"Chicagocore: Akinsellapolothology" titolava alcuni anni fa una trasmissione della radio pubblica cittadina dedicata ai due fratelli. Tutto ebbe inizio con i Cap'n Jazz. Queste sono le vicende artistiche di Mike Kinsella, di Tim Kinsella e della piccola/grande scena di Chicago (art)post-hardcore.
Cap'n Jazz
I Cap'n Jazz sono la prima occasione di cortocircuito tra due personalità musicali, complementari e opposte: quella "arty" e "noise" di Tim e quella "trad" e "rock" di Mike. Formati nel 1989 dalla volontà di Tim, quando Mike aveva dodici anni, insieme al bassista Sam Zurick, al (talentuosissimo) chitarrista Victor Villarreal e, in seguito, al chitarrista Davey Von Bohlen, la band scelse definitivamente il nome Cap'n Jazz e quel sound assolutamente distintivo nel panorama emo-core di allora.
Post-hardcore dagli arditi inserti noise e free jazz, seppur qui ancora accennati, espresso dalle liriche non-sense urlate sguaiatamente da Tim, dal raffinato istinto ritmico di Mike, dalle sostenute linee di basso di Zurick, dai fraseggi funambolici di Villarreal e dal puro cuore emo di Von Bohlen.
Esordio folgorante nel 1994, registrato da Casey Rice e uscito per Man With Gun con un titolo che è un manifesto programmatico della poetica di Tim: Burritos, Inspiration Point, Fork Balloon Sports, Cards in the Spokes, Automatic Biographies, Kites, Kung Fu, Trophies, Banana Peels We've Slipped on and Egg Shells We've Tippy Toed Over, meglio noto come Shmap'n Shmazz. L'apertura con "Little League" è bruciante: veloce, urlata, slabbrata, con giochi di parole fonetici come "Kitty kitty cat, kitty kitty cat. Thin kids get a skinny neck hex", che suonano come una filastrocca per un film di Harmony Korine.
"Oh Messy Life", uno degli inni della band, è essa stessa un manifesto di vita, riflessione meno solipsistica degli altri gruppi emo degli anni 90 ("Fire is motion. Work is repetition. This is my document. We are all all we've done"). Oltre a batteria-basso-chitarra fanno capolino altri timbri: una tromba stonata ("Basil's Kite"), alcune parti di pianoforte ("Bluegrassish").
Una discografia frammentata – un solo album, una manciata di singoli e partecipazioni a compilation, il tutto sapientemente raccolto nel 1998 dalla Jade Tree nell'antologia Analphabetapolothology – come i contenuti e le singole composizioni, col cantato quasi irritante di Tim così diverso dall'armonia e dalla linearità che dimostreranno successivamente le composizioni di Mike.
Tra le chicche della raccolta spicca la cover di "Take On Me" degli A-Ha, con un Tim quasi inascoltabile, dei cori quasi credibili e un bridge con il pianoforte in controtempo.
Dentro Analphabetapolothology c'è la voglia di esplorare il territorio "post" dell'hardcore sulla strada dei pionieri Fugazi. E in potenza ci sono i germogli di ciò che verrà dopo dai membri dei Cap'n Jazz, una mole di progetti impressionante per qualità ed eclettismo: Joan of Arc, The One Up Downstairs, American Football, Promise Ring, Ghosts & Vodka, Sky Corvair, Owls, Owen, NoYes, Friend/Enemy, Vermont, Make Believe, Flashlight, Maritime.
L'esperienza dei Cap'n Jazz si chiude nel 1995 durante un tour sulla costa orientale.
Joan of Arc/The One Up Downstairs
Sciolta la band che aveva fatto esplodere il talento di tutti i suoi membri, nel 1995 le influenze "arty-noise" del post-hardcore dei Cap'n Jazz confluiscono principalmente nei Joan of Arc, altro progetto di Tim a cui Mike prende parte sia come batterista sia come chitarrista.
Nello stesso periodo Mike si trasferisce a Champaign-Urbana, sempre in Illinois, dove ha modo di mettere insieme The One Up Downstairs, primo suo progetto musicale – che precede/interseca gli American Football – in cui scrive testi e cantato per l'omonimo Ep.
Tre canzoni – recentemente ripubblicate dai "local heroes" della Polyvinyl – sufficienti per fare capire che direzione vuole prendere il suo lavoro rispetto soprattutto a quello del fratello, all'insegna della maggiore lentezza e minor schizofrenia, della melodia e del suono rotondo quanto dell'intimità e dell'emotività, richiamando più le atmosfere dei primi Karate che dei primi Joan of Arc (band a loro contemporanee).
