Il recupero delle nostre tradizioni musicali è sempre stato operazione ad alto rischio per gli artisti italiani. Forse per via di quello strano pudore, unito alla congenita esterofilia, che ci fa incomprensibilmente vergognare di radici musicali spesso ben più nobili di quelle di altre, remote lande del mondo. Fatto sta che per molto tempo - salvo i padri nobili del Folkstudio e della scuola della canzone popolare, da Giovanna Marini in giù - chiunque si avvicinasse a quello scrigno di suoni veniva visto con sospetto. Fino a qualche anno fa. Quando improvvisamente, come una liberazione, gli italiani hanno spazzato via ogni remora, gettandosi a capofitto in un'archeologia musicale a tutto campo. Si è scoperto così che la taranta può far battere il tempo perfino a Stewart Copeland, che la canzone napoletana (e del Sud in genere) è un serbatoio inesauribile di melodie, che le ballate degli antichi cantastorie possono tornare utili non solo ad Angelo Branduardi.
All'appello mancava però Roma, con la sua tradizione di stornelli, di storie d'amore e di coltelli, di popolane sanguigne e figli di buona donna. Roba per palati forti, buona al massimo per intrattenere i turisti nei ristoranti di Trastevere o intenerire i nostalgici del "reuccio" Claudio Villa. E' quasi titanica, quindi, l'impresa compiuta dagli Ardecore: riesumare quel patrimonio senza tradirne lo spirito, ma attualizzandolo con arrangiamenti moderni.
A leggere i nomi dei componenti del gruppo, si scopre però che l'impresa non può essere stata casuale: dietro al geniale moniker Ardecore (che gioca anche sul termine "hardcore" storpiato in romanesco) si cela infatti un supergruppo comprendente il trio nu-jazz degli Zu, il cantautore folk-blues Giampaolo Felici, il fisarmonicista Luca Venitucci (jazzista, nell'entourage di Lou Reed), il vibrafonista Valerio Borgianelli (pupillo di Steve Reich) e - udite udite - Geoff Farina, chitarrista di un'eminente ex-band slowcore/post-rock di Chicago, i Karate.
Il progetto nasce nel 2002, quando Zu e Karate dividono il palco della loro tournée europea con Blind Loving Power, la creatura blues-gospel di Felici: all'inzio e alla fine di quelle serate vengono riproposti vecchi stornelli romani. Da qui l'idea di unire le forze per un'operazione di archeologia ed etnologia musicale: riportare alla luce e "sdoganare" i brani più noir della discografia capitolina.
Il risultato, strabiliante, è l'album d'esordio Ardecore, pubblicato da Il Manifesto nel 2005. Una raccolta di dieci murder ballads, che tratteggiano una Roma a tinte fosche, più vicina all'immaginario pasoliniano dei "Ragazzi di vita" che ai cliché della "città solare" e del "volemose bene". Narrativa "blues" che parla il gergo universale delle vite al margine, del loro carico di miseria e disperazione.
Il disco è diviso in tre "tavole", come nella tradizione dei cantastorie. Nella prima l'ambientazione è quella delle carceri e del malaffare, del dramma, della vendetta e di una religiosità a sfondo pagano. La seconda è dominata dalla morte, che scorre sulle acque limacciose del Tevere. Il terzo trittico è dedicato alla "serenata", nucleo melodico della canzone romana (e italiana in genere). Oscure trame folk-blues pervadono l'iniziale "Come te posso ama' ", lamento di un prigioniero politico per l'amata e la libertà perduta. "Madonna dell'Urione" e "Madonna dell'Angeli" sono due invocazioni dell'aiuto divino. La prima avvolge in languori alla Calexico una scenata di gelosia e di tradimenti. La seconda è la parabola straziante di un uomo che perde la sua bella e il figlioletto, e supplica il cielo di restituirglieli: una magnifica folk-song di oltre sette minuti, tra stacchi di fiati, contrappunti di fisarmonica e una coda free.
