Tra tutte le reunion che, volenti o nolenti, ci dobbiamo sorbire, forse quella degli American Football è una delle più “naturali” e accettabili. Come negare a quattro ragazzi che hanno registrato un disco praticamente come se fosse un progetto di scuola, chiudendo la baracca non appena concluso come se si trattasse di un plastico di cartone di uno svincolo autostradale, la possibilità di suonare davanti a un vero pubblico (e anche piuttosto appassionato e numeroso), anche se vent’anni dopo?
Anche e soprattutto per questo l’appuntamento per l’unica data italiana ha un che di nuovo e di avventuroso, come se si testasse sul palco la nuova band di grido, ed è chiara l’aspettativa un po’ imbambolata e gioiosa di chi fin dalle 20 affolla la platea estiva del Magnolia.
Come purtroppo spesso accade, ci pensa l’organizzazione artistica della serata a mettere a dura prova l’incanto di un pubblico soprattutto giovane, che per la maggior parte nel 1999 non era neanche adolescente, a riprova della sostanziale aura anti-nostalgica (nonostante il genere) di questa reunion. Normalmente bisognerebbe glissare, ma la proposta di supporting act offerta (nonostante l’encomiabile puntualità) dall’organizzazione è talmente scadente e inappropriata (e, in ultima analisi, come spesso capita approssimativa) che non si può sorvolare.
Dal punto di vista della qualità è tutto opinabile, ci mancherebbe, sicuramente si può eccepire, però, sull’interesse che possano suscitare per il pubblico degli American Football: 1) Les Enfants: “gruppo boyscout” in orbita X-Factor, che condisce l’enfasi sudaticcio-prescolare dell’indie-folk Mumford-iano (con tanto di cantante che suona, in piedi, tamburo e piatti) e degli ultimi Coldplay con testi che fanno sembrare la Smemoranda una raccolta di Cioran; 2) Giorgieness, l’apoteosi del “brutto” in tutti i sensi, sonoro (rock urlato e pestato senza soluzione di continuità con alti - ? – sparati al massimo, risultato una specie di assalto ai timpani involontario), estetico (una proposta che fa quasi tenerezza per quanto è semplicemente vecchia, una specie di risposta rock ai festival canori agostani d'ambientazione balneare), tecnico (sembra di assistere al concerto “r(u)ock” della cover band dell’oratorio di quartiere). Il tutto dà la sensazione la volontà di presentare la parte deteriore di quanto le band italiane hanno da offrire (come se poi non ne esistessero di vicine, anche solo spiritualmente, agli American Football). Si fa presto a dire: “Queste sono band che hanno pubblico”. Non quello degli American Football, però, come pare ovvio dalla risposta al Magnolia. Alla fine è proprio il pubblico a perderci (stupidi noi che pensiamo che dovrebbe venire prima di tutto), e a guadagnarci è solo chi potrà aggiungere una tacca alla sua cartella stampa.
La puntualità già menzionata rende effettivamente il tutto più digeribile (credo che tutti, soprattutto quelli che sono venuti da fuori per assistere a questa singola data italiana, avrebbero preferito un supporting act di meno e un concerto spostato un’ora prima, ma si sa, in Italia se l’headliner suona prima delle 22 si è sfigati), e così si fa presto a dimenticare quanto successo prima: basta la doppietta “You Know I Should Be Leaving Soon” e “Honestly”, posta dopo l’intro “corale” “Where Are We Now” per sottolineare impietosamente l’abisso tecnico, espressivo e alla fine culturale che ci separa questa sera dai tre ragazzi (ora quattro) di Champaign. Gli stacchi, soprattutto l’ardimento disinteressato dei cambi di ritmo di “Honestly”, che passa dal riffing matematico a uno stordente baluginio di accordi aperti, porta subito in quel basement del Midwest in cui, qui più che mai, si generava la scintilla di una creazione. L’altra cosa, più importante, che si capisce, è che ci vorrà un po’ perché un’intelligenza artificiale capisca come riprodurre la magia degli American Football, come quelle jam, ora nervose e recalcitranti, ora abbaglianti e radiose, possano parlare di un’adolescenza perduta. E anche come lo faccia Mike Kinsella, stonato senza possibilità di redenzione, in barba alla mediocrità dei cultori della tecnica in sé.
L’impatto è talmente forte che ne risentono molto i pezzi del disco nuovo, nella loro linearità e nella loro gestazione, vien da dire, abbastanza frettolosa. Sicuramente molti fan si sono chiesti la necessità di presentare un nuovo disco per una band, che, si voglia o no, è esistita solo nello spazio di pochi mesi, nello specifico ambiente di uno scantinato. Alla fine sono venuti fuori pezzi (brutti) di Owen (che fra l’altro aveva appena pubblicato un altro disco) arrangiati per una band: chiaro che si volesse arrivare a presentare una scaletta originale un po’ più lunga di sette-otto pezzi, forse a quel punto sarebbe stato meglio riarrangiare il repertorio migliore di Owen (e la scelta non manca).
Da un lato è comprensibile la voglia di dimostrare di “essere vivi” invece di fare già i dinosauri del rock – niente da dire. Però il sequel di “American Football” anche dal vivo offre un lato normalizzato e assai meno avventuroso dell’album precedente, e purtroppo quando la scrittura latita, non c’è tecnica che tenga: basta seguire il batterista, ora liberatorio e nervosamente assertivo nei pezzi originari, ora ingabbiato in 4/4 tutto sommato lineari, con l’unica via d’uscita di un aumento d’intensità.
Salvo qualche sparuta eccezione comunque più macchinosa (“My Instincts Are The Enemy”, “Desire Gets In The Way”), la verve jazzistica è sostanzialmente assente dai nuovi brani, e anche la vena malinconico-nostalgica è presto surclassata dal mesto indagare della tromba di “Summer Ends” (che non è stata eseguita se non accennata parzialmente in un intermezzo di tromba del batterista). Un divario espressivo che si fa ovviamente più evidente dal vivo, dove scompaiono anche le differenze di mezzi in fase di registrazione.
Detto questo, il live degli American Football è sentito, per quanto un po’ malinconicamente (c’era da aspettarselo) understated, con un misto di incredulità e rimpianti che sembra a volte avere la meglio, o almeno accompagnarsi allo stupore di trovarsi a suonare, vent’anni dopo o quasi, davanti a qualche centinaio di persone, al di là dell’oceano. Tutto è suonato con precisione ma con la sensazione di una vaga amnesia, quella di chi legittimamente non si ricorda com'era vent'anni prima e può solo riprodurre uno spartito in maniera pedissequa.
È così agrodolce la chiusura, naturalmente affidata a “Never Meant” e fatta desiderare a lungo (forse anche troppo), proposta in versione integrale, cioè senza dilavature o code interminabili, ma con la consapevolezza che “American Football” (LP1) è un disco che non può essere diverso da com’è: una realizzazione insieme meravigliosa e terrificante. Dato che, a quanto pare, gli American Football rimarranno l’output principale di Mike Kinsella, ora possiamo solo aspettare un nuovo album che non sia frutto dell’impazienza un po’ seccata per una sovraesposizione “postuma”, ma di un’ispirazione autentica, che magari faccia ritrovare il coraggio degli esordi.
Foto di Cesare Pezzoni