Violent Femmes

Violent Femmes

I padrini del folk-punk

Milwaukee, 1980: tre busker insolenti e strampalati decidono di formare un gruppo e di suonare per le strade della propria città. L’umiltà di suonare il country, il folk con strumenti volutamente approssimativi diventa la chiave per mettere un nuovo tassello sonoro alla parola punk. Nasce così la saga di una delle più gloriose band di culto della storia del rock...

di Mauro Vecchio

Ho bisogno di qualcuno. Una persona con cui parlare. Qualcuno a cui importi amare. Potresti essere tu? Potresti essere tu?
(Gordon Gano)

La loro musica è fantastica, ma le parole sono d’intralcio
(Ornette Coleman)


Intro

Nuova frustrazione americana

Alba degli anni Ottanta. Mentre Sting dichiara apertamente che "il rock è morto", apre i battenti un certo canale televisivo musicale chiamato Mtv. L’edonismo diventa stile di vita e il predominio dell’immagine inizia a divulgarsi a colpi di pettine e lacca. Nuovi fenomeni musicali come l’hip-hop e il rap dilagano per le radio, progressivamente scalzate da mirate trasmissioni televisive nella missione di promuovere la musica.
Sting, tuttavia, esagera nella sua profezia, perché il rock non muore affatto. Dopotutto Jon Landau sapeva bene cosa voleva dire con quel "Stasera ho visto il futuro del rock and roll: si chiama Bruce Springsteen". In realtà il rock inizia un percorso di progressiva fusione con un pop che ricorda sempre meno la lezione innovativa dei Beatles e sempre più la lotteria discografica di "Thriller". Imponenti strategie di marketing costruiscono (auto)strade ben definite nelle carriere musicali di decine e decine di band. Le pose sexy di Simon Le Bon trasformano, per esempio, l’easy-rock romantico dei Duran Duran in un successo planetario.

Eppure, ogni fenomeno ha un suo lato oscuro. Allora bisogna lasciare la furbizia estrema di Quincy Jones e le ricchissime produzioni video per far capolino in mondi molto più piccoli, come i college della provincia americana. E' qui la storia degli anni Ottanta passa attraverso le scelte musicali di migliaia di studenti arrabbiati, emarginati che scuotono la testa e il cuore su accordi punk e post-punk. Un manipolo di band underground si rifiuta di seguire una via maestra, evitando di stabilizzarsi all’interno di un genere specifico. Alla faccia di Sting.

Basta spostarsi nella città più grande del Wisconsin, Milwaukee.
Per le strade, nei caffè, tre ragazzi scapestrati si divertono a giocare con le mode del tempo, trasformandole in qualcosa di proprio, di unico. Una maniera talmente conservatrice di rivedere le più antiche tradizioni musicali americane, da risultare, alla fine, tremendamente rivoluzionaria e innovativa.
L’umiltà di suonare il country, il folk con strumenti volutamente approssimativi diventa, così, la chiave per mettere un nuovo tassello sonoro alla parola punk.
Tre ragazzi poco più che ventenni hanno la giusta dose di rabbia e frustrazione per dare voce, con povertà acustica e devianza elettrica, ai disagi post-adolescenziali della propria generazione.
Vecchie, nuove patologie di provincia trovano, così, il giusto, psicotico sfogo sonoro in barba alle ragazzine innamorate di Le Bon.
Signore e signori, i Violent Femmes.

Tre busker insolenti

Milwaukee, Wisconsin. Nel 1980, Brian Ritchie e Victor DeLorenzo decidono di formare un gruppo.
Ritchie, polistrumentista influenzato dal virtuosismo eclettico di Jaco Pastorius, suona un basso dall’andamento vibrante, quasi mariachi.
De Lorenzo - origini siciliane - si accontenta, invece, di giocare con due semplici spazzole e un secchio.
Passa un anno e il duo diventa trio. Figlio di un predicatore battista, Gordon Gano è poco più di un chitarrista dilettante con aspirazioni da songwriter. Innamorato della poesia decadente e nichilista di Lou Reed e dell’eccentricità bizzarra di Jonathan Richman, Gano muta rapidamente il perno attorno al quale gira la band e diventa, di fatto, la mente e il cuore dei neonati Violent Femmes.