Nel secondo capitolo entra in scena il Tevere, divinità pagana e altare di vite a perdere, come quella del "Lupo de fiume" che segue il destino der "…pupo verso la corente un tonfo, in fonno e poi nulla più…" (vibrante interpretazione di Felici, su un arrangiamento reso post dal tocco di Farina e dai luccichii del piano), o del classicissimo "Barcarolo Romano", qui virato verso il blues balcanico. E pare quasi di vedere una Madonna pasoliniana nell'eroica "Popolana" che salva i pupi dalle acque del fiume. A chiudere l'album, il tris di serenate. "L'eco der core" riluce di sonorità tex-mex e culmina in un bella chiosa strumentale. Il "Fiore de gioventù" è un vecchio tango di Petrolini che sboccia in un folk-blues al ralenti, tra Nick Cave e i Black Heart Procession.
La commossa "Serenata de paradiso" affoga la malinconia in un clima jazzy, che prelude alla ghost-track conclusiva (un sonetto del XIII secolo). Sorprende l'equilibrio tra il rispetto dell'austerità degli originali e la loro rilettura "bandistica", che fa leva su esplosioni di fiati à-la Bregovic, paesaggi post-morriconiani di scuola Calexico e ritmi sghembi d'impronta free-jazz. Motore di questi arrangiamenti è l'indiavolato trio Zu, che fraseggia con la fisarmonica e il piano Fender Rhodes di Venitucci e con il vibrafono, il glockenspiel e le percussioni di Borgianelli, lasciando alla chitarra elettrica di Farina un certosino lavoro di contrappunto.
Degne di nota anche le interpretazioni vocali di Felici, che centrifuga passione e rabbia con piglio degno della compianta Gabriella Ferri.
A rendere ancor più allettante l'opera, il ricco booklet di Alessandro "Scarful" Maida, ispirato all'estetica carceraria dei tatuaggi. Ardecore è musica vecchia tre secoli, ma che pare composta l'altroieri. Poesia di strada, non ethno-chic. Er core de Roma che sobbalza. E seduce ancora.
Dopo due anni, costellati da entusiasmanti esibizioni live in giro per l'Italia, gli Ardecore tornano con un nuovo lavoro sulla lunga distanza, Chimera (2007), che prosegue il discorso "etnologico" avviato con l'esordio, ma alterna canzoni originali a nuove reinterpretazioni di traditional italiani. Una raccolta di dieci tracce, dove la melodia di matrice tricolore si accompagna a strutture musicali, che partendo dal folk nostrano e attraversando una vasta serie di generi - dal blues al jazz dei primordi - arriva a lambire sonorità che precorrono i tempi.
La formazione rimane quella originale - con gli Zu, Farina e Venitucci - cui si aggiunge una vasta schiera di ospiti. La natura acustica del loro sound si apre così a nuove contaminazioni "elettriche", mentre la presenza in molti brani di sezioni di fiati e archi allarga ulteriormente gli orizzonti. I testi esplorano invece un altro microcosmo spigoloso, fatto di eroi popolari che si sacrificano, celebrato dalla band come in una sorta di processione.
Svettano, in particolare, la cover di “Sinnò me moro” di Gabriella Ferri, con il suo tango lento, dal ritmo tribale, e i suoi fiati sconnessi, la title track “Chimera”, con il suo potente swing, comunque romantico, all’italiana, e “Parole controvento”, firmata da Felici, dove si esalta anche il lato più autenticamente-Zu del gruppo. Ma non deludono anche l'iniziale "Miniera" (firmata Bixio-Cherubini), struggente requiem per un minatore che si immola per salvare i compagni di lavoro, le rielaborazioni di "Quel ritmo americano" - un vecchio brano ante-guerra - e di "M'affaccio alla finestra", canzone addirittura ottocentesca, rivisitata in chiave blues, oltre alla marcia waitsiana di "Buon Natale", che mette alla berlina vecchie e nuove ipocrisie italiche.
Pur senza raggiungere le vette d'intensità del predecessore, Chimera riesce comunque a consolidare la fama dei post-stornellatori, aggiudicandosi anche il premio Tenco 2007 come migliore opera prima. Nel frattempo, la formazione iniziale viene modificata dall'aggiunta di percussioni e fiati e dall'inserimento di un intero gruppo, il trio romano punk jazz degli Squartet, che si alterna agli Zu nel ruolo di band di supporto.
Sull'onda degli Ardecore, intanto, fiorisce una vera e propria nuova scuola romana, che si avvale di nuovi menestrelli di successo, come Alessandro Mannarino e l'ensemble Il Muro del Canto.
A rilanciare le ambizioni del supergruppo di Felici, è il terzo album, il doppio San Cadoco (2010), equamente diviso: da un lato i tentativi di provare nuovi sound, dall'altro la sicurezza delle canzoni in vecchio stile.