E "Champagne" è il cuore di questa poetica. Siamo alle prove generali di quella che a breve diventerà una pietra miliare dell'emo: l'omonimo esordio degli American Football.
Dopo una manciata di 7" escono i primi due dischi dei Joan of Arc, A Portable Model Of (1997) e How Memory Works (1998), pubblicati – come spesso accadrà – in rapida successione temporale, frutto del songwriting "emorragico" di Tim e della collaborazione di molti musicisti.
I Joan of Arc, a differenze degli emo-zionali The One Up Downstairs, lavorano in maniera più intellettuale sull'idea di "post" (hardcore e rock), elaborando ogni disco su un piano concettuale e intrecciando suoni acustici, elettronici ed elettrici in forme più o meno usuali, con la volontà di sperimentare e decostruire la canzone rock e folk nella sua forma più tradizionalmente pop.
I Joan of Arc si affrancano così in pochi anni dall'ormai ingombrante e superata etichetta "emo", a cui era da sempre associata la loro musica, evolvendosi e mutando in un percorso artistico che li vede ancora oggi, anno 2013, in piena salute.
Inoltre, da questi primi lavori di Joan of Arc e The One Up Downstairs si può avere una misura delle diverse personalità e stili dei fratelli Kinsella anche solo dalla scelta delle copertine e dei titoli degli album dei rispettivi progetti (nei Joan of Arc, infatti, si ritrova una continuità più netta con i Cap'n Jazz).
American Football
Non solo gli American Football sono una di quelle band che, pur avendo pubblicato un solo Lp e avendo suonato poco più di qualche concerto, hanno uno status di culto importante, ma sono anche il primo, timido tentativo di Mike di scoprirsi cantautore e di definire la sua vocalità ineducata e dolcemente familiare.
Gestati un po' alla volta da una breve esperienza dal nome di The One Up Downstairs, gli American Football crescono silenziosamente fino a sviluppare un'incredibile alchimia, quella che sostanzialmente regge il disco e crea un'atmosfera quasi unica, rispetto all'emo più duro, formato da un'agonia degli strumenti, piuttosto che dal gentile accordarsi di emozioni e di malinconia che si trova nella musica degli American Football.
Canzoni plasmate, modellate fino a diventare un flusso appena increspato di arpeggi, sotto la cui superficie si agitano però miriadi di impercettibili, vorticose turbolenze, colorate impulsivamente dalle intromissioni quasi casuali della voce di Kinsella, l'ultimo degli strumenti a venire composto e arrangiato e, così, inserito casualmente e con relativa cura della melodia – tanto che, in alcune tracce, il suo posto è preso da una tromba ("The One With The Wurlitzer", "The Summer Ends").
Canzoni dallo spirito free, jazzistico, trattenute e protese da continui cambi di tempo, a mostrare una supremazia tecnica dissimulata e improntata a un tracciato emozionale in cui è la naturalezza il vero canovaccio.
Per questo c’è la stasi liberatoria e contemplativa della coda di "Honestly?", per questo "I'll See You When We're Both Not So Emotional" dà questa sensazione di disagio, di qualcosa da scrollarsi di dosso, e insieme di serena accettazione.
In questo si differenziano, gli American Football, dall'emo più classico, espressione di uno stato interiore alterato - American Football è invece una riflessione posteriore, un'evoluzione verso quello scandagliamento dei rapporti interpersonali del cantautorato post-Duemila, spesso legato anche per cultura musicale dei suoi protagonisti all'emo (alla sua poetica, al suo modo di esprimersi, alle sue tematiche).
Gli American Football, così, si scioglieranno un anno dopo la pubblicazione del loro primo e unico Lp: ma Mike Kinsella è pronto a coglierne l'eredità, foss'anche senza una band.
Owls
Il 2000 è l'anno di costituzione degli Owls, in pratica i Cap'n Jazz senza Von Bohlen – ormai trasferito in Wisconsin e impegnato a tempo pieno con Promise Ring e Vermont – e ne sono la versione adulta. Registrato in soli cinque giorni da Steve Albini e pubblicato come unico lavoro a marchio Owls da Jade Tree, "Owls" (2001) è instriso delle esperienze artistiche di Joan of Arc e Ghosts & Vodka, più che di American Football e Sky Corvair (che Tim forma con Bob Nanna dei Braid).
I testi di Tim sono esemplificativi di una maturità artistica raggiunta così come il ricco e intarsiato drumming di Mike, il raffinato finger-picking di Villarreal e le articolate linee di Zurick, elemento di coesione e continuità importante come bassista (Cap'n Jazz, Joan of Arc) e chitarrista (Ghosts & Vodka) in tutte le esperienze che legano i membri del gruppo.
