Simon Jeffes la battezzò "folklore immaginario" la sua musica, qui si è optato per un più canonico e freddo modern classical. Ma, si chiederà il lettore, non sarà incoerente, almeno dal punto di vista concettuale, inserire un disco nella lista delle pietre miliari del rock dopo averlo definito sostanzialmente non rock? Se le categorie fossero tagliate con l'accetta e i confini tra generi fossero meno labili, forse lo sarebbe, ma per fortuna i musicisti, specialmente quelli grandi, si fanno molti meno problemi rispetto a chi la musica poi la commenta e la cataloga, dando vita, come nel caso della Penguin Café Orchestra, a universi sonori magici e indefinibili. Si prenda per buona, quindi, la definizione modern classical purché non ci si aspetti da questo disco sonate austere e vuoto intellettualismo: il mondo della Penguin Café Orchestra è armonioso e fatato; un mondo dove le culture si incontrano e tra una risata e l'altra si scambiano anche i connotati.
L'impostazione della band inglese è senz'altro classica, a partire dalla formazione: un quartetto da camera che oltre ad esser composto da strumenti tradizionalmente presenti in tale tipo di formazione come il violoncello e il violino, suonati rispettivamente da Helen Liebmann e Gavyin Wright, accoglie elementi rock come il piano elettrico di Steve Nye (futuro collaboratore di Japan, David Sylvian, Xtc e Frank Zappa) e la chitarra elettrica di Simon Jeffes, anima del gruppo. Moderna, però, è anche l'attitudine di Jeffes e soci a farsi carico delle istanze di un periodo, la metà degli anni Settanta, nel quale molti musicisti iniziavano a sentire l'esigenza di uscire dalla specificità della musica occidentale per accogliere gli umori, i sapori e gli odori di musiche "altre". In pratica, il punto di partenza della Penguin Café Orchestra è lo stesso della cosiddetta world music, e cioè far diventare il patrimonio musicale locale un patrimonio culturale globale; ma i risultati ottenuti da Jeffes sono diversi da quelli che poi otterranno i vari Jon Hassell, Eno-Byrne, Paul Simon, Peter Gabriel, perché l'operazione della Penguin Café Orchestra è unica nel riuscire a far suonare esotica, timbricamente e armonicamente, la musica colta europea, inserendo degli elementi di destabilizzazione culturale che impediscono di riconoscere una musica semplicemente come "mia" (dell'Europa) o "tua" (dell'Oriente, dell'Africa, delle Americhe) facendola diventare "nostra" (di tutti, dell'intero mondo).
Un processo, dunque, che è molto più fine e sottile di quello pur encomiabile portato avanti dagli esponenti della world music e che prende avvio proprio con "Music From The Penguin Café", uscito nel 1976 per la Obscure di Brian Eno, presente qui in veste anche di produttore esecutivo.
Il disco si apre con un improbabile e meraviglioso "Penguin Café Single", brano composto da Jeffes durante un soggiorno in Giappone nel 1972: una danza gitana vestita di abiti caraibici che implode in atmosfere surrealiste, dove un violino strozzato sembra riproporre l'incipit del celebre "Adagio per archi" di Samuel Barber come se l'avesse riscritto Salvador Dalì! Ma il viaggio onirico è solo all'inizio e la pièce "Zopf", divisa in sette brevi parti, scopre un vaso di pandora pieno di leccornie musicali: dalle armonie hawaiane dell'ukulele a quelle ispaniche del cuatro (un particolare tipo di chitarra molto diffusa in Venezuela e Porto Rico), dalle mirabilia dello sheng (un antico organo a bocca cinese) alle alchimie elettroniche dei modulatori. L'arte del frammento si sublima nella sequenza delle sette tracce, tra le quali spiccano "From The Colonies" (spinetta e ukulele a darsi battaglia sul puntellamento ska della chitarra), "Surface Tension" (sonata mesta e maestosa per violoncello, viola e piano) e la bizzarra "Milk" (alla quale presta la voce la scultrice Emily Young: diventerà in seguito autrice delle copertine della band).
Su tutto, però, svetta "Giles Farnaby's Dream" che rende cosmopolita una composizione seicentesca del musicista inglese Giles Farnaby: l'intonazione aulica della spinetta si scioglie nel vernacolo dinamico dell'ukulele, sostenuto dalla vivacità ritmica del basso e dal contrappunto sfavillante del violoncello.
L'idillio poetico di "The Sound Of Someone You Love Who's Going And It Doesn't Matter" è la trasposizione in musica di un viaggio che non importa dove conduce, di un sogno che non ha senso capire come andrà a finire. La leggerezza primaverile (gli arpeggi giulivi di chitarra e i tocchi leggeri del piano elettrico) e la nostalgia autunnale (la struggente aria melodica del violino) preludono alla breve pioggia schönberghiana che si scatena prima che torni il sereno. L'intreccio metafisico di archi, piano e chitarra tocca il culmine nell'eloquio sommesso di "Hugebaby", mentre l'ossequio brioso di "Chartered Flight" si congeda cordialmente dall'ascoltatore rimandandolo ai successivi appuntamenti presso il caffè del pinguino. Appuntamenti che Simon Jeffes organizzerà con cura, imbandendo, con i successivi "Penguin Café Orchestra" (1981) e "Broadcasting From Home" (1984), tavole piene di primizie da far assaggiare a vecchi e nuovi "clienti" del suo particolare locale, che purtroppo sarà costretto a chiudere i battenti nel 1997 quando un tumore al cervello si porterà via il suo titolare prematuramente. Se è vero, come recita uno dei più ricorrenti luoghi comuni, che la fortuna è cieca, allora, dato le circostanze, la morte non può essere che sorda.
01/11/2009