment Day” di Method Man, “Beneath The Surface” di GZA, “Bobby Digital In Stereo” di RZA, “Nigga Please” di Ol’Dirty Bastard, “Immobiliarity” di Raekwon, unitamente agli esordi di U-God, “Golden Arms Redemption”, e “Uncontrolled Substance” di Inspectah Deck. Tutti assistiti da discepoli di RZA, 4th Disciple e Mathematics , o da produttori esterni come Trackmaster e i Neptunes, e usciti a cavallo fra il ’99 e il 2000. Produzioni baciate talvolta da un ragguardevole successo di pubblico (Meth e Ol’Dirty) e di critica (Ghostface) ma che, per il resto, pagano una eccessiva sovraesposizione e un leggero calo di popolarità degli artisti legati al Clan.
Ma è una stagione segnata anche da una serie ininterrotta di guai con la giustizia, connessi in particolar modo all’autolesionismo di Ol’ Dirty Bastard, che, a colpi di denunce e provocazioni, ingaggia un duello accanito e insensato con polizia e tribunali, riuscendo a farsi sbattere dentro una decina di volte nel giro di un anno con i più disparati capi d’imputazione. Problemi legali che, in qualche caso, si estendono all’intera organizzazione del Clan, come quando, nel 1999, vengono indagati dall’Fbi perché presunti responsabili di un traffico d’armi fra Staten Island e Steubenville (OH), accuse peraltro cadute per mancanza di prove.

Oooh, “The W”, is back in tha muthafuckin’ hood

Wu-Tang Clan
Scampati al Millennium Bug e ignari dell’11 settembre. Il 2000 è una data significativa, una linea d’ombra, una chiave di volta per l’evoluzione della musica rap. Da un lato c’è il massimo riconoscimento delle sue potenzialità commerciali, auspici Mtv e i canali discografici più orientati al mainstream, dall’altro la sovraesposizione delle sue componenti melodiche, a scapito di quelle ritmiche e concettuali, che avviene principalmente assimilando armonie ballabili: caraibiche, giamaicane, latino-americane e neo-pop.
C’è il successo inverosimile di Eminem (“The Marshall Mather’s Lp”, 2000) nul plus ultra dell’iperrealismo cinematico precorso dal Clan e derivazione “white trash” e operaia dell’hardcore (in linea con la tradizione di Detroit) e il rap meticcio (rock, soul, funk), progressista e intellettuale di Mos Def (“Black On Both Sides”, 1999). I cantautori bianchi sempre più spesso lo utilizzano come sottofondo corroborante ai loro sincretismi trobadorici e i gruppi che lo trascendono imboccano la strada dell’avanguardia e dell’astrazione: l’"hip hop digitale" degli Antipop Consortium (“Tragic Epilogue”, 2000), gli arrangiamenti eccentrici e le strutture promiscue di Aesop Rock (“Float”, 2000), in rampa di lancio, la versione onirica e minimalista dei cLOUDDEAD e quella cibernetica e industriale dei Cannibal Ox.

Nell’occhio di questo ciclone estetico e commerciale, il Clan s’impone un autodisciplina di tutto rispetto. Fedele al proprio stile, rinunciando ai voli pindarici ma schivando agilmente il rischio di ripetersi.
The W elabora una ferrea dieta musicale rispetto alla “volontà di potenza” del suo predecessore: crudo, nodoso, jazz oriented nel solco di atmosfere cronistiche e crepuscolari aliene da ogni enfasi sovraccarica e declamatoria. Non un “ritorno alle 36 stanze” insomma, ma un album maturo, essenziale, riflessivo. E l’ennesima grande prova di RZA, che macina vestigia street, cadenze jazz-hop, sample inediti (fra gli altri Albert King e gli Electric Prunes), perle di Stax Soul (su “I Can’t Go To Sleep” interviene “Sir” Isaac Hayes in persona), più skit e meno ritornelli cantati, sfumando ulteriormente l’impalcatura concettuale e l’interazione fra i vari mc/personaggi al fine di concedere loro una maggiore libertà tematica ed espressiva, un diverso respiro all’epopea collettiva. Su questo fronte si deve purtroppo registrare la quasi totale assenza di Ol’Dirty Bastard, al tempo delle registrazioni detenuto in California per violazione della libertà vigilata, che inciderà il suo unico contributo usando il telefono con cui i reclusi comunicano con i visitatori.
Il gap di inventiva e personalità viene colmato, più che dal discreto inserimento di Cappadonna, con quattro featuring di altissimo profilo: Nas, Red Man (già titolare, a quattro mani con Method Man, di “Black Out” del 1999), Snoop Dog e Busta Rhymes. È la prima volta che il Clan si apre in modo così massiccio alle collaborazioni esterne.