Quanto "What Whorse You Wrote Id On" introduce una sorta di "situazionismo beat" con la stessa frase ripetuta che gira e rigira sugli altri versi come un mantra ("Anything I can mistake in the dark for being what I'm looking for is good enough for me"), tanto "I Want the Quiet Moments of a Party Girl" è una canzone d'amore sui generis ("I'm sorry I want to die. Do you still want to die? Let's get it on. Let's drive to Alaska. Let's drive to Alaska. Let's drive to Alaska. It really is a lonely life leaving and ignoring messages. All the necklacing").
"I Want the Blidingly Cute to Confide in Me" è il brano che più di tutti incarna lo spirito di The Owls, quello di una grande jam session suonata nella notte in cui si dimentica l'emo per andare oltre. Nonostante questa intrinseca complessità, The Owls risulta all'ascolto più accessibile dei primi dischi dei Joan of Arc.
La copertina è un’altra opera d’arte: “Self-portraits by Owls”, un collage di mani, braccia, bocche, nasi, capelli che va a formare una creatura dalle vaghe sembianze di gufo (“owl”). Nel 2002 la band si scioglie, seguendo il destinato di altre esperienze precedenti, ma a stretto giro arriveranno i primi due splendidi dischi di Owen (Owen, del 2001 e No Good For No One Now, del 2002), il progetto solista di Mike, e uno dei migliori dischi dei Joan of Arc, l’intimista So Much Staying Alive And Lovelessness (2003).
Owen
Nonostante sia uno dei primi a trasformare la sua camera da letto in studio di registrazione, a suonare e produrre da solo la sua musica, Mike rimane ancora oggi un cantautore unico, inimitabile e inimitato, nel vastissimo panorama cantautorale dell’ultima dozzina d’anni. Lasciati gli American Football, contratta con la Polyvinyl l’acquisto di software per la registrazione casalinga, invece che l’ingaggio di turnisti o di ore di studio di registrazione - un cambio di prospettiva totale.
Rimangono lui e la sua chitarra acustica, ma si intuisce subito che non si tratta di un’infatuazione da post-adolescente per la tradizione, ma di una rielaborazione personalissima di un rapporto con lo strumento e con la composizione autarchica. Nel 2001 arriva Owen, prima uscita con questo moniker quasi asettico ma familiare, com’era senza dubbio quello degli American Football.
Le canzoni paiono anche qui formarsi come una naturale esalazione, con i testi che si sovrappongono al costante fremito acustico come gentili impressioni, in una versione Kozelek-iana pacifica e domestica (“Dead Men Don’t Lie”). Di un’onestà che può esser definita, in un certo senso, “imbarazzante”, per come non fa mai uso di sotterfugi letterari, la musica di Owen è concepita nella bolla effimera ma onnipresente della solitudine casalinga, e ne porta i segni nelle sue placide confessioni, nel suo pallido lucore.
Scherzosamente, Kinsella ha dichiarato di immaginarsi le canzoni di Owen cantate da Bilinda Butcher dei My Bloody Valentine, immaginando la sua musica come un dialogo come la parte femminile di sè, o forse pensando alle inflessioni oniriche dei suoi brani (le dilatazioni sintetiche di “Think About It”, l’uso del vibrafono, delle tastiere e dei campionamenti femminili, appunto).
Ma già, soprattutto, si possono apprezzare le intuizioni musicali del Mike cantautore: gli improvvisi, umorali riverberi acustici di “Declaration Of Incompetence”, la vera e propria voce data al proprio strumento (“Accidentally”), la grazia impressa ai suoi brani (“Places To Go”).
Il legame con la scena in cui Kinsella è nato è ovvio e forte – nel bene e nel male, non c’è niente di studiato nei testi di Owen, solo le impressioni del subconscio e il sommario dei rapporti quotidiani. Non è un caso che il primo tour di Owen sia in supporto ai Rainer Maria nei club, invece che in qualche organic pub fighetto.
Le cose cominciano a evolversi nel seguente No Good For No One Now, in cui le canzoni seguono uno sviluppo più marcatamente narrativo, e aumenta il patrimonio di apparecchiatura nella cameretta-studio. Le canzoni si allungano: si sente che la veste di singer-songwriter voce e chitarra sta stretta a Kinsella, e così anche le canzoni scoprono nuovi strumenti.