Lo strambo nome (in molti sostengono proveniente da una marca di assorbenti) viene preso da un’espressione slang di Milwaukee, che indica i travestiti che si prostituiscono per le strade. E non vi potrebbe essere nome più azzeccato perché i tre ventenni suonano soprattutto negli angoli delle strade o nelle coffee-house della città. Come, d’altronde, la loro stessa musica, che attinge dalla tradizione folk americana rigorosamente acustica, volutamente artigianale, diretta e approssimativa.
Musicisti da strada per musica da strada. Fino al 23 agosto del 1981. Un giorno solo apparentemente uguale a tutti gli altri.

I Violent Femmes stanno suonando in un angolo davanti all’Oriental Theatre dove, di lì a poche ore, si esibiranno i Pretenders.
Il chitarrista della band inglese, James Honeyman-Scott, si trova per caso a passare per quell’angolo e rimane folgorato dal talento spartano dei tre. Chrissie Hynde invita, così, il gruppo ad aprire, con un breve set acustico, la successiva data a New York. Ed è soltanto l’inizio della favola, perché, nella Grande Mela, il pubblico reagisce entusiasta.
Passano alcune settimane e quelli che fino a pochissimo tempo prima erano busker insolenti e strampalati diventano una band vera e propria, con un contratto discografico per una delle etichette più attive in campo new wave, la Slash Records.

Confessioni e Ragazze nere: nascita di un cult underground

Nel luglio del 1982, i Violent Femmes si chiudono nei Castle Studios della piccola città di Lake Geneva, Wisconsin, per registrare, insieme al produttore Mark Van Hecke, il loro omonimo disco di debutto.
Dieci canzoni per poco più di quaranta minuti di musica che, tuttavia, provocheranno uno scossone fortissimo nel panorama underground americano.

In realtà, la maggior parte dei brani di Violent Femmes (Slash Records, 1982) sono stati già scritti da Gano mentre era al liceo a Milwaukee. L’ironia melodrammatica che traspare dai suoi testi sembra baciare in modo perfetto i tipici sentimenti post-adolescenziali. Le parole dell’album diventano, così, un coacervo di emozioni contraddittorie più che condivisibili: dal desiderio di accettazione all’odio verso il conformismo, dalla voglia di spensieratezza al senso di rabbia e ribellione. L’angoscia nichilista degli adorati Velvet Underground viene portata in una dimensione più popolare e quotidiana. Se Lou Reed aspetta il "suo uomo" sulla Lexington, Gordon Gano implora il padre di "dargli la macchina" perché ha una ragazza tra le mani e non vede l’ora di provare a farsela. Una specie di trattato poco ortodosso e molto semplicistico di psicologia giovanile tra delusioni d’amore e pianti ininterrotti. Un gusto schizoide e nevrotico che si riflette nella musica stessa, che filtra la lezione contemporanea della new wave dei Talking Heads e gli incubi del post-punk più dark dei Joy Division.
Ma non a caso molti parleranno anche di "folk-punk", perché Violent Femmes stravolge, di fatto, l’universo del cosiddetto "folk revival". Il disco, infatti, sembra voler resuscitare una tradizione musicale che torna indietro ai canti degli Appalacchi, reinventandola con un approccio noncurante di qualsiasi regola e schema. Un po’ come prendere Woody Guthrie e pagargli un biglietto per andare a vedere i Sex Pistols.
I tre hanno la giusta dose di brio e di insensatezza lirico-musicale per creare memorabili filastrocche e irresistibili scenette adolescenziali, come nel country-sussurri e grida di "Blister In The Sun" o nello xilophono scheletrico della surreale marcia "Gone Daddy Gone".
L’album è un continuo alternarsi di luci ed ombre. Da una parte, la corale melodia pop di "Please Do Not Go" e il violino nostalgico di "Good Feeling", ballata strappalacrime che potrebbe tranquillamente esser spacciata come frutto nascosto delle session di "Loaded". Dall’altra, canzoni più aspre e viziose, come la deriva isterica di "To The Kill" o la cupa disperazione in crescendo di "Confessions".
"Add It Up", per esempio, racchiude il canto balbuziente e nevrotico di Gano in una struttura sonora quantomai sgangherata, prima di esplodere in un blues macchiato di gospel. L’apparentemente ironica tensione del disco trova, infine, sfogo nell’inno "Kiss Off", un rhythm and blues impazzito che sale progressivamente fino al conto disilluso da uno a dieci. Il messaggio diventa, di colpo, elementare, privo di qualsiasi ambizione intellettuale: "Dieci…dieci…dieci…per Tutto! Tutto! Tutto!".

