Che peccato, stavolta c'era andata vicino. L'idea, su carta, sembrava essere davvero buona, quella di distinguersi, lasciando lustrini e frivolezze electro-dance alle colleghe, e di voler realizzare un album r'n'b maturo e al tempo stesso moderno, in cui lei, la giunonica Beyoncé, potesse finalmente tirar fuori la sua anima più autentica e nera, finora coperta troppo spesso da un'eccessiva patina modaiola. Come mai allora, all'atto pratico dell'ascolto, il pur piacevole "4" suona spesso manieristico, un po' confuso e, talvolta, clamorosamente seduto?
Altrove c'è chi parla addirittura di coraggio e di indipendenza mediatica, e forse si potrebbe considerare tale la scelta azzardata di realizzare, con uno dei produttori di M.I.A., un singolo disarticolato e tribalissimo (tutt'altro che radio-friendly) come "Run The World (Girls)", rischiando di non trovarsi del tutto a proprio agio e di deludere il pubblico, come poi è effettivamente avvenuto. Che dire però dell'ultimo estratto, grintoso ma dozzinale, "Best Thing I Never Had", con le sue sonorità soft-rock e un arrangiamento pianistico da telefilmpomeridiano, appositamente pensato per adulare le stazioni country-pop americane?
E sarà forse un caso che questo suo album da orgogliosa e gorgheggiante soul-sista, citazionista ma sempre con occhio discreto al presente, arrivi proprio ora che sulle scene sta spopolando una nuova regina del soul, la bianca e, per giunta, britannica Adele? Probabile tuttavia che il pubblico continui a preferire la romanticherie assortite della londinese alle nuove, prevedibili power-ballad della collega americana, siano quelle che cercano affannosamente di ripetere, in abito da sera, l'exploit di "Halo" (le non altrettanto fresche "Start Over" e "I Was Here"), o quella ancora più canonica ("Rather Die Young") che potrebbe sbucare da un vecchio archivio di Whitney Houston.
Un nome, quest'ultimo, che viene in mente anche con l'ascolto dei due brani più spensierati dell'album, "Love On Top", un classico e sbarazzino numero black anni 80, con la motown in mentee un prodotto preconfezionato in mano, e l'omaggio synth-funk al produttore Narada Michael Walden, "Party", a cui non basta però il professionale assist di Kanye West e André 3000 per spiccare il volo; impossibile quando a risaltare è solo la forma e a mancare è proprio la canzone. A quel punto si getta la spugna scoraggiati e ci si rifugia a cercare un po' di personalità nel più tipico dei suoi pezzi, "Countdown", classica marcetta petulante scandita da una giostra impazzita.
È un peccato, si diceva. Perché in alcuni momenti la Knowles riesce a colpire il bersaglio addirittura meglio che in passato: "I Care", fiera e tenebrosa, seduce senza bisogno di strafare per poi dissolversi nel morbido e ipnotico lamento di "I Miss You", mentre la spoglia ed emozionata ballata "1+1", tra essenzialità blues e arabeschi alla Prince, è intrisa di quella cruda visceralità con cui avrebbe dovuto plasmare l'intero album per farlo funzionare a dovere. Anche quando riprende in mano le atmosfere più ancestrali del primo singolo va sorprendentemente a segno, "End Of Time", finalmente organica e coinvolgente, è il pezzo più luminoso dell'album, impreziosito da una sezione fiati che pesca a piene mani da "Wanna Be Startin' Something".
Ancora troppo poco però, non abbastanza per realizzare quel famoso album che era nelle intenzioni; succede, quando il calcolo supera sensibilmente l'ispirazione e quando la titolare è ancora troppo attaccata, nonostante tutto, al suo status di diva: paradossalmente, in "4", la paura di perderlo è molto più tangibile di qualsiasi volontà di stupire.
02/07/2011