Alla luce del lutto coniugale e del recente secondo matrimonio (benché già concluso), “Lost Wisdom” si rivela oggi ancor più peculiare entro il percorso cantautorale di Phil Elverum: nel 2008 usciva infatti l’unico album in cui la sua voce si raddoppiava in quella di Julie Doiron, mettendo così da parte un’espressione sino ad allora quasi del tutto solitaria. Nemmeno mezz’ora di musica, eppure in quelle dieci tracce trovavano posto rari barlumi di romantica spensieratezza, ma anche oscuri presagi di morte (What do I want with my life now that you're gone? I want your ghost gone), addolciti dal fragile timbro di colei che Elverum indicò come una sorta di eroina musicale e addirittura l’ispirazione primaria per l’avvio della propria carriera artistica.
Allenato a cantare la solitudine nel corso di tutta una vita, Phil si è poi trovato a riviverla nella più ardua delle circostanze. Forse non è dunque casuale che, dopo due album “fluviali” e introspettivi come “A Crow Looked At Me” e “Now Only”, il pioniere del lo-fi indie sia tornato a contemplare un duetto, come a condividere un fardello troppo gravoso e, un passo alla volta, allentare la sua soffocante morsa.
When I was younger and didn’t know
I used to walk around basically begging the sky
For some calamity to challenge my foundation
When I was young
So imagine what it was like to watch up close a loved one die
And then look into the pit
I lived on the edge of it
And had to stay there
(“Belief”)
Ogni saggezza è vanificata dall’azione sviante del destino: potrebbe essere questo il senso complessivo di “Lost Wisdom pt. 2”, ma nonostante il persistente gravame della propria condizione esistenziale, Elverum riesce finalmente a far entrare un po’ d’aria tra i versi di queste otto canzoni, che conservano la forma libera e la cadenza discorsiva degli ultimi “diari” domestici.
Nella seconda traccia è descritta vividamente l’impressione per cui all’uscita da un museo, scrollata di dosso la polvere dei secoli, ogni cosa sembra d’un tratto animarsi e risplendere di luce. In fondo, senza Geneviève, anche il focolare domestico è divenuto una sorta di museo della memoria tra le mura del quale Phil era rimasto intrappolato: tornare a mettere il naso fuori, a cercare complicità umana e artistica è un segno di progressivo miglioramento, per quanto ancora segnato dalla più cruda disillusione.
Even if I never get to see you again
I’ll know that when we collided
We both broke each other open
Rose petals were blustering
And I’m determined still to hold this open door
Even now as it devastates
I wake up gasping in the void again
(“Love Without Possession”)
È già difficile mantenere la compostezza emotiva nell’ascoltare il dolce controcanto di “Love Without Possession”, ma l’ingresso gentile di un organetto e di una batteria suonano come la prima-vera nota di sollievo dopo la stoica introspezione dei resoconti precedenti. In questa mezz’ora non riescono a prevalere nemmeno le sporadiche distorsioni della chitarra, ridotte a un mormorìo in secondo piano, tranne che nell’esplosione quasi trionfale di “Widows” – prossima ai Neutral Milk Hotel più corali – altrimenti l’ennesima, amara presa di coscienza di un quadro familiare incompleto, l’assurdità di crescere una figlia senza le cure e la sensibilità di una madre.
Torna a esserci sottotesto, e dunque poesia, nella scrittura post-traumatica di Elverum, al punto da far apparire questa iterazione del duetto con Julie Doiron più densa di quanto in definitiva non sia. È un respiro profondo, questo sì, e ascoltare “Lost Wisdom pt. 2” non provoca più il tuffo al cuore cui ci eravamo abituati sino all’intenso live “(after)”. Testimonia lo stesso Phil: “Abbiamo registrato con le porte spalancate e tra i respiri si sentono gli uccelli, martelli pneumatici in lontananza, e in alcune canzoni l'aria notturna.”
Forse nessun album sarà mai quello della definitiva guarigione, poiché non sembra esserci cura per la profonda malinconia che permea la visione del mondo di Elverum. Ma ciò non significa che manchi una qualche forma di consolazione, finanche occasionale e transitoria: e quella consolazione continua a essere la scrittura, il canto che reca memoria di quel che si è perso; il potere della parola che ogni volta fa rivivere ciò che è svanito – e con esso una fioca, imperitura speranza.
12/11/2019