Violent Femmes viene pubblicato alla fine di novembre e, con gli anni, diventerà uno dei più acclamati album di debutto della storia del rock.
Non raggiungerà mai una massiccia fama, ma potrà vantare uno strano record: ricevere il disco di platino dieci anni dopo la sua uscita nei negozi.

All’inizio del 1984, i Violent Femmes si trasferiscono a New York per registrare, ancora con Mark Van Hecke, il loro secondo album.
Come per Violent Femmes, i brani vengono sviluppati su una base lirica già composta dal Gano studente liceale. Questa volta, tuttavia, non va tutto liscio. Nonostante la religiosità emergente dal nuovo materiale appaia in un certo senso sarcastica, Gano è un cristiano devoto. Ritchie e DeLorenzo, atei convinti, inizialmente si rifiutano di registrare i pezzi, arrendendosi soltanto in un secondo momento.
Sarcasmo o non sarcasmo, in Hallowed Ground (Slash Records, 1984) la poetica lunare e visionaria del chitarrista rimane sì ancorata alle sottili follie e patologie di provincia, ma viene indubbiamente arricchita da ossessioni religiose e da una maggiore ricerca spirituale. E se Gano cerca profondità maggiore nei suoi testi, tutto il trio di Milwaukee allarga la formula strumentale con preziosi contributi esterni. Nascono, così, i cosiddetti Horns of Dilemma, che comprendono, tra gli altri, Tony Trisckha al banjo e un certo John Zorn al sax. Con questo nuovo calderone sonoro i Femmes costruiscono, sulla precedente struttura acustica, volte elettriche tra blues, gospel e rock metropolitano trasportato ancora nel popolino tanto caro a Gano.
Il disco, più serio del precedente, accelera il viaggio nella musica americana delle radici, ma, allo stesso tempo, la lucida follia del gruppo che riesce a confezionare, ancora una volta, un sound diverso da tutto quanto si sente in giro. "Country Death Song", per esempio, si snoda su un incalzante andamento country per raccontare una crudele storia di morte del 1862. La tradizione degli Appalacchi, tuttavia, viene stravolta dal basso pulsante di Ritchie e dall’inserimento del magistrale banjo schizoide di Trisckha. La vena cupa di Violent Femmes prende, qui, una strada più decisa. La breve "I Hear The Rain" ipnotizza con un canto tra il gospel e il dark, così come "Never Tell" affila le unghie con taglienti cambi di ritmo punk. Climax oscuro, poi, la convulsione à-la Patti Smith Group della title track.
La nuova dimensione spiritual-popolare trova sfogo nello scatenato country-western "Jesus Walking On The Water" che, su un coro doo-wop, fa il verso a certe marce da Esercito della Salvezza. I Violent Femmes non dimenticano la ballata melodica: "I Know It’s True, But I’m Sorry To Say" si appoggia sul canto strappalacrime di Gano e sul tappeto d’organo di Van Hecke.
Lou Reed non smette di influenzare il chitarrista: la stralunata "Sweet Misery Blues" sembra uscita direttamente da "Transformer". Mentre "It’s Gonna Rain" barcolla su un’armonica blues, il disco raggiunge il suo vertice sonoro nella follia collettiva di "Black Girls". Jug, rockabilly, samba, music-hall sono i tasselli sonori di una sorta di blues cubista in odore di free-jazz, grazie all’apporto fondamentale del sax acido e brontolante di John Zorn. "Black Girls" è la dimostrazione pulsante che i tre musicisti da strada sono ormai diventati, violentando senza regole i propri strumenti, un vero e proprio cult underground.

