Qualcosa di più di un atteso ritorno, quello degli American Football: la band di culto della midwest emo ha lasciato in eredità il suo esordio e capolavoro nel 1999, scomparendo subito dopo dalla scena che li aveva visti nascere. Ci sono voluti diciassette anni per avere notizia di una reunion e di un nuovo album: dopo alcuni show di "prova", il gruppo si è messo in viaggio per andare incontro ai fan che negli anni si sono prodigati per tenere in vita il suo nome, diffondendo capillarmente i brani di quel classico che ancora oggi suona come un fragile, accorato inno generazionale per outsider. Prima del concerto al Circolo Magnolia di Segrate (Mi), unica data italiana del tour, abbiamo incontrato Mike Kinsella e Steve Lamos per ritornare sui passi di una vicenda artistica particolare, tra passato e presente del gruppo.
La prima volta che ho ascoltato il vostro secondo album, sin dalle prime note mi sono sentito come se stessi tornando a casa dopo un lungo viaggio. Provate qualcosa di simile, tornando sul palco con le vostre vecchie e nuove canzoni?
Mike: Lo sento molto diverso da com’era prima: ora suoniamo per molte più persone, sembra quasi di essere una band completamente diversa. È divertente suonare davanti a più persone interessate al gruppo, prima lo facevamo nel suo salotto [di Steve], quasi per nessuno.
Steve: Sì, è più divertente stavolta!
Com’è stata la vostra prima esibizione al Pygmalion Festival di Champaign-Urbana?
Mike: È stato divertente ed eccitante. È stato il mio momento di massimo nervosismo.
Steve: Vorrei che potessimo rifarlo. Ci siamo divertiti ma non so come sia suonato (ride) Prima di quello abbiamo fatto una specie di concerto di prova in un bar, ma all’aperto su un grande palco… Ero molto nervoso anch’io, ma è stato grandioso!
La copertina con la casa a Champaign-Urbana è diventata una sorta di icona. Ho letto che molte giovani band vengono lì a suonare solo per fare una foto con la casa sullo sfondo. E non è infatti così importante per la vostra musica? – Intendo come luogo di intimità dove si può parlare di se stessi in totale onestà.
Mike: Non so perché l’abbiamo scelta: ci piaceva, e c’è un nostro amico, Chris, che ha scattato un sacco di foto. Non so quale fosse la logica, ma mi piaceva. Guardando indietro, ha perfettamente senso.
Steve: Guardarla evolvere e guardare la gente aggrapparsi all’idea della casa ha senso a posteriori ma non penso sia stato cosciente. Ieri sera eravamo a un concerto metal, camminavo in giro e guardavo tutte queste persone con queste magliette… Non conosco questo mondo di cose spaventose eccetera, ma c’è una tematica nelle band metal e immagino che la nostra sia l’opposto di quella.
Mike: Rimanere a casa!
Steve: (indica la mia maglietta con la foto degli Slint) Voglio dire, questa è un’icona, ma perché? È solo un gruppo di tipi strani che se ne vanno a zonzo, sono giovani e carini e si divertono.
Vi siete mai fermati solo per guardarla, pensando al suo potere evocativo?
Steve: Non ci ero mai stato, non sapevo neanche dove fosse!
Mike: È una città piccola, perciò se stai guidando e la vedi dici: “Ah sì, è quella la casa”.
Steve: Hai visto che dei ragazzini hanno segnato con le bombolette spray il marciapiede? Così possono fare le foto dalla stessa angolazione, come se fosse una cosa in voga.
Inoltre avete offerto un altro punto di vista sul secondo Lp.
Mike: Come dicevo, la prima volta era solo una foto, abbiamo pensato che potesse starci. E questa volta è stato cosciente, la stessa casa ma da una diversa prospettiva.
Steve: E di tutte le immagini, quella da dentro era la più interessante, poi abbiamo cominciato a pensare ai testi, per questo hanno molto a che fare con il tempo in cui hai ottenuto quello che pensavi di voler ottenere quando eri giovane.
Mike: È stato lo stesso fotografo, gli abbiamo chiesto di tornare in quella casa e scattare qualche foto. Perciò questa è stata fatta recentemente.
