Cinque luglio duemilaquattordici: con considerevole e rassicurante ritardo rispetto a date da possibile pesce d'aprile, Polly Samson in Gilmour condivide con il popolo di internet una notizia in grado di scatenare, nel giro di poche ore, le fantasie e le congetture delle diverse fazioni di appassionati dei Pink Floyd, svariati milioni di ascoltatori sparsi in ogni angolo del mondo: un nuovo disco è in uscita.
Provate a immaginare le reazioni: tralasciando lo scontato entusiasmo dei gilmouriani convinti, molti sostenitori integralisti dei Pink Floyd della prima ora - spesso watersiani o addirittura barrettiani di ferro - si saranno detti scandalizzati dall'ennesimo attentato alla reputazione discografica di una denominazione sociale che avrebbero volentieri mandato in pensione nell'ottantatré, se non prima.
Altrettanti inguaribili ottimisti (per non dire utopisti) avranno sognato per un attimo, giusto il tempo di stropicciarsi gli occhi e leggere meglio tra le righe del cinguettìo, una reunion di tutti i sopravvissuti; la prima dopo il commovente "Live 8", messo su dall'amico Geldof. Eventualità affossata, oltre che dalla logica - il riferimento alla data delle sessioni è palese e Waters risulta giuridicamente fuori dall'anno dello strappo - dalle dichiarazioni rese alla stampa dal bassista ed ex-leader carismatico della band.
Da non trascurare la macrocategoria dei semplici curiosi, alla quale ci associamo con convinzione. Se non altro, per una semplice constatazione: i Pink Floyd sono sempre stati dei maestri nel celebrare il “non esserci”, tra assenze, dipartite e alienazioni. Con almeno tre dischi sul tema hanno frantumato ogni possibile record di vendite. Barrett stesso fu addirittura in grado di autocelebrare la sua uscita dal gruppo, anticipando di oltre un lustro i compagni, con l'indimenticabile “Jugband Blues”. A tal proposito, “The Endless River” è l'omaggio dichiarato di un gruppo che di fatto non c'è più a Rick Wright, pilastro (a nostro parere ingiustamente sottovalutato) dell'inconfondibile suono floydiano, da qualche anno passato a miglior vita a causa di un male incurabile. Persino il progetto grafico - didascalico, ma con classe - è stato realizzato dal solito celebre studio grafico (Hipgnosis), ancora attivo nonostante lo storico fondatore Storm Thorgerson (sì, quello della mucca, del prisma, del maiale volante e, sostanzialmente, di tutte le altre) non sia più dei nostri.
Concluso il macabro elenco dei necrologi - così va la vita - ci restano da commentare poco più di cinquanta minuti di materiale praticamente riesumato (appunto) dalle sessioni di “The Division Bell”, rielaborato da David Gilmour, sotto la supervisione di Phil Manzanera (Roxy Music), Martin “Youth” Glover e dell'ingegnere del suono Andy Jackson.
Il disco - praticamente strumentale, se si escludono un paio di eccezioni - è suddiviso in diciotto tracce, a loro volta raggruppate, idealmente, su quattro lati.
Il primo lato si apre e si chiude con due pezzi (“Things Left Unsaid” e “Ebb And Flow”) di matrice ambient dalle atmosfere glaciali per chitarra effettata EBow e tastiere varie. In mezzo, “It's What We Do” trasuda echi di “Welcome To The Machine” e del finale di “Shine On You Crazy Diamond pt.2” da tutti i pori.
“Sum”, in apertura di secondo lato, è una progressione à-la Manuel Göttsching con sintetizzatore, chitarra e percussioni a briglia sciolta. La successiva “Skins” è praticamente una variazione sul tema, il cui ritmo si fa sempre più tribale sul finale. La breve “Unsung” poggia le basi su un tappeto d'organo su cui si inserisce il solito assolo di chitarra liquida. “Anisina” strizza, in maniera decisamente sospetta, un occhio e mezzo alla celebre “Us And Them”.
La terza - e più corposa - sezione si apre con “The Lost Art Of Conversation”, breve e suadente botta e risposta tra chitarra e pianoforte. “On Noodle Street” poggia su una sezione ritmica vagamente dub per poi sconfinare in territori appartenenti ai Dire Straits di “Brothers In Arms”. “Night Light” è una possibile colonna sonora, smaccatamente somigliante ad alcuni lavori di Angelo Badalamenti. Il trascinante tema di “Allons-y”, invece, potrebbe essere tranquillamente un sottoprodotto di “The Wall”. Il fatto che sia pure diviso in due parti, come qualcos'altro di nostra e vostra conoscenza, non aiuta di certo a farci cambiare idea. In mezzo, “Autumn '68” vorrebbe citare - praticamente solo nel titolo - la ben più riuscita “Summer '68” di “Atom Heart Mother”. Da segnalare, in “Talkin' Hawkin'”, una riflessione a proposito di comunicazione verbale, recitata dalla voce artificiale dell'astrofisico Stephen Hawking.
“Calling”, altro pezzo cinematograficamente evocativo, inaugura in pompa magna il quarto e ultimo lato. “Eyes To Pearls” è praticamente il rifacimento - non ci è dato sapere se sia o meno volontario - di “Moonhead”, brano inedito composto dai Pink Floyd nel lontano sessantanove, commissionato dalla Bbc per essere utilizzato come colonna sonora dello sbarco sulla Luna.
La costruzione della successiva “Surfacing” è un espediente che fa da apripista a un puro esercizio di stile gilmouriano. In chiusura, “Louder Than Words”, unica canzone vera e propria del lotto. Diffusa un mese prima dell'uscita dell'album, è stata trasmessa dalle radio di tutto il mondo, più volte al giorno, per corroborare le aspettative e trainare le vendite. Il testo, opera della già citata signora Gilmour, è naturalmente ispirato alle vicende umane del gruppo. Un'epopea che, parafrasando i versi, nonostante i frequenti dissidi e cambi di formazione più o meno radicali, risuona nella storia della musica rock molto più forte di qualsiasi parola.
In definitiva, “The Endless River” è, nella sua inevitabile frammentarietà, un lavoro sicuramente ben confezionato, un omaggio legittimo e onesto. Non c'è un solo secondo del disco che si possa definire brutto in senso stretto. Di contro - ed è questo il vero limite del disco - non c'è un solo secondo che non risulti già sentito e risentito. D'altra parte, non si può certo dire che l'asticella delle aspettative fosse settata poi così in alto.
Di certo non sarà un cimelio per completisti, ruffianamente autocitazionista e tutt'altro che indispensabile, a scalfire un mito nato quasi cinquant'anni fa e di cui non si intravede la fine.
08/11/2014