Cuori infranti: Il cieco, l’uomo nudo e lo scioglimento

Nel 1986, i Violent Femmes danno alle stampe il terzo disco, The Blind Leading The Naked (Slash Records, 1986). Mark Van Hecke ha abbandonato il gruppo e, così, in cabina di regia, viene convocato il Talking Head Jerry Harrison.
Il trio di Milwaukee non rinuncia alla formula strumentale extra-large sperimentata con Hallowed Ground, e gli Horns of Dilemma cambiano formazione. Oltre allo stesso Harrison, i sax di Steve MacKay (ex-Stooges) e Peter Balestrieri, le chitarre di Fred Frith e Leo Kottke. Session-men di lusso per un album che cerca di completare il mosaico schizoide del loro originale sound, in bilico costante tra tradizione folk e anarchia strumentale.
Gano continua con le sue ossessioni tra sesso e castità sulla scia del gospel, del blues e del country di provincia. Tuttavia non ci sono più xilophoni isterici né canti spettrali per un lavoro che suona, nel suo complesso, più addomesticato. Certo, la fantasia dei tre corre ancora a briglie sciolte. La sarabanda caotica di "Old Mother Reagan" fa da intro al nervoso, intrigante gospel-rock di "No Killing". Il country-western continua a galoppare con "Breakin’ Hearts", anche se sembra la sorella minore di "Jesus Walking On The Water".
I Violent Femmes tornano addirittura al punk acustico del primo disco con il riff abrasivo e irriverente di "Special". Così come la vena oscura si riaffaccia con la tragica ballata gotica "Candlelight Song" e la marcia scanzonata rivive nella tribale "Cold Canyon". Ma la seconda anima di The Blind Leading The Naked, per quanto brillante, sembra aver perso la lucida follia surrealista. Il disco, così, china leggermente il capo verso un suono più rispettoso dei generi. "Faith" cammina sul sentiero più battuto del blues corale: non fallisce per piglio, ma sembra uscito dalla House of Blues di Belushi e compagni. "Love And Make Three" fa il verso al boogie dei Rolling Stones, mentre "I Held Her In My Arms" ricama sulla tipica sezione fiati della E-Street Band.
Che il disco sia meno ispirato dei precedenti lo dimostra anche il modo in cui Gano rivisita il caro Lou Reed. Mentre "Sweet Misery Blues" riprendeva con eccentricità la lezione di "Transformer", "Good Friend" ricalca uno dei suoi giri di chitarra più banali. Infine, la cover in salsa funk della "Children Of The Revolution" dei T-Rex che regala sì al gruppo una piccola hit da classifica, ma che parla un linguaggio sonoro molto meno cubista.

The Blind Leading The Naked mette in mostra i dissapori che, ormai, serpeggiano in seno ai Violent Femmes. Dopo la registrazione e pubblicazione dell’album, le divergenze artistiche e personali tra Gordon Gano e Brian Ritchie diventano insanabili. Mentre il chitarrista pensa a un progetto di gospel a nome Mercy Seat, il bassista ha sempre più voglia di sperimentare il suo eclettismo strumentale verso un jazz d’avanguardia. Le due menti del gruppo decidono, così, di sciogliere il sodalizio per tentare avventure musicali personali.

