Come bissare un picco d’ispirazione che, dopo anni di prove incerte, aveva finalmente riportato il suo fautore ai livelli che gli competono? Semplice: pubblicando un seguito dopo neanche quattro mesi e permettendosi di non spostare di un millimetro le coordinate musicali del predecessore, se l’artista in questione si chiama Phil Elverum.
Data poi la caratura del genio di Anacortes, quasi non sorprende che, pur con queste premesse, il qui presente “Ocean Roar” possa considerarsi riuscito pressoché quanto l’antecedente “Clear Moon”.
Da quest’ultimo, la nuova fatica a nome Mount Eerie non solo rifiuta di prendere le distanze ma, se possibile, eleva all’ennesima potenza lo spleen. L’io narrante appare messo al muro già dai primi minuti della claustrofobica "Pale Lights", dove assalti di feedback e droni tastieristici vengono interrotti solo per permettere a Elverum di sussurrare un’unica strofa in un silenzio desolante.
E’ l’unico tentativo di far emergere un briciolo di emotività umana in un viaggio senza ritorno in cui regna incontrastato il caos. Anche l’abbraccio dream-pop della title track assume una connotazione beffarda in un contesto che lo rende nient’altro che un bagliore passeggero: la sublime impalcatura halsteadiana è un espediente che enfatizza il fluttuare di una mente priva di punti di riferimento (“Lost in thought/ The mind wandering again/ Drifting west over the hills/ Pulled ou to sea”).
Il naturale prosieguo è una “Instrumental” che divide idealmente l’album a metà, con lo sfogo disperato di un’identità intrappolata nella wasteland dei suoi pensieri. Fra le impenetrabili nubi rumoristiche che avvolgono il cuore del disco c’è spazio per scorgere l’ennesimo dazio pagato dal Nostro ai Popol Vuh, stavolta apertamente con una “Engel Der Luft” stuprata da chitarre laceranti, sintomo di quell’interesse per il black metal che Elverum non ha mai nascosto.
L’arte compositiva del fuoriclasse si manifesta successivamente in “I Walked Home Beholding”, ultima, straziante testimonianza di vita con tanto di schiocchi di dita a scandire l’imminente compiersi di un destino ineluttabile. La voce suona tristemente impassibile, rassegnata a raccontare un mondo osservato dall’orlo del precipizio prima di tuffarsi definitivamente nei ruggiti oceanici della strumentale conclusiva; è l’ultima tappa di un viaggio senza ritorno negli abissi della psiche, permeato di uno sconvolgente sguardo nichilista nella totalità del suo svolgimento.
Leggermente inferiore a “Clear Moon”, col quale inevitabilmente si rapporta per la continuità del discorso narrativo e la riproposizione di alcune soluzioni, “Ocean Roar” ne costituisce comunque una più che degna prosecuzione: la credibilità con cui Elverum mette in musica drammi psicologici è filo conduttore di un’altra opera straordinariamente intensa in cui non è difficile riconoscere nelle macerie della mente che qui si racconta, quelle a cui sembra essere ridotto il mondo ostile che la ospita.
22/10/2012