È attorno alle persone che vivono un lutto particolarmente importante che si fa presente la solidarietà di tutti, benché ciò avvenga con un misto di sincera compassione e di imbarazzo. Sono casi nei quali ci si muove in punta di piedi, con premura e deferenza, per paura di addolorare ulteriormente chi sta soffrendo e anzi sperando, nel nostro piccolo, di poter contribuire al rinasamento della ferita.
Così è successo lo scorso anno, e sembra oggi ripetersi, nei confronti di Phil Elverum e della sua autoanalisi in musica, tanto dolente quanto lucida nella progressiva accettazione della sopraggiunta vedovanza. Inutile sottolineare lo sforzo titanico necessario non soltanto al superamento del trauma, ma alla sua immediata elaborazione per mezzo di un songwriting da sempre massimamente schietto, nella dolcezza come nella brutalità.
Mentre pubblico e critica si stringono idealmente attorno a Phil esprimendo giudizi iperbolici sul suo coraggio e la qualità (per alcuni “ritrovata” solo ora) della sua scrittura, con ogni probabilità egli sta soltanto cercando di tenere impegnati la mente e il cuore, costantemente rivolti alla sua amata estinta, ricordando nell’impossibilità di rivivere. “It’s not for singing about, or making into art”, intonava mesi addietro lo stesso Phil, che ora lascia in giro per casa fotografie di Geneviève per sorprendersi da solo, per sfogare a ogni occasione la propria disperazione e in questo modo, come per mezzo delle canzoni, esorcizzarla.
Occorre aggiungere che questa stessa recensione risponde più a un dovere di cronaca che alla volontà di apporre un giudizio (men che meno numerico) a una produzione che, in un certo senso, non appare del tutto in continuità con la carriera artistica pregressa, né con l’idea di “album” inteso come progetto ponderato e a sé stante. È qualcosa di più simile (ma con esiti tutt’altro che ridicoli) al recente “sfogo” diaristico di Mark Kozelek, frutto di consapevolezze e conclusioni differenti in merito a ciò che un musicista dovrebbe riversare nel mondo.
When I address you, who am I talking to?
Standing in the front yard like an open wound
Repeating “I love you”, to who?
(“Tintin In Tibet”)
Le domande che non hanno trovato risposta nell’ultimo anno sono come risospinte a riva, e non appena vengono poste si disperdono come ceneri al vento. Ora le canzoni di Phil sono istantanee passate e presenti, di una vita che appare lontanissima e di un’altra completamente diversa, che si trascina a fatica inciampando a ogni passo nella nostalgia. E quella minacciosa “Distortion” elettrica che solcava molte tracce di Mount Eerie assume ora un significato universale: la deformazione di un intero percorso di vita privata, sino a poco fa attraversato da un sentimento di morte molto più astratto e distante.
Anche qui l’arpeggiare delicato e costante della chitarra è solo a tratti arricchito da coloriture di tastiera o leggeri ritmi di batteria, così da confermare il predominante desiderio di isolamento e solitudine spirituale. Permane nella voce di Phil un tono tipicamente statico, come un mantra ripetuto a se stesso: fa eccezione l’attacco violento di “Earth”, ritrattato quasi subito e ripreso solo a metà traccia, ma ancor di più sorprende la relativa leggerezza del giro di accordi che rimarca come ogni giorno “People get cancer and die/ People get hit by trucks and die/ People just living their lives/ Get erased for no reason with the rest of us watching from the side” – una sorta di momentanea, tragicomica rivelazione zen.
In un esercizio crossmediale ricorrente in letteratura come in musica, il brano più lungo della tracklist si trasforma nella dettagliata disamina di due opere pittoriche del norvegese Nikolai Astrup (1880-1928), riscoperto solo in tempi recenti e i cui paesaggi sono stati descritti dal Guardian come “eerie and sublime”: illuminati dallo sfondo di un computer, il quadro e le figure che animano il suo “Midsummer Eve Bonfire” (“Priseld”, circa 1915) fanno risuonare la loro voce nella mente di Phil; l’eco della ragazza in primo piano, malinconica e forse in gravidanza, ne risveglia con forza la coscienza, invitandolo a guardare a quei fuochi estivi come a un monito sull’eterno rigenerarsi della materia.
And just like me she looked across at the fires from far away
And wanted something in their light to say:
'Live your life, and if you don't
The ground is definitely ready at any moment to open up again
To swallow you back in
To digest you back into something useful for somebody'
C’è ancora tempo, anche in vita, per divenire "qualcosa di utile per qualcun altro": ogni scoramento riconduce al pensiero della bambina che Geneviève gli ha dovuto affidare anzitempo, sapendo che persino nella notte più buia l’amore paterno di Phil non avrebbe mai potuto soccombere.
Poco o nulla importa se in fin dei conti, ferma restando la rinnovata commozione, quelle degli ultimi due album non sono – almeno per chi scrive – le canzoni migliori a nome Mount Eerie. Quand’anche la sorgente della loro ispirazione fosse la più pura cui abbia attinto sinora, Phil non risulta essere nel pieno delle sue facoltà espressive: agisce d’istinto per lasciare a se stesso un segno di questo calvario in vista del suo necessario superamento, approdo dall’alto del quale potrà finalmente ricordare soltanto l’essenza più luminosa di ciò che è stato. Ma nel mentre della sofferta transizione, con ogni probabilità, la nostra accondiscendenza non gli sarà granché d’aiuto. Esiste solo l’attimo presente, in tutta la sua gravosa e ineludibile complessità.
This is what my life feels like now
Like I got abruptly dropped off by the side of the road
In the middle of a long horrible ride
In a hot van that was too full of confident chattering dudes
And the sound of tires receding
Taking in the night air I say
“Now only”.
Nel collage di fotografie, cartoline, ritagli di riviste e magneti in copertina, questa volta è riportata una citazione tratta dalla sezione 48 del lungo poema “Song Of Myself” di Walt Whitman, contenuto in “Leaves Of Grass” (Foglie d’erba, 1855): “Let your mindstream/ stand cool and composed/ before a million universes”.
16/03/2018