La qualità dell’album resta comunque elevata: pezzi di bravura come “Careful (Click, Click)” abbracciano l’inesplorato senza dimenticare ciò che si conosce meglio, fra scorci glitch su fondali morriconiani, recrudescenze street (tanto che il video della canzone fu bandito per istigazione alla violenza) e intermezzi da “blackexploitation”; “Gravel Pit” (con Meth Man e Ghost scatenati), soul-jazz acrobatico, sospinto da continui cambi di tempo e di tono, forse uno dei migliori pezzi di sempre, “Hollow Bones”, morbida e sensuale, con un sample della riottosa “Is It Because I’m Black” di Syl Johnson, “Conditioner”, sontuoso recupero del loop di “Tearz”, con Snoop Dog e Ol’Dirty Bastard (straordinari!) che ciondolano sul beat come un’adorabile coppia di papponi.
Non mancano i richiami al passato remoto, “Protect Ya Neck (The Jump Off) (l’unica battle collettiva presente nel disco) e “Let My Niggas Live” (con la violenza verbale dell’accoppiata Raekwon, Inspectah Deck coronata da Nas), né a quello più prossimo, la solenne e orchestrale “I Can’t Go To Sleep”, dall’afflato conscious e pacifista, forte di una base quasi trip-hop e di una grande strofa “politica” di Ghost, che ripercorre le morti di cui è costellata la storia recente del “sistema America”, e “Do You Really (Thang, Thang)”.
Molto meno convicenti, invece, le soluzioni rasta/reggaeggianti di “One Blood Under The W” (primo solo di Masta Killa) e “Jah World”, entrambe patrocinate dal cantante giamaicano Junior Reid.

Flag Of Our Fathers

The W conferma la tenuta del Clan con ottimi giudizi e vendite soddisfacenti (doppio disco di platino in Usa e Canada). Ma a questo punto, contravvenendo la maniacale pianificazione esibita fino a quel momento, RZA decide di rilasciare immediatamente un seguito alla recente fatica discografica. “Iron Flag” è il loro album più anomalo e controverso: uscito nel dicembre del 2001, quasi in concomitanza con le prove soliste di Ghostface Killah (“Bulletproof Wallets”) e dello stesso RZA (“Digital Bullets”), senza video di richiamo, né fanfare promozionali, consta di soli tredici pezzi (poco meno di The W di cui sembra quasi il “lato B”), un numero decisamente al di sotto della media hip-hop del periodo. L’album risulterà il meno venduto della saga (687.000 copie) e segnerà il tracollo finanziario della loro prima etichetta personale, la Loud.

Anche musicalmente il nuovo lavoro si rivela molto eterogeneo, ospitando anime differenti, spesso in contrasto fra loro, come se i nostri fossero ancora una volta indecisi fra l’esaltazione delle loro radici e l’adesione ai nuovi fenomeni degli anni 2000 (sotto l’egida di uno dei produttori più in vista del periodo, Trackmaster). Una dicotomia che si riflette anche sul piano delle liriche, oscillanti fra una rinnovata coscienza sociale, una tormentata adesione alle istanze (anti)patriottiche post-11 settembre e l’orgogliosa sfida lanciate alle giovani generazioni, il gesto temerario di chi teme di essere scavalcato dalle nuove ondate e cerca un punto fermo, una salda boa nella marea di sonorità in cui stenta a riconoscersi.
La produzione di RZA suona meno graffiante e dirigistica del solito, i contributi vocali spesso discontinui per qualità e tenore, la trama audiovisiva, su cui per solito si modellano le avventure del Clan, più labile, quasi sbiadita sullo sfondo (non ci sono skit, né interludi strumentali e anche le citazioni cinematografiche sono ridotte al minimo).