Qualche breve nota di pianoforte nell’incontro notturno di “Poor Souls”, il dispiegarsi sintetico dell’interminabile finale di “Take Care Of Yourself”, più frequenti incursioni elettriche (“Everyone Feels Like You”).
In questo secondo disco, invece di appiattirsi su un registro e un’espressività già riconoscibili, Mike mostra un’evoluzione organica, verso una compostezza più definita, in alcuni casi quasi forbita (la bella “The Ghost Of What Should’ve Been”, la melodia meno casuale di “Nobody’s Nothing”).
Nato da una collaborazione col cugino Nate, il terzo disco, I Do Perceive, vede Mike accettare l’idea di rendere Owen un progetto meno casalingo e indipendente, e di lavorare almeno parzialmente in uno studio vero e proprio. Il risultato è un disco in cui Kinsella prende le misure di queste nuove possibilità, rendendo il sound ancora più compatto, e registrando una delle tracce più reminiscenti degli American Football, “That Tattoo Isn’t Funny Anymore”.
Per il resto, non si tratta del disco più ispirato del cantautore americano: piuttosto ordinario nelle soluzioni (le punte elettriche della catatonica “Lights Out”, gli arpeggi cristallini di “Playing Possum For A Peek”) e prolisso nello sviluppo delle canzoni (“Bed Abuse” su tutte).
Allo stesso tempo, I Do Perceive mostra una crescente familiarità di Mike col pop, con tracce di lineare folk-pop come “She’s A Thief”, e, più in generale, una composizione sempre meno impressionista.
È però la decisione di lasciare, almeno in parte, la casa dei genitori per uno studio di registrazione vero e proprio a far prendere il volo al progetto, assistito nuovamente dal cugino Nate e da Brian Deck (Iron And Wine). At Home With Owen esce nel 2006 e rappresenta una fioritura incredibile della musica di Kinsella, un’amplificazione emozionale piena di minute intuizioni musicali.
Un più presente apporto percussivo fornisce la solida base, il battito cardiaco al quale sovrapporre le fibrillazioni elettriche che smuovono i tenui panorami evocati da Mike (“Windows And Doorways”): gli arrangiamenti e la loro esecuzione sono veramente un unicum sensazionale nel mondo cantautorale del nuovo millennio.
Instancabili e mai uguali a sé stessi (“Bags Of Bones”), gli arpeggi di Kinsella disegnano le consuete storie familiari di malinconia quotidiana, con l’arma in più di poter esprimere compiutamente un grande gusto musicale (le parti per piano e violino che incorniciano il quadro nostalgico e agrodolce di “One Of These Days”, i toni di sottofondo della superba “Bad News”, uno dei manifesti della poetica heart on sleeve di Owen).
Così si svela un classico pop che veramente “classico” non sarà mai, per via dell’impronta erudita delle composizioni chitarristiche (da vero tessitore di musica i sette minuti e l’assolo lacerante di “Bird In Hand”) e della brutale onestà dei suoi testi: prova decisiva è data da uno dei brani più famosi di Owen, “The Sad Waltzes Of Pietro Crespi” (citazione da “Cent’anni di solitudine”), una classica ballata dai commoventi spunti orchestrali e insieme un riconoscibilissimo motivo di Mike, quasi allergico ai ritornelli, al concetto di linea melodica. E così spunta una cover di “Femme Fatale”, sempre ambientata in un piacevole torpore emozionale: “A volte mi dimentico, mentre scrivo, che potrei semplicemente ripetere un ritornello. “Femme Fatale” è una canzone molto semplice e questo mi attraeva”.
In New Leaves (2009) il percorso di progressivo arricchimento della musica di Owen si conferma e solidifica, pur in un disco di passaggio, in cui le intuizioni di At Home With Owen sembrano normalizzarsi all’insegna della personale visione pop di Kinsella. New Leaves è un disco, così, in cui le nuove soluzioni sembrano più appiattire, normalizzare il contenuto emotivo delle canzoni (l’”effetto flauto”, l’organetto di “Curtain Call”), piuttosto che esaltarlo – o, perlomeno, mostrarne il volto più accomodante (e sincero, come nel singolo “Good Friends With Bad Habits”). Nonostante qualche eccezione più fremente, come le scariche elettriche di “The Only Child Of Aergia”.
New Leaves è il disco, pacificato e maturo, di un Kinsella accasato (casalingo, a dirla tutta), sposato con figlia. Questo non gli impedisce di costruire un album in un certo senso impeccabile. Ma certo privo delle emozioni straripanti del precedente.