Quando si parla della vostra musica, ovviamente, c’è molto più che solo un certo tipo di testi e di stili musicali: sono tutti aspetti ugualmente rilevanti, ma per me è sempre stata specialmente una questione di “sentimento”, perché cambia davvero l’intera prospettiva. La maggior parte dei vostri testi, se letti così come sono, appaiono tristi se non quasi da tendenze suicide; ma quando si ascoltano le canzoni, essi diventano pieni di dolce malinconia, in fin dei conti persino tinti di speranza. È il risultato di testi aggiunti dopo aver scritto pezzi strumentali?
Mike: Di solito le canzoni esistono già finite o quasi prima che i testi vengano in mente. La band ha uno stile musicale e io ho uno stile di scrittura: anche le mie cose a nome Owen suonano come la musica più tenera del mondo e poi, tipo, “Voglio uccidermi” (canticchia lamentoso), perché se penso semplicemente a canzoni d’amore verranno fuori melense, è un po’ troppo, perciò penso che debbano avere un po’ di mordente.
Steve: Ma a volte sono divertenti! Quando sento qualcosa che Mike dice o i suoi testi, se li prendi alla lettera sono strani, ma non vanno presi alla lettera, sono un po’ tra il serio e il faceto. Il punto di tutto questo è di essere speranzosi, mio Dio! Altrimenti per che cosa lo fai? Puoi parlare di tutto quel che vuoi, ma se non ascolti la musica per sentirti meglio in qualche modo, allora cosa stai facendo? Fai altro!
Scriviamo ancora i pezzi strumentali per prima cosa, non vieni da questa band con i testi e dici: “Ehi, scriveteci della musica attorno”, è sempre stato il contrario.
C’è una serie di gruppi indipendenti che si ritrovano a essere “di culto” qualche anno dopo aver registrato i loro album. Il vostro primo omonimo è uno degli esempi più evidenti di questa tendenza: in altre interviste avete dichiarato che non vi aspettavate che potesse succedere, ma c’è stato un punto in cui la gratificazione per il vostro lavoro passato è diventata sovrabbondante? Abbiamo trovato così tanto materiale su di voi negli ultimi anni…
Mike: Penso si tratti di un’iper-saturazione, certamente. Voglio dire, era fico e ci siamo sorpresi che tutti ascoltassero il disco e ci tenessero, poi eravamo eccitati al poter fare tutte queste interviste, ma penso che forse sia un po’ troppo. Se avete seguito la nostra pagina Facebook nel periodo in cui abbiamo pubblicato il nuovo album, era tipo “promozione! promozione! promozione!”. Non seguo il sito della band o altro perché è troppo. Ma è l’unico modo per essere rilevanti: ogni giorno ti svegli e devi ricordare al mondo che esisti.
Avete percepito, in questi anni, che si stava creando intorno a voi una sorta di mito?
Steve: Forse tu, Mike, io no di certo.
Mike: Non a questo livello, per niente. Pensavo fosse lo stesso centinaio di ragazzini che venivano ai concerti di Owen. Non avevo idea che si stesse diffondendo in questo modo.
Steve: Devo dire che, creando musica nuova, apprezzo quando altre persone apprezzano che stiamo cercando di fare cose nuove e di tenerci aggiornati, perché non continueremo a fare soltanto il primo album ancora e ancora. Abbiamo fatto trenta concerti dalla reunion e non possiamo farlo, non c’è motivo di continuare a suonare se non possiamo suonare anche qualcos’altro. In questo modo ci sentiamo una band vera.
Un paio d’anni fa il Guardian ha pubblicato un articolo che titolava: “Emo, non più la parola più sporca del rock”, riferendosi a una nuova generazione di gruppi americani come The Hotelier e TWIABP, che sono passati dai pomposi temi suicidi degli anni Zero a una nostalgia punk-rock ereditata dai 90. Di recente vi siete presi gioco di questi stereotipi “sanguinosi” con il video non troppo serio di “I’ve Been So Lost For So Long”. Pensate che il termine “emo” debba essere ripulito, o che semplicemente non dovrebbe esserci? E vi piace quel che le giovani band stanno facendo con (o senza) esso?
Mike: Tenderei più per l’inesistenza del termine, ma non ce ne preoccupiamo. Se lo facessimo, non potremmo uscire di casa. Non è come se potessimo uscire là fuori e dire: “Dai, non siamo una band emo”. Ovviamente a questo punto lo siamo, perciò non ci pensiamo quando scriviamo o facciamo alcunché di musicale.