Ritorno alle origini

Alla fine del 1988, soddisfatti i rispetti ego artistici, Gano e Ritchie decidono di richiamare DeLorenzo per rimettere in piedi i Violent Femmes. Il ritrovato trio torna, così, in studio e pubblica un nuovo album all’alba del 1989.
Le critiche che, nel frattempo, sono piovute su The Blind Leading The Naked convincono la band a stringere le precedenti architetture sonore, rinunciando agli Horns of Dilemma con l’eccezione di Balestrieri al sax e Sigmund Snopek III alle tastiere. L’idea è quella di considerare il nuovo album come l’effettivo terzo capitolo della loro saga musicale, cercando di dare nuova linfa al vecchio, approssimativo approccio chitarra-basso-batteria.
3 (Slash Records, 1989) tenta, quindi, una sorta di ritorno alle origini, per un sound che suoni più classico e proprio della band di Milwaukee. E, in parte, ci riesce.
"Dating Days" e "Fat" ritornano alla tradizione folk rivisitata con ironia divertita, senza particolari abbellimenti pop. I brani più brevi del disco si rivelano i migliori come lo scherzo di "Telephone Book" e la spensieratezza in crescendo di "Lies".
E’ vero, tuttavia, che, nonostante le intenzioni dei tre, il mutamento educato del disco precedente non riesce a essere cancellato tanto facilmente. Alla fine, l’effetto-sorpresa dei primi due album è svanito, e alle femmine di Milwaukee restano canzoni brillanti che non riescono a scrollarsi di dosso una maggiore pulizia sonora. Ancora una volta il rock and roll di "Nightmares" sembra uscito dalla penna di un Lou Reed in giacca e cravatta, mentre il boogie marca Stones diventa ancora più fragoroso e selvaggio in "Fool In The Full Moon". Gano cerca, in tutto questo, di aprire nuove strade con "World We’re Living In", in bilico tra funk e musica caraibica, ma finisce per convincere di più con la classica ballata accorata di "Nothing Worth Living For".

Nel 1990, per celebrare i dieci anni di vita del gruppo, esce la compilation Debacle: The First Decade (Slash Records, 1990), troppo striminzita, tuttavia, per capire il loro percorso sonoro.

Dopo la firma per la RepriSe Records, i Violent Femmes continuano con la ricerca di un sound acustico più spartano che torni idealmente agli inizi della loro carriera.
Why Do Birds Sing? (Reprise Records, 1991), affidato all’esperta produzione di Michael Beinhorn, si presenta, quindi, come il secondo tentativo della band dopo il non del tutto convincente 3. Se, tuttavia, l’album precedente veniva illuminato da sprazzi di luce creativa, il nuovo lavoro di Gano e soci non riesce quasi mai a decollare. L’eccentricità si fa più banale e scontata. La vecchia, cara etica punk viene smorzata da un’estetica pop gradevole quanto innocua.
Non che manchino impegno e volontà: il gusto fifties di "Look Like That" e lo scatenato rockabilly acustico di "Girl Trouble" sembrano usciti direttamente dalle session di Violent Femmes. Sono, tuttavia, brani ripuliti, molto più educati e i vestiti un tempo rozzi e sporchi ora sono lucidati per bene come quando parte l’inaspettata cover di "Do You Really Want To Hurt Me?" dei Culture Club. Il trio, al di là di tutto, riesce ancora a essere irresistibile come nel country di "Hey Nonny Nonny" o, comunque, a provare nuovi percorsi sonori come nel blues in salsa caraibica "Flamingo Baby".
Per il resto, "Why do birds sing?" è un disco decisamente incolore come nel pop di "Used To Be" o nel rock and roll elementare di "He Likes Me". Il singolo "American Music", tuttavia, arriva al numero due della classifica di Billboard e tira le vendite dell’album, che rimarrà uno dei più popolari nella discografia della band.

Tempi Nuovi

Agli inizi degli anni 90, le tre femmine di Milwaukee sono, ormai, avviate a carriere soliste indipendenti, pur mantenendo in vita la band.
Gordon Gano cerca di soddisfare la sua vena di compositore "serio", lavorando sulle musiche di una piece dello scrittore dada Walter Mehring e buttandosi su vari musical. Brian Ritchie sfoggia sempre più il suo eclettismo in album solisti come "I See A Noise". Victor DeLorenzo gioca tra teatro e musica con "Peter Corey Sent Me". Ed è lo stesso batterista che, nel 1993, decide di lasciare i Violent Femmes per dedicarsi a progetti musicali propri oltre che al cinema.