L’ispirazione di At Home With Owen viene invece riacciuffata in Ghost Town (2011), disco segnato dalla morte del padre, che sembra congiungersi, nell’umore ondivago del disco, alla nascita della figlia (qui direttamente presente nella pre-raffaellita, bucolica “O Evelyn...”). Una combinazione di avvenimenti che trova corrispondenza nel ritrovato bagliore stupito della musica di Owen, che riprende sia il lavoro chitarristico solitario degli esordi, che le interiezioni soavi del suo miglior disco (pur senza eccedere con la strumentazione), a comporre una visione di dura ma saggia accettazione.
Questo sembra emergere già dall’incipit, “Too Many Moons”, con i suoi flebili gemiti d’archi, i suoi arpeggi stranamente classicheggianti, ma anche da brani solcati da una realizzazione di fede (“I Believe”) o di amore (“No Place Like Home”, con momenti math e un grande assolo finale) quasi liberatoria, che si esprime in una delle tirate più muscolari della carriera di Owen.
La famiglia è sicuramente il perno esistenziale di questa "città fantasma" di Owen, che si estende da una trasfigurazione-florilegio della maternità (l’ottima "Mother's Milk Breath") al rapporto col padre scomparso ("You know I'm still pissed after a life tempestuous/ Unless you can rise from the dead, I'll die like this", canta Mike in "No Language").
Fantasmi, presenze la cui esistenza ancora irrisolta aleggia intorno alla vita di Kinsella e che riempiono le pagine dell'album, agitandone le acque in moti inaspettati ma controllati, anche quando tutto sembra stridere in un sussulto che sembra abbracciare vivi e morti (la distorsione dell'assolo finale di "Everyone Is Asleep In This House But Me").
Dentro a questi straripanti sentimenti, a questa sorta di resa dei conti sentimentale, Owen incrocia saldamente su rotte di sogno e improvvisi addensarsi di nubi; di questo carattere ondivago della meteorologia del disco è emblema "I Believe", che parte in forma di mantra e si accende di una tempesta elettrica nel suo bel mezzo.
Ghost Town è insomma il disco che permette di alleviare un po’ le paure di chi temeva che la vita artistica di Kinsella seguisse il progressivo allinearsi della sua traiettoria umana: la risposta è lo svolgimento romanzesco, da grande scrittore di musica, delle canzoni del disco (“No Language”), sempre tendenti a un culmine che solo l’ispirazione può raggiungere.
L’Ami Du Peuple (2013) – nome di un giornale di Marat, edito durante la Rivoluzione francese – conferma la puntuale produzione di Kinsella, un indizio della stabilità esistenziale del cantautore americano, che ha preso un ritmo decisamente regolare da quando è casalingo, come primo lavoro.
Non che ci si aspettino sorprese, da Owen – anche la sbandierata e temuta svolta rock non è che un naturale prosieguo delle pulsioni elettriche di Ghost Town – ma indubbiamente è tangibile, in quest’ultimo prodotto di una discografia ormai corposa, uno status creativo di artigiano, più che di artista.
Nella sua carriera, Kinsella è prima arrivato a padroneggiare gli arnesi del cantautore, poi, a partire da At Home With Owen, quelli del compositore di musica a tutto tondo. A sentire L’Ami Du Peuple, la stanza in cui si chiude a scrivere, lo studio di registrazione sono diventati una bottega, indistinguibile praticamente dallo spazio famigliare.
E così, forse per la prima volta dall’inizio della sua carriera, la musica di Owen suona un po’ più vuota, una collezione educata, un ricamo di grande perizia ma anche schematico, priva della struggente poesia di At Home With Owen e degli accessi prorompenti di Ghost Town.
Si confermano sia gli impulsi più nostalgici e bandistici (forse le cose migliori, con “A Fever” e “Bad Blood”), ma anche una dicotomia sempre più netta con le tracce acustiche, reminiscenti degli inizi (“Coffin Companions”, “I Got High”).
L’Ami Du Peuple diventa così un prodotto di marca, con la giusta dose di novità (qualche assolo di elettrica, inaudito) ma anche con un sicuro, riconoscibile catalogo espressivo. Marca Owen, una sicurezza.
È forse la certificazione di una raggiunta mezz’età artistica The King Of Whys ottavo album di Owen. Il disco, già dal titolo, sembra voler diventare epitome della carriera di Kinsella, che per la prima volta accetta, senza troppi rivolgimenti, la collaborazione di uno come S. Carey, che ha organizzato la registrazione del disco nell’ormai mitica Eau Claire dell’ex-sodale Justin Vernon.
