Esordire con un nome ingombrante può sembrare un modo per attirare l'attenzione, ma può anche diventare un'arma a doppio taglio se non vi si tiene fede, alimentandone volta per volta il significato attraverso la propria musica. Per la band del Connecticut il mondo rimane un posto stupendo, e la paura di morire si è ormai dissolta tra le nostalgiche note del coming-of-age “Whenever, If Ever” e nel maestoso detour poetico di “Between Bodies”; e la generosità con cui, anche quest'anno, ci consegnano un nuovo album in studio – sinora il più longevo, preceduto dal 7 pollici “Death To New Years” – serve a fugare ogni sospetto sull'urgenza e sulla sincerità della loro proposta, nonché a confermarli (ora possiamo dirlo) come una delle certezze assolute nel nuovo e costantemente mutevole panorama emo. A maggior ragione, dato che stavolta a produrli è la storica etichetta Epitaph, con alle spalle quasi trent'anni di scouting in ambito punk-rock.
We have the same thoughts clouding our heads. Formless shapes in the darkness. We are as harmless as the thoughts in our heads. […] And we think that the world is alright, and that's a lie.
La semplicità della solitaria introduzione in arpeggio è il più limpido riflesso di quella “innocuità” che intitola il disco, o meglio il senso di inadeguatezza che persiste anche in una fase (artistica e di vita) dove i cambiamenti si fanno sempre più sensibili. C'è un'inedita, straziante lucidità in episodi come “Haircuts For Everybody”, capitolo conclusivo di una relazione sofferta (We spent the last twenty-three minutes hallucinating over the phone. I kept both my hands still while we saw the same building explode); ma sempre coesistono umori contrastanti, slanci di accettazione e di ritrovata fiducia, arrivando ad auto-citarsi dall'inno centrale di “Between Bodies” (When we get home, we won’t be empty/ We found a purpose in each other/ Break the mirror, we get younger/ Life will always be weird – “The Word Lisa”).
Va inoltre lodato l'impegno con cui i TWIABP rimettono in discussione e fanno evolvere il loro stile, integrando sempre più decisamente quell'anima post-rock che caratterizzò il sodalizio coi testi di Christopher Zizzamia. La sempre maggior cura negli arrangiamenti – con la riconferma del violino e l'occasionale comparsata di un banjo (nella ballad “Mental Health”) – va di pari passo con la densità dei testi, carichi di simbolismi e rabbiose spinte oltre gli stretti recinti dell'adolescenza.
Dapprima l'intensa pagina di “January 10th, 2014”, e infine gli ultimi due lunghi brani (col massimo apice espressivo nel crescendo di “I Can Be Afraid Of Anything”) sono saggi inequivocabili di un pop-punk diventato anch'esso, finalmente, adulto – a tal punto da voler farsi carico degli errori altrui in virtù di una definitiva presa di coscienza.
We set out to make up all the mistakes of our parents and their friends. We set up a safety net, but it was above our heads. (“We Need More Skulls”)
Tutto questo fa di “Harmlessness” la loro prova meno immediata, che si svela poco a poco nella varietà delle sue scelte stilistiche e nella necessaria convivenza tra le sue anime, come i saliscendi emotivi di un diario segreto che in qualche modo ritrova sempre l'equilibrio – che è poi la vita – giorno dopo giorno. Un equilibrio che, alla fin fine, non può che dipendere da noi stessi. Make evil afraid of evil’s shadow.
28/09/2015