Quando si parla del Clan, ogni storia ha almeno due risvolti. Un "Rashomon" tramandato dai pistoleri di "Pulp Fiction" (o dai "samurai" di "Kill Bill"). Bianco o nero, come le due facce del Tao. Come la musica tonale e l’hip-hop. Come i precetti dell’autocoscienza (lo Shao-lin del lontano Oriente e la Five percent Nation di fede musulmana) e le logiche perverse del "ghetto" di Staten Island (i fascicoli dell’Fbi su un loro presunto coinvolgimento in un traffico d’armi o le meno presunte amicizie "pericolose" con alcuni affiliati alla famiglia Gambino). I principi della Zulu Nation e le logiche del business corporativo (ricordate "C.R.E.A.M."? "Cash Rules Everything Around Me").
"8 Diagrams" è il loro primo disco nell’era post -"8 Miles", lo tsunami mediatico che ha istituzionalizzato il rap schiudendogli le porte dei salotti buoni del pop e delle gallerie d’arte di Manhattan. L’opera in cui RZA, la mente, il commissario tecnico di questo All Stars Team della East-Coast, sembra strenuamente determinato a riprendere in mano le fila del proprio discorso musicale esattamente da dove lo aveva lasciato: se nel discontinuo "Iron Flag" (2001) mollava le briglie attorno al collo dei suoi purosangue enumerando una certa percentuale di escursioni dal seminato del concept, qui la struttura narrativa appare felicemente coesa fra i cronismi delle punch-lines e lo sviluppo drammaturgico della colonna sonora, segno che le fortunate esperienze di "Ghost Dog" e "Kill Bill" non sono trascorse invano (e pare che qualcuno non abbia gradito, leggi Raekwon e soprattutto Ghostface Killah, le cui opere soliste, ultimamente, hanno surclassato per qualità e quantità quelle dei sette colleghi).
Direzione, stabilità e predizione, in effetti è proprio questo che la teoria degli otto diagrammi designava presso gli antichi cinesi (giunta fino ai nostri con la mediazione dell’immancabile film di kung-fu, "Eight Diagram Pole Fighter"). La ricetta fa indubbiamente faville fra gli scarni, serrati solchi di "Take It Back" (old school cut, tutto giocato sulla sottrazione), "Get Them Out Your Way Pa’" (un flow da manuale, stretto fra le sponde di un basso da blackexploitation e ghost notes di ride) e "Windmill" (sul sample appena intelligibile di "Bang Bang" di Nancy Sinatra). Né mancano gli anthem da "Wu-tang manual": i numeri cinematografici di "Rushing Elephant" (Bernard Herrmann), "Unpredictable" (spy-sound alla John Barry), "Wolves" (morriconiana, con la partecipazione di George Clinton) e "Weak Spot" (quella che forse ricorda più da vicino le "killa-track" del passato).
Raffinatissime l’intro "Campfire" (con la corale gentilmente concessa da Curtis Mayfield, e Meth e Ghost sugli scudi) e "Stick For My Reaches" (lounge jazz-soul espanso ed avvolgente), eccellente l’assolo slam-pop di RZA in "Sunlight" (pura elegia da b-movie).
L’effetto nostalgia e l’aura ineffabile di "36 Chambers" dominano, invece, su "Life Changes" e "16th Chamber", rispettivamente dedica e omaggio postumo al vecchio guerriero Ol’ Dirty Bastard.
L’impressione è che, a dispetto delle mode, l’armata Wu-Tang marci inarrestabile verso i tre lustri di una carriera inattaccabile, anche se, a cercare il pelo nell’uovo, qualcosa che stona nonostante tutto c’è. Il pleonastico parterre di ospiti eccellenti (John Frusciante, Erykah Baku, George Clinton, Sunny Valentine e Danhi Harrison, figlio di George) guasta irrimediabilmente le potenzialità di due pezzi come "While The Heart Gently Weeps" (la citazione beatlesiana scade ben presto in una melassa nu-soul), che sembra scritta su commissione di una stazione Fm e "Starter" (con il futuro nono membro del Clan, Streetlife), un peccato per il sontuoso arrangiamento di RZA, asfissiato da un chorus che neanche R-Kelly.
Piccole, (in)evitabili macchie di ruggine su un album che, almeno per il sottoscritto, può tranquillamente giocarsi il terzo gradino del loro podio con "The W". Ma, si sa, nel diagramma esistenziale del Clan ogni impressione è ibridata dal suo opposto.
A voi l’ultima parola.
07/02/2008