I tratti fragili e imprendibili della scrittura di Mike, lasciati scoperti nei lavori precedenti, vengono qui amplificati da un’impalcatura più ampia e “normale”, come nel rotolamento cinematico di “Lovers Come And Go”, con un’attenzione sicuramente maggiore alla caratterizzazione dei brani, a cui fa da contraltare una sensazione generale di superfluità, per gli arrangiamenti che trovano riferimento in un panorama indipendente piuttosto generico, che si potrebbero trovare in un nuovo album di Bon Iver, appunto, o dei National.
Ad esempio gli archi (pizzicati o no) di “Lost” sembrano un orpello poco consono alla musica di Owen, generalmente accusabile di tutto, tranne che di manierismo espressivo.
In questo contesto i brani di The King Of Whys ricadono sostanzialmente nello standard (comunque elevato) di Kinsella, che sa ancora regalare qualche perla, come la costruzione di “Empty Bottle”.
Dopo gli intensi tour con gli American Football, Kinsella riprende in mano il progetto più confidenziale e personale Owen e si trasferisce nella quiete innevata di Eau Claire in Wisconsin per registrare col produttore Sean Carey (Bon Iver, Peter Gabriel) e l’ingegnere del suono Zach Hanson (The Tallest Man On Earth, Waxahatchee) The Avalanche.
In “A New Muse” si parte con grandi pennate e con quel tipico arpeggiare ciclico e periodicamente inciampato che contraddistingue da sempre il songwriting di Owen – e che ritroviamo più avanti anche in “Headphoned” – completato da refrain e passaggi tra le sezioni dei brani più compiuti e sofisticati. Al centro del disco si collocano i testi ermetici e amari di Kinsella, su relazioni che si disfano e finali scritti, mentre i brani si arricchiscono di tanti piccoli preziosi dettagli di arrangiamento: archi che fioriscono, ottoni che soffiano dolcemente, note di pianoforte che accarezzano e cori lievi – ospite la voce femminile di KC Dalager dei Now, Now – che accompagnano i racconti dell’età adulta di Mike, riassestando la direzione del progetto Owen dopo l’azzardo di “The King of Whys” (Polyvinyl, 2016) e “L'Ami Du Peuple” (Polyvinyl, 2013).
Lo splendido lirismo di “Dead for Days”, uno dei brani più poetici e completi dell’album, è la sintesi di questo lavoro: un brano à-la Owen dove archi, fiati ed elettronica accompagnano soavemente, come un corpo unico che si muove in armonia con il fingerpicking di Kinsella e la sua voce sempre più sicura e presente. “On With the Show” coinvolge in una danza condotta dal basso e incorniciata dagli archi, mentre il piano etero dell’intro di “The Contours” trasporta dentro i paesaggi profondamente americani di un film di David Gordon Green, in cui pedali steel, archi e piano costruiscono il contrappunto corale alla voce di Kinsella che ammette di essere in terapia.
La dolcezza di “Wanting and Willing”, in stile Owen e con un leggero eco di Bon Iver, ci porta alla magica chiusura di “I Go, Ego”, che sembra completare il cerchio che si era aperto con il debutto “Owen”, ripercorrendo quelle atmosfere rarefatte e indefinite, e che attraversa anche la maturità di “At Home with Owen” (Polyvinyl, 2006), in cui si può leggere in controluce il riferimento al brano “One of These Days”. È una chiusura densa di consapevolezza, ma che ha il sapore agrodolce del congedo.
Their/They're/There
Passano diversi anni di Owen e Joan of Arc, partecipazioni a compilation varie – tra cui "The Association of Utopian Hologram Swallowers” (2005, con Joan of Arc, Owen, Love of Everything, Make Believe, People’s Dick) e “Present Guitar Duets” (2006, raccolta di duetti a nome Joan of Arc) – la reunion americana dei Cap’n Jazz (2010) e la pubblicazione dell’insolito New Leaves (2011).
Poi anche Mike torna al rock. Forse l’ingresso nella sua vita della paternità, sublimato con l’uscita di “O, Evelyn” in 7” (2011), ha acceso la voglia di entrare in sala e suonare la batteria in un power-trio.
Mike forma i T/T/T a Chicago con il cantante e bassista Evan Thomas Weiss (Into It. Over It) e il chitarrista Matthew Frank (Loose Lips Sink Ships), realizzando un omonimo Ep di sei canzoni appena uscito per Polyvinyl, disponibile in streaming sul sito dell’etichetta e in curati vinili verdi (prima tiratura) e rossi (seconda tiratura).
