“Siamo musicisti provenienti da ogni parte del mondo, con storie e stili diversi. Ci unisce solo il desiderio di creare qualcosa di bello, nel nome della libertà dei popoli”. È un Phil Manzanera in chiave neoglobal, quello che si è presentato a Roma, sul palco di Villa Ada, per “The Liberation Project”, il concerto a favore dei diritti all’uguaglianza e alla pace organizzato in occasione del 25° anniversario della democrazia in Sudafrica, del Mandela Day e dei 150 anni del Mahatma Gandhi. Leggendario chitarrista dei Roxy Music nonché produttore di successo, l’infaticabile Philip Targett-Adams si è gettato con entusiasmo in questa nuova sfida, che lo sta portando in giro per il mondo con la sua variegata compagnia.
Come è stato coinvolto nel progetto del Liberation Concert?
È nato tutto da un’idea del mio amico Dan Chiorboli, che è nato a Ferrara ma cresciuto in Sudafrica, proprio durante l'era dell'apartheid. Mi ha invitato a unirmi a questo show, una grande kermesse, che prevede canzoni dei partigiani italiani, brani sudafricani legati alla lotta contro l’apartheid, inni della rivoluzione cubana. Abbiamo musicisti come Juan de Marcos dei Buena Vista Social Club, Cyril dei Neville Brothers, Cisco Bellotti (ex-Modena City Ramblers), il maestro guineano della kora N’Faly Kouyatée e tanti altri. Spaziamo su tutti i fronti, dal rock al folk, così può capitare di ascoltare canzoni dei Roxy Music in lingua mandinka. Abbiamo poi pensato di unire simbolicamente gli anniversari della nascita di Nelson Mandela, dell’avvento della democrazia in Sudafrica e dei 150 anni del Mahatma Gandhi, per accendere i riflettori su questioni politiche molto importanti anche nel mondo attuale. Vogliamo parlare alle nuove generazioni, far conoscere loro la storia per non ripetere gli stessi errori. A cominciare dalla vicenda di questo uomo straordinario che è stato Nelson Mandela e dai sacrifici che ha dovuto sopportare per la libertà del suo popolo.
C’è anche un album tratto dai concerti?
Sì, è stato pubblicato il triplo album “The Liberation Project- Songs That Made Us Free”, che contiene tutte queste canzoni. E ci sarà un altro disco l’anno prossimo, stavolta singolo, in cui spero di coinvolgere anche Jovanotti. È qualcosa che può crescere ancora, siamo solo all’inizio del progetto.
È più facile oggi promuovere musiche di paesi non anglosassoni?
Sì, per tanti decenni la gente ha ascoltato solo musica proveniente dagli Stati Uniti o dalla Gran Bretagna, ora stiamo finalmente scoprendo le tradizioni nazionali di tanti paesi, come anche l’Italia. La tecnologia, per fortuna, ci permette di mettere in contatto le persone tra loro in ogni angolo del mondo, anche attraverso le note.
È ancora in contatto con Bryan Ferry e gli altri Roxy Music?
Abbiamo suonato due mesi fa a New York per celebrare l’ingresso dei Roxy Music nella Rock’n’Roll Hall of Fame. Siamo ancora in contatto perché abbiamo interessi commerciali in comune, abbiamo sempre questioni di cui parlare. Ad esempio, insieme ad Andy Mackay (il sassofonista della band, ndr) parteciperò al progetto Roxymphony: faremo dei concerti affiancati da un'orchestra, presentando la musica dei Roxy Music in un contesto completamente diverso, sinfonico e orchestrale, ma ci saranno anche brani cantati, tra cui “Love Is The Drug”, “More Than This”, “In Every Dream Home A Heartache” e “Out Of The Blue”. Ne sarà tratto un album che uscirà alla fine di settembre. E sono ancora in contatto anche con Brian Eno (membro del primo nucleo del gruppo, ndr), non escludo di realizzare dei progetti insieme.
Qual è il segreto di questa formidabile band, sempre così avanti a tutti in ogni epoca?
Siamo sempre stati un team affiatato, lavoravamo per ottenere sempre il meglio. E pare abbia funzionato. Quanto all’essere stati lungimiranti e influenti, beh, è vero, ma non ci sto troppo a pensare, per me esiste solo musica bella e musica brutta.
Qual è il suo album preferito dei Roxy Music?
Il secondo, “For Your Pleasure”. Credo sia il più originale e completo.
È anche il mio preferito, insieme ad “Avalon”!