Il primo disco rimane quello che attira maggiormente la curiosità e che, per scoprire subito le carte, delude un poco; ci si può trovare quasi di tutto, cavalcate epiche in odor di prog ("Il nuovo giorno") o rauchi rock-blues ("Oggi è domenica"), rabbiosi hard-rock così come lente ballate ("Santa Gilda", "Nessuno sa più bene"). Tutto questo materiale nuovo è di pregiata fattura, ma appare leggermente sfocato: i membri degli Zu si defilano in ruoli di secondo piano e ciò compromette brani come "Meravigliosamente" o "Non si può", che si rivelano alt-rock abbastanza sui generis, mentre pezzi come il western "Gronge meraviglia" o la serrata "Per quella lei ci muore" hanno purtroppo un forte retrogusto di già sentito.
La seconda parte, invece, ricalca le orme dei due precedenti album, cancellando le parziali delusioni; il nuovo arrivo Sarah Dietrich, cui nella prima parte era affidata "Tentazione", padroneggia bene la marziale e funerea resa della "Io dè sospiri" tratta dalla "Tosca" di Puccini, così come la ninna nanna triste di "Vola, vola" o lo stornello danzante di "Te possino dà tante cortellate". Proprio su quest'ultima, e nella nenia dai toni glitch "I biondi capelli", si potrebbero trovare i maggiori dubbi sulla new entry del gruppo; cantare ciò che fu di Gabriella Ferri non è semplice, bisogna avere una passione e una teatralità nell'interpretazione che la Dietrich non sembra possedere, seppur nell'impeccabile capacità vocale sfoggiata.
Se la cava meglio Giampaolo Felici nella cover della "Nina viè giù" che fu di Lando Fiorini e se la cavano meglio entrambi nel capolavoro dell'album; "La povera Cecilia", racconto a tre voci (ai due leader vocali si aggiunge infatti David Tibet dei Current 93) che si impone come una perfetta murder ballad della quale si è disposti a perdonare pure il terribile accento del buon David in cambio di un pezzo in cui tradizione e modernità vanno a braccetto come negli episodi migliori dell'omonimo album che diede il via all'avventura Ardecore.
San Cadoco è l’album dove gli azzardi nel rivisitare lo stile classico sono più decisi, ma è anche il lavoro al quale Farina contribuisce in modo minore. Alla resa dei conti, il disco pecca dei difetti propri di tanti cosidetti "di passaggio", frutto magari di un momento in cui, se non per questione di pubblico ma per una mera voglia di crescita professionale, la band romana riflette sul futuro e sul sound da seguire negli anni a venire.
A marzo 2015 viene pubblicato Vecchia Roma, sette riletture di brani risalenti alla tradizione a cavallo fra le due guerre, eccetto quello che dà il titolo all’intera raccolta, composto nel 1947. Sono sette episodi poco conosciuti della cultura musicale capitolina, resi con un approccio che tende a sdoganare nel nuovo millennio i suoni di un tempo, attraverso un’opera filologicamente inappuntabile. Accanto ad ogni canzone, nel booklet si accompagna un’immagine raffigurante meravigliosi luoghi della città eterna, come fossero cartoline d’epoca. La voce di Felici è sempre perfetta nell’interpretare con drammaticità e disperazione piccoli racconti del tempo che fu, senza risparmiare le giuste dosi di passione e speranza. Con lui in line up si conferma la presenza del chitarrista ex Karate Geoff Farina, oltre a Giulio Caneponi (batteria), Riccardo Del Monaco (pianoforte) e Sarah Dietrich, presente in alcuni camei che impreziosiscono l’album.
A quattro anni dall’apprezzato San Cadoco, ed a dieci dall’omonimo esordio, gli Ardecore sono oggi i più credibili interpreti e continuatori di una tradizione folk che non deve andare perduta. Il loro successo su scala nazionale sta a significare che il fenomeno non interessa più soltanto piccoli ristoranti trasteverini o sfortunati musicanti a caccia di qualche spicciolo sotto le fermate della metropolitana: il vecchio folk romanesco ha il diritto di esistere e di guadagnarsi i propri spazi vitali con la stessa autorevolezza delle fanfare balcaniche o delle danze popolari irlandesi.