L’equilibrio faticosamente trovato tra lavoro di gruppo e sfoghi personali non è, tuttavia, così facile da distruggere. Gano e Ritchie continuano senza DeLorenzo, reclutando l’ex BoDeans Guy Hoffman per il successivo tour, che viene in parte documentato dall’album Add It Up (1981-1993) (Slash/RepriSe, 1993). Il disco riesce in modo originale a testimoniare l’arte del gruppo, tra classici, brani inediti e autentiche chicche dal vivo.
"Waiting For The Bus" marcia su un ritmo vizioso da vaudeville stile "Transformer". Il furioso riff punk di "36 24" sembra uscito da uno qualsiasi dei primi dischi dei Ramones. Brani che non hanno trovato una collocazione nella discografia ufficiale riescono a far rivivere lo spirito tagliente e nervoso di Hallowed Ground, come "I Hate The Tv".
La rilettura stravolta della tradizione americana si consolida in "America Is", mentre in "Dance M.F. Dance" tornano gli sboccati e irriverenti busker di strada. L’estro pazzoide e divertito del gruppo viene raccontato attraverso demo, messaggi telefonici e via radio, ma, soprattutto, irresistibili versioni live di classici come "Kiss Off" e "Add It Up". E quello che, alla fine, sembra un disco buono per collezionisti, diventa il più grande successo commerciale dei Violent Femmes, contribuendo a rafforzare il loro status di band cult.

Il primo album senza DeLorenzo, New Times (Elektra Records, 1994), esce nel 1994, anticipato dal singolo "Breakin’ Up", il cui video gira su Mtv.
Il disco soffre, tuttavia, delle evidenti diversità artistiche tra Gano e Ritchie, uniti, ormai, soltanto nominalmente. Le esperienze da "compositore serio" del chitarrista vengono rivisitate e filtrate in brani come "New Times" e "Agamennon", insolitamente complessi e pomposi rispetto al classico sound della band. Gano cerca di espandere i suoi vecchi racconti in musica sulla scia di Frank Zappa, ma il suo obiettivo si rivela fallimentare perché non fa altro che ripetere architetture sonore già sentite e meglio realizzate.
Il nuovo trio si impegna in un rinnovamento come nell’irresistibile ballad da saloon "Don’t Start Me On The Liquor", ma, ascoltando il simil funk-hard rock di "Key Of 2", si capisce che questo nuovo corso non convince. Quando, infatti, parte la sincopata "I’m Nothing" o il valzer di "Jesus Of Rio" si respira si un’aria più familiare, ma almeno fresca e divertente.
Pochi brani, comunque, non bastano per fare un buon disco: New Times è uno dei dischi meno venduti dei Violent Femmes.

Senza la fantasia di DeLorenzo, le femmine sono in caduta libera. Nel 1995, viene pubblicato, solo in Australia - poi in tutto il mondo - Rock!!!!! (Mushroom Records, 1995), che si presenta male già dalla copertina glitter di David LaChapelle.
La band cerca, quasi disperatamente, di ritrovare, in chiave punk-rock and roll, il riff incendiario o il boogie ultrasonico. Il risultato, invece, è quantomai deludente e scorre via tra brani praticamente uguali tra loro. "Tonight" e "Bad Dream" giocano con dei Rolling Stones meno blues e più punk. "She Went To Germany" sembra uscita da una registrazione lampo dei Ramones, mentre la brevissima "Dahmer Is Dead" è una sfuriata stile Clash primo periodo.
L’organo di "Life Is An adventure" e il didgeridoo di "Didgeriblues" provano a dare un tocco di eclettismo a un disco insipido, piatto e banale.

Il senso di sbandamento porta i Violent Femmes a prendersi una pausa, collaborando, nel frattempo, a diverse colonne sonore. La cupa "Color Me Once" appare su quella di "The Crow" (1994) di Alex Proyas mentre "I Swear It" su "South Park: Bigger, Longer & Uncut" (1999).

