Popstar, produttore e uomo d’affari fra i più influenti nell’immaginario multimediale degli anni 2000, Shawn Carter in arte Jay-Z è anche uno dei rapper più longevi e prolifici del panorama recente con una discografia che, fra progetti e collaborazioni varie, supera oramai la ventina di unità. Annunciata dalla solita aura di calcolato perfezionismo e da un’impeccabile campagna promozionale (il download digitale sponsorizzato da Samsung) è anche l’uscita del suo dodicesimo lavoro solista, “Magna Carta… Holy Grail”, dal titolo per nulla pomposo (anche qui: al solito) e dal successo già annunciato (disco di platino fin dal primo giorno).
A quattro anni da “The Blueprint 3” e a due da “Watch The Throne”, realizzato a quattro mani con Kanye West, il rapper di Brooklyn si prefigge di aggiornare fasti e banalità della serie “Blueprint” aggiungendo qualche tocco attualizzante a primizie pop d’indubbia efficacia. Assente del tutto West, comprensibilmente impegnato altrove, Jay-Z si è affidato per la produzione del disco a un nome storico come Timbaland (e al suo braccio destro J-Roc) più il contributo di altri musicisti di grido (e habituè della factory di Carter) come Pharrell, The-Dream e Swizz Beatz.
Impeccabile nella confezione da mogul hollywoodiano su misura per le sue doti d’interprete, minimale, per espressa volontà dell’autore, ma con groove e volumi prominenti, sempre in bella evidenza, “Magna Carta…” è costruito principalmente attorno a una serie di numeri pop-hop di grande effetto e, in qualche caso, di ottima qualità, ciascuno dei quali introduce, come da copione, un ospite speciale chiamato a dare lustro (e a rendere omaggio) al padrone di casa.
Si parte con la semi-title track, “Holy Grail”, un gioiellino sfarzoso e melodico firmato da Timbaland e The-Dream e impreziosito da un ispirato contributo vocale di Justin Timberlake, che fa il paio con l’altrettanto suggestivo e malinconico cantato soul di Frank Ocean in “Oceans”, è Pharrell ad affiancare Timbaland stavolta, con un sottofondo orchestrale teso e profondo che gonfia le vele sulla ritmica ovattata e sottotraccia; c’è poi l’immancabile duetto, morbido e patinato in posa da “Bonnie & Clyde”, con la signora Z, Beyoncè, in “Part II (On The Run)”, oltre ai featuring più defilati di Nas nella squillante “BBC” e ancora Timberlake nella stucchevole “JAY Z Blue” (dedicata alla figlia della suddetta coppia, inevitabilmente).
Nel complesso, il nuovo lavoro si mantiene su standard produttivi abbastanza elevati – e questo era prevedibile – ma fatica a trovare una propria dimensione di forza e originalità sul piano della scrittura, dove a episodi più riusciti come “Tom Ford”, che innesta elementi di chiara matrice dubstep in un contesto dancefloor più canonico e “americano”, “Nickels And Dime”, nobilitata dalla felice scelta del sample/ritornello dove la voce di Gonjasufi le elargisce una vena psichedelica ruvida e randagia, o la cinematica “Crown” con una mano di vernice acrilica anni 80, si alternano ad altri più scontati, appesantiti dal samplin’ fin troppo esteso (quasi un remake del pezzo originale) e dalla maniera calligrafica tipica di Jay Z (“Picasso Baby”, “Somewhereinamerica”, “Heaven”) o semplicemente un po’ indigesti (“La Familia”).
Come negli ultimi lavori della sua carriera, l’impressione finale è che Jay-Z si faccia preferire in qualità di produttore e rapper che come autore nel senso più musicale del termine.
31/07/2013