Questo matrimonio s'ha da fare. Gli Ardecore, illustri cantori folk capitolini, dopo aver narrato la Vecchia Roma, proseguono il percorso alle radici della romanità. Un viaggio che conduce al cospetto di Giuseppe Gioachino Belli. "La voce del popolo di Roma" nei suoi sonetti in dialetto ha raccontato la vita della povera gente, della corruzione del potere e della Chiesa: aspetti presenti ancora oggi in innumerevoli brani del cantautorato romano, e non solo... Una Roma tra sacralità e sesso, Mastro Titta e giudizi universali, pronta a rivivere nei testi scelti dal gruppo e musicati per 996 - Le canzoni di G.G. Belli - Vol. 1 (2022).
996, ovvero la "firma numerica anonima" del poeta intenta a rappresentare le sue iniziali in corsivo. Sedici adattamenti in cui il leader della formazione Giampaolo Felici si fa accompagnare da Gianluca Ferrante e Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion e I Hate My Village, e una lunga fila di guest illustri tra cui citiamo Davide Toffolo, di ritorno a Roma dopo Meme K Ultra con i Cor Veleno.
I sonetti vengono cantati nella loro integrità verso per verso da Felici, senza essere stravolti ai fini della forma canzone, supportato da un'impalcatura musicale prevalentemente acustica in cui si avvicendano scene più movimentate (il ciclo dei tre componimenti "Er zagrifizzio d’Abbramo"), distorsioni ("Er decoro", "La carità") e processioni folk tra i vicoli trasteverini ("L’aribbartato", "Uno mejo dell’antro").
Ennesima testimonianza dell'attualità dell'opera del Belli, 996 - Le canzoni di G.G. Belli - Vol. 1 permetterà di approfondire, riascoltare o magari scoprire questa grande poesia nella forma fedele e viva degli Ardecore, pronti a pubblicare a breve la seconda parte dell'opera.
A pochi mesi dal primo volume, esce il secondo capitolo 996 - Le canzoni di G.G. Belli - Vol.2 con cui la band romana conclude il suo omaggio al poeta nato nel rione Sant'Eustachio. Un tributo viscerale dove la voce e l’esistenza della plebe di Roma e del suo narratore per eccellenza risuona forte negli strumenti e la voce del gruppo. Nel complesso, dai 2279 sonetti del Belli, la band ne sceglie ventotto, facendo sintesi antologica dei grandi temi trattati nell’opus belliano.
Spetta a “Caino”, perso in una atmosfera dolente da cui poi partirà un bell’assolo di chitarra elettrica, inaugurare il viaggio conclusivo di mezz’ora nella Vecchia Roma raccontata in maniera documentaristica dal Belli. I protagonisti ci sono tutti, accompagnati da un’ampia gamma di strumenti, dai fiati a quelli a corda, tra cui fado, mandolino, afro guitar. E così dopo il personaggio biblico non può che essere il turno di “Er biastimatore”, delineato da un'intensa performance vocale, quasi attoriale, di Felici. La fedeltà filologica dell’operazione (ricordiamolo: i sonetti non vengono adattati e ricomposti per una forma canzone, ma bensì riproposti riga per riga nella forma originale e integrale) non rende monotono l’ascolto, che tra la marcia de “La providenza”, le tinte spagnoleggianti di “Er coronaro” e l’omaggio deragliato in “Er vino” saprà come allietare l’ascoltatore.
A completare alla perfezione l’ascolto di 996 - Le canzoni di G.G. Belli, il libro omonimo uscito per Squilibri editore dove è possibile trovare i sonetti scelti dagli Ardecore accompagnati da illustrazioni, spartiti, e la possibilità tramite QR Code di reperire i brani in questione.
Contributi di Alessio Belli ("996 - Le Canzoni Di G.G. Belli - Vol. 1 e Vol.2"), Claudio Lancia ("Vecchia Roma") e Franz Bungaro
Ardecore (Il Manifesto, 2005) | 7,5 | |
Chimera (Il Manifesto, 2007) | 6,5 | |
San Cadoco (Sol/Init, 2010) | 6,5 | |
Vecchia Roma (Goodfellas, 2015) | 6 | |
996 - Le canzoni di G.G. Belli - Vol. 1(La Tempesta, 2022) | 7 | |
996 - Le canzoni di G.G. Belli - Vol. 2(La Tempesta, 2022) | 6,5 |
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