Le canzoni, tuttavia, sono molto meno disdicevoli di quanto uno possa pensare, e all’insuccesso commerciale non corrisponde certo una battuta d’arresto sul piano dei valori compositivi: privi di Ol’Dirty Bastard e Cappadonna e di anthem all’altezza del loro glorioso passato, i nostri riescono comunque a cesellare tracce-bomba come “Rules” (un patchwork di autocitazioni ottenuto scratchando vecchi sample del primo album, un’esaltazione dell’orgoglio newyorkese dopo la tragedia del WTC, esplicitamente evocata nei versi di Ghostface, “Who the fuck knock our buildings down/ Who the man behind the World Trade massacre, step up now! / (…) America together we stand, divided we fall/ Mr. Bush sit down I’m in charge of the war”), “Soul Power (Black Jungle)”, una base oldschool venata di funk e onusta di riferimenti alla blackexploitation, esaltata dalla partecipazione di Flavor Flav (“Remember me? I’m the man who told you to fight tha power”) dei Public Enemy, gruppo esplicitamente omaggiato anche nella splendida “Radioactive (Four Assassins)”, reminiscente, per il resto, di 36 Chambers, con i suoi beat possenti, i sample di arti marziali e gli acidi cromatismi industriali.
Il menù si completa fra calibrate concessioni melodiche (“One Of This Days”, ambientazione “in tha club” ante-litteram, ideale per le "sparat(ori)e" gangsta di Raekwon e Inspectah Deck, “Chrome Wheels”, col muro di synth ripreso dalla “digital orchestra” di RZA in “Bobby Digital In Stereo”, “Dashing Reasons”, parente stretta di alcune cose del Dr. Dre) e street graffiti inondati di soul, forse un po’ meno incisivi del solito (“In The Hood”, con un ritornello afro-ragamuffin, “Uzi - Pinky Ring”, sull’orgoglio della vecchia guardia e la difesa del territorio, e “Babies”, una galleria di raccapriccianti storie del ghetto, incorniciate da una ritmica jazzata e da contrappunti ballabili).

Killa Bees Part 3: anche le api nel loro piccolo scazzano

Si apre così il più lungo periodo di distensione e di calma apparente nella storia del Clan. In realtà, fin troppe tensioni covano sotto la cenere. Tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 si annuncia la terza ondata di opere soliste: con l’esordio di Cappadonna, “The Yin And The Yang”, “Legend Of The Liquid Sword” di GZA, “Tical 0: The Prequel” di Method Man, “The Lex Diamond’s Story” di Raekwon, “The Pretty Toney Album” di Ghostface Killah, “The Movement” di Inspectah Deck e “No Said Date” di Masta Killa. Le vendite confermano un trend discendente: quelli di Ghost e Masta ricevono ottime critiche, ma liquidano molto meno, quello di Method Man vende bene, ma viene stroncato dalla critica e, più tardi, ripudiato dall’autore stesso in polemica con la Def Jam.

Ma è solo nel 2004 che la maggior parte dei nodi irrisolti vengono al pettine: mentre RZA completa la colonna sonora per i due volumi di “Kill Bill” (un’epopea citazionista e post-moderna, un lavoro straordinario che lo porterà a misurarsi con la musica dei film di Sergio Leone e a collaborare virtualmente con alcuni dei suoi idoli, come Ennio Morricone e Bernard Herrmann), Method Man e Red Man diventano  protagonisti di una situation comedy della Fox e più tardi di un film “How High – Due sballati al college” (diretto da uno dei figli di Bob Dylan, Jesse); U-God se ne va in aperto contrasto col gruppo, accusando in particolare RZA di un trattamento economico impari e di avergli deliberatamente ostacolato la carriera solista; Cappadonna lascia con la motivazione ufficiale di “non sentirsi rispettato come gli altri membri originali” (in realtà l’allontanamento sembra dovuto alla scoperta che il suo manager, Michael Caruso, fosse un informatore dell’Fbi: roba che neanche in una puntata dei “Sopranos”).

Poi, come succede in questi casi, il tragico corteggia sempre il ridicolo: il 13 novembre del 2005, due giorni prima del suo trentaseiesimo compleanno, Ol’Dirty Bastard viene trovato morto nello studio di registrazione del Clan, a causa di un attacco cardiaco dopo un'overdose d’eroina. Se ne va così uno dei più grandi rapper della sua generazione, un personaggio fondamentale nell’ascesa del Clan, un uomo affetto da una grave forma di sociopatia, esacerbata dall’abuso degli stupefacenti, che negli ultimi tempi, in un doloroso contrappasso di arte e vita, aveva finito per confondere la sua “maschera” di scena con la vita reale.

È un brutto colpo per il Clan, il più duro, forse, in 10 anni di carriera, tanto che la risposta collettiva dei guerrieri di Staten Island tarda ad arrivare. E mentre proseguono e si ramificano i progetti individuali (Ghostface licenzia “Fishcale” nel 2006, Method Man, “4:21…The Day After”, Raekwon annuncia il seguito, peraltro mai pubblicato, di “Only Built for…”, Masta Killa e Inspectah Deck, rispettivamente “Made In Brooklyn” e “The Rebellion”, e persino un album postumo di Ol’ Dirty, viene rilasciato col titolo apocrifo “A Son Unique”), il quinto disco targato Wu-Tang sembra sempre più lontano. Poi, nel dicembre del 2006, la svolta: i Wu-Tang Clan firmano un contratto per un solo album con la SRC. Occorrerà comunque più d’un anno e svariate procrastinazioni prima di vederne i frutti.