Ai primi ascolti la cosa più curiosa dell’Ep è che è rock, nel senso tradizionale del termine, e quindi inusuale rispetto alle band precedenti di Mike, che però non ha mai celato negli anni la sua passione per il rock americano (realizzando anche cover come “Jump” dei Van Halen, suonata per l’appunto alla batteria). Forse avrebbe sempre voluto una band così, almeno per divertirsi di più.
Indubbiamente è forte l’imprinting del progetto solista Into It.Over It di Weiss, il cui mondo sembra avere la meglio su quello degli altri due musicisti. Ma la risultante della voce e del basso punk-rock/alternative di Weiss, dei fraseggi di Frank (molto in stile “Villarreal”) e del drumming di Mike a volte è quasi straniante, quanto meno per chi da sempre è abituato ad ascoltare altri suoi progetti musicali.
A volte sembra di sentire un gruppo come gli Everclear (“Fit your life into a grid”) o i brani più pop degli Sugar Ray (“Their/They’re/Therapy”), a volte spuntano echi di cantato alla Sublime accompagnati da fraseggi in stile Ghosts & Vodka (“Confession speech writer”). E l’insieme assume un sapore diverso, più che insolito, strano.
Intanto, sempre sul sito della Polyvinyl, ormai etichetta e store di quasi tutti gli artisti citati, è possibile preordinare “Testimonium songs” dei Joan of Arc in versione vinile magenta, in uscita i primi d’agosto. Stessa storia, altro capitolo.
Owls - "Two"
Il 2014 registra il ritorno degli Owls, praticamente i Cap’n Jazz senza Von Bohlen, che a 13 anni dal loro grandissimo disco omonimo tornano nel 2014 con Two, rilasciato con Polyvinyl Records e con un’altra copertina quantomeno bizzarra (che Noel Gallagher non dovrebbe assolutamente vedere).
E' la stessa press release dell’album a rivelare che questo Two ha avuto una gestazione complicata (“Owls have a new record. It didn't come fast and it didn't come easy.”), tra false partenze, incomprensioni varie e difficoltà di schedule per prove e registrazioni da parte di Kinsella e soci, costantemente impegnati su più fronti e assorbiti dai rispettivi progetti musicali. Nulla di paragonabile ai cinque giorni che ci sono voluti per il disco d’esordio che, fra le altre cose, vide la collaborazione di sua maestà Steve Albini nelle vesti di producer.
Le chitarre distorte in apertura mantengono ancora inalterato l’agrodolce sapore dell’alt-rock americano fra gli 80's e i 90's (quello ruspante e genuino di Sonic Youth, Pavement e Pixies) e introducono l’inconfondibile timbro vocale frammentato ed eccentrico di Tim Kinsella, lanciato sui passaggi ipnotici a un passo dal noise del singolo “I’m Surprised...” e sugli echi della Seattle che fuin “The Lion...”.
Passando dall’esercizio di stile di “This Must Be How...” al free-jazz contaminato di post-rock di “Ancient Stars See...” arriviamo alla seconda parte del disco, che si dimostra più cupa e che strizza l’occhio agli esordi post-hardcore ed emo-core del collettivo statunitense. I quasi sei minuti di “It Collects Itself...” rappresentano un riassunto perfetto del marchio Owls: il pulito e brillante drumming di Mike si fonde ai tortuosi giri di basso di Zurick e sorregge le pizzicate eleganti di Villarreal, mentre le deliranti e sguaiate urla di Tim quasi stridono con l’ottima armonia strumentale da jam-session della band. E si rivela così il vero valore aggiunto di questo disco, capace di far emergere e di bilanciare al meglio le personalità di ciascuno dei musicisti coinvolti, in un crossover di generi e di idee che riesce ancora a sorprendere.
Gli Owls dimostrano dopo più di un decennio che poco o nulla è andato perso nelle nebbie del tempo. Two è un ottimo disco che odora di epoche ormai andate e che, pur risentendo dell’anarchica carriera musicale dei suoi singoli interpreti, mantiene una coerenza di fondo con l’omonimo album datato 2001, aggiungendo però una maggiore rotondità sonora e risultando più diretto e coeso. Non ci è dato sapere se dovremo aspettare altri due lustri per un nuovo capitolo dei “gufi” di Chicago; noi, per adesso, ci accontentiamo più che volentieri.
LIES
Il primo album del duo di Chicago formato dai cugini Mike e Nate Kinsella, licenziato con la locale Polyvinyl, sembra porsi in continuità col songwriting degli album di Owen, il progetto solista di Mike al quale Nate aveva collaborato, fatto salvo che lo spazio prima colmato dalle trame delle chitarre viene adesso in buona parte occupato da pianoforti, archi sintetizzatori ricordando, a livello concettuale, il parallelo tra l’operazione Death Cab For Cutie e Postal Service.
