Sean Carey, batterista improvvisamente scopertosi compositore, si è visto assalire da un’orda di critici, pronti a smantellare qualsiasi suo tentativo creativo, ma smessi i panni del songwriter e abbracciati quelli dell’impressionista sonoro, con “Range Of Light” ha trovato finalmente il coraggio di uscire dall’ombra di Bon Iver, ridefinendo il suo ruolo di outsider.
Sarà per il tono austero frutto dei sui studi classici, o per quella tendenza al descrittivo quasi pittorico degli arrangiamenti, S. Carey resta un musicista per pochi eletti o per anime pronte a cedere alle emozioni più sotterranee e delicate, quelle prive di qualsiasi risvolto sociale o intellettuale.
E’ lo stupore che si prova osservando lo stesso tramonto, l’ennesimo guizzo delle onde sulle rocce, o lo scroscio dell’acqua tra le chiome degli alberi, il vero universo del musicista americano, che rilegge alcune trame del suo passato discografico, in cerca di quella situazione sonora da photo-frame, che sembra essere la chiave di lettura di un percorso più nobile del cliché cantautore malinconico-introverso.
L’uso dei toni e dei colori è ancor più abile, e così “In The Stream” si trasforma da una bozza di folk-pop con tanto di ritmo e voci femminile in un meraviglioso angolo crepuscolare, dove le poche note di piano salvate dall’originale, si rifrangono su strali minimalistici di viola e archi che scintillano come diamanti colpiti dalla luce.
Anche “We Feel” viene maltrattata allo stesso modo, il riverbero pianistico che la rendeva giocosa è ora in secondo piano, folk cameristico alla Penguin Café Orchestra e flussi alla Michael Nyman agitano il lato più introspettivo, e il brano trova finalmente un’identità e un fascino malizioso che brama il repeat.
Non è un caso che l’album si apra con la rilettura di uno dei pezzi più belli del precedente album, quella ipnotica “Fire-Scene” che sembra distillare ogni frammento della leggera inflessione jazz dell’originale, verso una poetica più eterea e ultraterrena.
Poco importa se si tratta solo di sei sparuti brani recuperati in fretta e furia dal passato (anche se la scelta non è in verità così casuale), o che la complessa trama di “Neverending Fountain” sveli finalmente i suoi segreti, ora che il fumo si è diradato.
Quello che resta del suo recente passato è un unico grido sommesso, una traccia lirica che nella title track “Supermoon” mette insieme Neil Young, Talk Talk, Nick Drake e Radiohead (di cui Carey offre una cover version di “Bullet Proof…I Wish I Was”) con un candore che sconfina nell’azzardo, ma queste sei tracce non sono una risposta, ma un'esortazione che ancora una volta sceglie la contemplazione alla riflessione.
26/02/2015