8 Diagrams: Wu’s back to the future?

Direzione, stabilità e predizione. È proprio questo, in effetti, che la teoria degli otto diagrammi (tramandatasi ai nostri con la mediazione dell’immancabile film di kung-fu, “Eight Diagram Pole Fighter”) designava presso gli antichi cinesi. L’album dovrebbe sancire, almeno negli intenti, una riconciliazione con la matrice etica, estetica e sonora più autentica del Clan. Un reversibile viaggio spazio-temporale benedetto da allineamenti astrali favorevoli. Il Grande Bang del Wu-Tang, quindici anni dopo, proprio nel momento in cui, a sentire RZA, “l’hip hop ne ha più bisogno”. Che al sodo si traduce in: minimalismo al tempo stesso brutale ed elegante, poche escursioni dal seminato del concept, ferrea calibratura narrativa fra le destrezze individuali e lo sviluppo corale di una colonna sonora. In poche parole: briglie più corte attorno al collo dei suoi purosangue. Anche se poi: il volenteroso recupero della formazione originale (col prodigo ricongiungimento di U-God e Cappadonna e l’apparizione medianica di Ol’Dirty in un outtake del primo album) non esclude ulteriori distinguo e contrasti che saranno alla base dell’ inevitabile posticipazione dell’album e della mancanza di coesione di alcune sue parti (Raekwon e Ghostface, esasperati dai continui cambi di arrangiamento e delusi da un taglio produttivo che, a loro avviso, non rispecchia l’essenza del “Wu-sound”, si spingeranno ad annunciare il sedizioso proposito di realizzare, in futuro, un album senza RZA; circolerà persino un titolo: “Shaolin Vs Wu-Tang”).

La formula di questo “ritorno al futuro” conferma comunque la bontà dei suoi calcoli in mezzo ai solchi scarni e serrati di “Take It Back” (un cut oldschool tutto giocato sulla sottrazione), "Get The Out Of Your Way Pa" (fluente fra le sponde ritmiche del basso da funky e le ghost notes di ride) e “Windmill” (col sample appena intelligibile della tarantiniana “Bang, Bang” cantata da Nancy Sinatra). Né mancano gli anthem da Wu-Tang manual: i numeri cinematografici di “Rushing Elephants” (Bernard Herrmann), “Unpredictable” (spy-sound alla John Barry) e “Wolves” (morriconiana, featuring George Clinton). Raffinatissima l’intro “Campfire” (sulla corale gentilmente concessa da Curtis Mayfield), il soul-jazz espanso e avvolgente di “Stick For My Reaches” e l’assolo slam-pop di RZA in “Sunlight” (pura elegia da B-movie).
L’effetto nostalgia e l’aura ineffabile di 36 Chambers affiora solo in “Life Changes” e “16th Chamber”, rispettivamente: una dedica e un omaggio postumo al vecchio guerriero Ol’Dirty Bastard. Tutto molto dignitoso. Anche se l’illustre e pleonastico cast di contorno (John Frusciante, Erykah Badu, George Clinton, Sunny Valentine e Danhi Harrison, figlio di George) paga pegno alla lussuosa moda reclamistica del mainstream post “8 Mile”, guastando irrimediabilmente le potenzialità di un pezzo come “While My Heart Gently Weeps” (con la citazione beatlesiana che scade ben presto in una melassa nu-soul) e “Starter”, un sontuoso arrangiamento di RZA asfissiato da un chorus che neanche R Kelly. A parziale detrimento dell’urgenza e della compattezza che era alla base dei primi (e migliori) album.

Nel 2008 esce Wu: The Story Of The Wu-Tang Clan, un greatest hits accompagnato da un documentario per celebrare 15 anni di carriera.

Un anno dopo il Clan partecipa con successo al progetto Only Built For Cuban Linx... part 2, firmato Raekwon.

Wu Tang Clan

Discografia

Enter Wu-Tang (36 Chambers) (Loud/RCA/BMG, 1993)

8

Wu-Tang Forever (Loud/RCA/BMG, 1997)

7,5

The W (Loud/Columbia/SME, 2000)

7

Iron Flag (Loud/Columbia/SME. 2001)

6,5

8 Diagrams (SRC/Universal Motown, 2007)

6,5

Wu: The Story Of The Wu-Tang Clan (antologia, Loud/ Legacy, 2008)

7

Pietra miliare
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Cream (videoclip da Enter Wu-Tang (36 Chambers), 1993)
Triumph (videoclip da Wu-Tang Forever, 1997)