Ancora una volta ricondotto ai temi del quotidiano (amicizia, relazioni, famiglia) si libera dalla malinconia delle canzoni di Owen, per aprirsi nelle melodie soprattutto vocali e negli arrangiamenti al brio e a una palette timbrica più ricca, tra soli di sax (“Echoes”), cori femminili (“Corbeau”) e pizzicati (“Merely”). Incipit elettronici radiosi (“Resurrection”), passaggi synthpop con chitarre ruvide à la Depeche Mode (“Camera Chimera”), strofe indietroniche spigliate (“Summer Somwhere”) e ballad rarefatte (“No Shame”) con dolci fraseggi di chitarra à la Cure (“Rouge Vermouth”) costellano quasi un’ora di musica piacevole ma non memorabile, talmente cesellata nel sound da far perdere di vista la forma generale della canzone.
Maria Teresa Soldani: Cap'n Jazz, Joan Of Arc, LIES, Owls, Their/They're/There, Owen "The Avalanche"
Lorenzo Righetto: American Football, Owen
Lorenzo Bruno: Owls "Two"
CAP'N JAZZ | ||
Burritos, Inspiration Point, Fork Balloon Sports, Cards in the Spokes, Automatic Biographies, Kites, Kung Fu, Trophies, Banana Peels We've Slipped on and Egg Shells We've Tippy Toed Over(Man With Gun, 1995) | ||
Analphabetapolothology(antologia, Jade Tree, 1998) | ||
JOAN OF ARC | ||
A Portable Model Of(Jade Tree, 1997) | ||
How Memory Works(Jade Tree, 1998) | ||
The Gap(Jade Tree, 2000) | ||
In Rape Fantasy And Terror Sex We Trust(Perishable, 2002) | ||
So Much Staying Alive And Lovelessness(Jade Tree, 2003) | ||
Joan Of Arc, Dick Cheney, Mark Twain...(Polyvinyl, 2004) | ||
Presents Guitar Duets(Record Label, 2005) | ||
Eventually, All At Once(Record Label, 2006) | ||
The Intelligent Design Of Joan Of Arc(Polyvinyl, 2006) | ||
Joan Of Arc, Dick Cheney, Mark Twain...(Polyvinyl, 2008) | ||
Boo! Human(Polyvinyl, 2008) | ||
Flowers(Polyvinyl, 2009) | ||
Life Like(Polyvinyl, 2011) | ||
Oh Brother(Joyful Noise, 2011) | ||
Joan Of Arc(Joyful Noise, 2012) | ||
Joan Of Arc Presents: Joan Of Arc(Joyful Noise, 2012) | ||
Joan Of Arc, Every House Has A Door - Testimonium Songs(Polyvinyl, 2013) | ||
He's Got the Whole This Land Is Your Land in His Hands (Joyful Noise, 2017) | ||
1984 (Joyful Noise, 2018) | ||
AMERICAN FOOTBALL | ||
American Football(Polyvinyl, 1999) | ||
American Football [LP2] (Polyvinyl, 2016) | ||
American Football[LP3](Polyvinyl, 2019) | ||
OWLS | ||
Owls(Jade Tree, 2001) | ||
Two (Polyvinyl, 2014) | ||
OWEN | ||
Owen(Polyvinyl, 2001) | ||
No Good For No One Now(Polyvinyl, 2002) | ||
I Do Perceive(Polyvinyl, 2004) | ||
At Home With Owen(Polyvinyl, 2006) | ||
New Leaves(Polyvinyl, 2009) | ||
Ghost Town(Polyvinyl, 2011) | ||
L'ami Du Peuple(Polyvinyl, 2013) | ||
The King Of Whys(Polyvinyl, 2016) | ||
The Avalanche(Polyvinyl, 2020) | ||
THEIR/THEY’RE/THERE | ||
Their/They're/There(Polyvinyl, 2013) | ||
LIES | ||
Lies (Polyvinyl, 2023) |
CAP'N JAZZ | |
Basil's Kite (live, da Burritos,..., 2010) | |
Take On Me (live, da Analphabetapolothology, 1998) | |
AMERICAN FOOTBALL | |
Live in Chicago | |
OWEN | |
Live At The Polyvinyl Office | |
Ghost Town Live Series (live session, 2011) |
CAP'N JAZZ | |
JOAN OF ARC | |
Sito ufficiale | |
OWEN | |
Bandcamp | |
Testi |