Bene, allora, mi fa piacere che siamo in sintonia…
È nota anche la sua passione per la musica italiana, napoletana, in particolare, forse per via di una parentela: suo nonno era di Napoli…
Già, mio nonno era un musicista d’opera e suonava in una band itinerante, la Cavaliere Castillanos Opera Company. Venne nel Regno Unito nel 1911 in tournée e incontrò mia nonna. Ma non conosco neanche il suo nome, ho scoperto la storia nel 1992. Sono anche stato Napoli in cerca dei suoi dischi ma non ho trovato nulla: proseguirò le mie ricerche...
A proposito di Napoli, ha conosciuto anche Pino Daniele...
Pino venne a trovarmi al mio studio in Inghilterra prima del tour. Era un musicista fantastico, suonava con il cuore: faceva blues classico ma in una versione napoletana. Ed era una persona davvero speciale. È stata una gioia conoscerlo e fare una tournée insieme a lui. Faceva un grande effetto sulle persone anche fuori dall’Italia: suonava una musica universale, che veniva apprezzata subito. Lui è uno dei più grandi musicisti italiani, un vero bluesman: dovete esserne orgogliosi. Ho conosciuto anche altri due artisti napoletani: il cantante Eduardo De Crescenzo e il chitarrista Mauro Di Domenico.
Ha collaborato anche con loro?
Sì, realizzai la versione inglese, più blues, della canzone di De Crescenzo “E la musica va” (“The beat goes on”), presentata al Festival di Sanremo nel 1991. Di Domenico, invece, l’ho conosciuto tre anni fa al Festival di Sicignano degli Alburni e in quell’occasione ci siamo esibiti insieme: è un vero maestro della chitarra.
Che cosa pensa della musica di oggi?
Ci sono tanti artisti e tanta musica buona in ogni angolo del mondo. Io ascolto di tutto, dalla musica sudamericana moderna al pop-rock inglese fino alla modern classical. Quello che non c’è, è un nuovo Bob Dylan, un nuovo Jimi Hendrix, un nuovo Miles Davis. Forse anche perché è più difficile emergere e conquistare un seguito importante.
C’è qualche band attuale che le ricorda i Roxy Music?
Ad esempio, ci sono i Black Midi, una formazione inglese di rock sperimentale che ha uno stile molto strano e originale. Ritrovo in loro qualcosa della nostra follia creativa: sono la cosa più originale che mi è capitato di ascoltare dai tempi dei primi Radiohead. Noi però, ai tempi degli esordi con i Roxy Music, volevamo essere strani, sperimentali ma al tempo stesso commerciali: la nostra formula fu unica anche per questo. Ma soprattutto credo che una band per diventare veramente grande abbia bisogno di un sound. È successo ai Beatles, agli Who, ai Pink Floyd: a tutti i più grandi. E oggi è difficile riuscire a ottenerlo.
Bisogna trovare il produttore giusto?
Già, e noi siamo fortunati a incontrare Chris Thomas, che era stato il braccio destro di George Martin. Abbiamo imparato molto di quella nobile tradizione britannica, quella dei Beatles, degli studi di Abbey Road. Thomas ha lavorato con Sex Pistols, Pink Floyd, Elton John… C’era sempre tanto da imparare da lui. In generale, mi piacciono i produttori “classici” alla George Martin, non gli ingegneri-produttori alla Phil Spector. I produttori devono riuscire a far riflettere i musicisti e offrire loro delle alternative su come realizzare le idee che hanno in mente.
Lei stesso è diventato produttore, per artisti importanti come John Cale, Nina Hagen, David Gilmour e gli ultimi Pink Floyd. Come vive questa esperienza dietro la console?
Sì, quella di produttore è diventata una parte rilevante della mia attività. I dischi di maggior successo sono stati quelli con David Gilmour, e poi anche l’ultimo album dei Pink Floyd. È stata una grande sfida per me, ma ha funzionato. Ho prodotto anche artisti di lingua spagnola come Héroes del Silencio, Enrique Bunbury e Draco Rosa, che hanno vinto premi anche negli Stati Uniti. Ma ora mi sa che ho finito di produrre dischi…
Come mai?
Richiede un sacco di tempo e di energie. Poi devi anche essere un ottimo psicologo con i musicisti. Insomma, devi mescolare tutto, come un barman che fa i cocktail: è troppo faticoso (ride).
Che cosa farà, invece, dopo il Liberation Tour?
Sto collaborando con i Finn Brothers (Neil e Tim), uno storico duo neozelandese con cui ho già lavorato in passato. Non fanno più nulla da 25 anni, ma ora abbiamo cinque canzoni nuove quasi pronte.
(04-08-2019)
(Versione estesa di una intervista pubblicata per il quotidiano Leggo)