Ho suonato qualche concerto con TWIABP: sono sonorità che ho sempre avuto intorno, è come la roba che ha cominciato a piacermi quando avevo vent’anni.
Sono un grande fan del tuo progetto cantautorale, Owen, e credo che ci sia stato uno spostamento nella scena alt-rock/emo degli anni 90 verso uno stile più acustico e cantautorale. Perché hai deciso di seguire questo percorso?
Mike: Non lo so, in verità era più una questione di logistica, ma immagino che il modo più facile per rispondere alla tua domanda sia che odio le prove con la band (ride). Ma mi piace suonare: perciò ho quattro chitarre in giro per casa, e ogni volta che vado in qualche stanza prendo in mano la chitarra e strimpello un po’, e poi mi dico: “Ok, questa può essere una canzone”. Non devo passare per una sudante prova di sei ore con la band! (ridono)
Steve: Tu detesti proprio le prove col gruppo!
Mike: In realtà è solo logistica, e poi mi stavo per sposare, quindi… Suonavo ancora in altre band – suonavo con i Joan Of Arc al tempo – ma questa è la cosa più semplice o quel che mi viene fuori in questo momento.
Se guardo indietro alla tua carriera come Owen, mi sembra di aver guardato la tua vita andare avanti, come in una controparte musicale del film “Boyhood”. Quando cercavi l’amore in “At Home With Owen”, quando hai avuto una figlia in “Ghost Town” (i miei dischi preferiti di Owen…). Cosa ci riserva il futuro?
Mike: Diventa sempre più difficile scrivere: era facile quando uscivo da single, essendo molto più socievole, trasformavo più facilmente quelle esperienze in canzoni. Ma ora si tratta di preparare la cena ogni sera, e poi ci vuole un’ora e mezza per mettere i bambini a dormire. Se scrivessi una canzone sulla fatica nel portare i bambini a letto, ci sarebbe questa piccola porzione di pubblico che ci si ritroverebbe, e la maggior parte di quelle persone non sono interessate o non hanno tempo per ascoltare musica e comprare dischi. Perciò è dura, devo scrivere cose più vaghe o proiettarmi molto di più al di fuori di me. Devo uscire fuori e inventare situazioni tra le persone che vedo, perché non le sto vivendo. American Football è più divertente che fare cose come Owen, viaggio coi miei amici invece di guidare per conto mio.
Quindi cosa dovremmo aspettarci dalla band?
Mike: Siamo eccitati al poter scrivere ancora nuove canzoni. L’unico modo per continuare a farla andare avanti è continuare a scrivere. Non possiamo essere nostalgici per sempre.
Steve: E credo che da quest’ultimo album abbiamo imparato alcune cose nuove che faremo allo stesso modo e altre che potremmo fare diversamente.
Pensate di poter riuscire a mantenere un ritmo più sostenuto rispetto a prima, o vi prenderete il tempo che serve?
Mike: Sarà prima di 17 anni, di sicuro. Siamo già in lavorazione.
Steve: L’ultimo album è stato scritto in circa due o tre mesi e registrato in altre sei settimane – abbiamo dovuto farlo, non avevamo scelta. Ma penso che ora abbiamo una miglior percezione di cosa sia questa nuova versione, perché la prima non avrebbe nemmeno dovuto essere qualcosa – il fatto che sia esistita è una specie di piccolo miracolo. In questa versione abbiamo imparato davvero cosa significhi essere una band, quindi si spera che ci arriveremo più in fretta.
AMERICAN FOOTBALL | ||
American Football(Polyvinyl, 1999) | ||
American Football [LP2] (Polyvinyl, 2016) | ||
American Football [LP3] (Polyvinyl, 2019) | ||
OWEN | ||
Owen(Polyvinyl, 2001) | ||
No Good For No One Now(Polyvinyl, 2002) | ||
I Do Perceive(Polyvinyl, 2004) | ||
At Home With Owen(Polyvinyl, 2006) | ||
New Leaves(Polyvinyl, 2009) | ||
Ghost Town(Polyvinyl, 2011) | ||
L'ami Du Peuple(Polyvinyl, 2013) | ||
The King Of Whys(Polyvinyl, 2016) |
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