I'm standing on the precipice.
It's a cliff that I've prayed on before.
I've often thought that this maw was the end of everything,
a darkness that consumed all,
a black hole.
We,
you and I,
all of us,
we are supernovas or stars
set to soon collide
either way,
we'll explode.
With this in mind
I reconsider the precipice,
there is something beautiful in its blackness,
in its persistence in swallowing us.
Guardare il precipizio e riuscire a scorgervi un barlume di bellezza. Così la band di Boston decide di ridare un senso profondo al fluviale nome che la identifica e al genere cui fa capo. Giunti all'attenzione del pubblico internazionale solo un anno fa con “Whenever, If Ever”, i The World Is A Beautiful Place & I Am No Longer Afraid To Die giocano qui a carte del tutto scoperte: “Between Bodies” origina dal sodalizio col poeta Christopher Zizzamia, e infatti il titolo fa parte di una citazione in epigrafe a un suo componimento (“The distance between bodies can't be measured in miles” – Mitchell Howard Dubey); l'intero concept è basato su tali poesie, scritte nello stile libero di Walt Whitman e altrettanto liberamente rivedute, ampliate e recitate dallo stesso.
Un album breve di stampo narrativo dove la concordanza tra i testi – declamati con notevole trasporto emotivo – e un impianto strumentale perlopiù d'atmosfera ha il potere di evocare scenari e sensazioni non soltanto palpabili, ma a tratti addirittura devastanti. Un verso dopo l'altro si incrociano riflessioni sul senso di inadeguatezza, su ciò che ci separa gli uni dagli altri e su quel che ci aspetta oltre l'incognita della morte, ma da premesse dolorose si giunge sempre a confortanti accenni di speranza – in definitiva, il primitivo auspicio che ciò che si crea non si distrugga mai veramente (“No one is infinite, everyone is immortal”).
Come nel montaggio alternato di un mediometraggio senza immagini, con spontanea disinvoltura si passa da vedute cosmiche post-rock (“Blank #8”, “Lioness”) al calore umano di chitarre acustiche costellate di singoli rintocchi in riverbero (“$100 Tip”); e come nel più immediato esordio in full-length, l'accompagnamento non manca di impreziosirsi con le sfumature soavi del violoncello e della tromba (“If And When I Die”), mentre il synth di Katie Shanholtzer-Dvorak tratteggia melodie naif che ancora una volta richiamano la toccante semplicità dei redivivi American Football.
You cannot defeat the darkness, you can only be the light”, fuck that! At the core of night I couldn't imagine anything I'd like less than to be the light […] I liked you like I liked the dark. Why would I aim to defeat it?
Accettare e trovare conforto nell'oscurità come parte della propria esistenza e “pregare forte, quando si prega”, ancorandosi con tutte le forze ai propri affetti (“When we get old we won't be empty, so thanks for your years”). “Between Bodies” è di per sé l'ulteriore manifesto di una poetica che solo a un orecchio totalmente distaccato da cuore e cervello può apparire macchiettistica. Quest'anno, in coppia col secondo gioiello degli Hotelier, stiamo riscoprendo il sapore di una letteratura dell'anima che sconfina dall'ambito musicale per parlarci più da vicino, per condividere le stesse insicurezze ma anche la stessa insopprimibile gioia, il medesimo disperato desiderio di salvezza.
Let us hope
that the duct tape holds, and my misguided science
and memories of your smile
can lead me to a world where you still illuminate the days
01/11/2014