Ascesa e caduta di Gordon Gano e delle Femmine di Milwaukee

All’alba del nuovo secolo, per i Violent Femmes giunge il momento di ritornare a casa.
Nel 1998 il trio tiene una serie di concerti in prevalenza acustici in giro per lo stato del Wisconsin.
Dopo un paio di dischi deludenti, Gano e compagni decidono, in sostanza, che è arrivata l’ora di riprendere in mano gli strumenti solo per il gusto di divertirsi e divertire.
Lo spirito del busker celebra, così, il gruppo diventato cult che rivisita brani vecchi e nuovi attraverso l’ottica folk-punk delle origini.

Il tuffo nel passato viene brillantemente documentato dal disco dal vivo Viva Wisconsin (Beyond, 1999), che, in oltre un’ora di musica, rilegge con forza vecchie foto in bianco e nero ("Gimmie The Car", "Country Death Song" e "Kiss Off") e fa brillare di nuova luce brani come "Life Is An Adventure" e "Sweet World Of Angels".

La buona risposta del pubblico convince Gano e Ritchie a tornare in studio per registrare nuova musica.
I due, tuttavia, si fanno prendere troppo dall’entusiasmo e le speranze generate dal vivo vengono spezzate dopo l’uscita di Freak Magnet (Beyond, 2000).
Il robusto rock and roll di brani come "Hollywood Is High"e "New Generation" e il punk furente della title track non convincono né critica né pubblico.
L’album passa quasi inosservato, sconfortando i tentativi di Gano che, di conseguenza, annuncia che la band non pubblicherà più nuovo materiale.
Alle femmine di Milwaukee non resta, quindi, che rinverdire i fasti del passato tramontato.

Nel 2002, la Rhino Records chiede a Ritchie e DeLorenzo di arricchire il loro disco d’esordio con demo e brani dal vivo per una splendida riedizione a vent’anni dalla prima uscita. Il batterista approfitta della situazione per rientrare nella band che può, così, ripristinare la line-up originale dopo circa dieci anni e partire per un nuovo, lungo tour.
E, da questo punto di vista, la storia dei Violent Femmes è perfettamente circolare.
1980: tre ragazzi sboccati e irriverenti decidono di formare un gruppo e di suonare per le strade della propria città d’origine.
2007: svariati dischi dopo, tre uomini-donne fanno ancora parte dello stesso gruppo e, con gli angoli di strada trasformati in teatri e club, la loro voglia di suonare è rimasta intatta.

La reunion

Che la reunion, datata 2013, dei Violent Femmes (che comunque della formazione originale conta i soli Gordon Gano e Brian Ritchie) non fosse tra le più riuscite, era chiaro già dal fiacco We Can Do Anything del 2016, ma a formazioni pioniere come i folk punker di Milwaukee va concesso sempre il beneficio del dubbio, una riprova. Lo abbiamo dunque atteso con fiducia, speranza e curiosità questo Hotel Last Resort, capitolo dieci di una discografia spalmata lungo tre lustri.

Purtroppo il risultato non è valso l'attesa, tanto che la metafora scelta come titolo dell'opera, oltre che l'attuale quadro politico americano, ben dipinge anche le attuali condizioni della band di Gano. Tocca infatti aspettare l'ospitata di Tom Verlaine nella title track per provare un sussulto, certo incapace di risollevare le sorti del disco, ma degno di menzione, forse solleticata inconsciamente dal prestigio del nome in ballo. Tutto quanto succede prima di suddetto titolo è riciclo, riproposizione spompata, mascherata di maturità, delle intuizioni sghembe e ficcanti di inizio carriera. Includere in scaletta un'auto-cover della hit del 1994 "I Am Nothing", eseguita in copagnia dello skateboarder Stefan Janoski (che ricambia così alla band, di cui è grande fan, il favore di disegnare con lui un paio di sneaker per Nike), sembra quasi un'ammissione di completa mancanza di idee.

A fare lo sforzo, invero bello grosso, di trovare qualcosa di interessante (non bello o valevole, ho scritto interessante), due o tre abbozzi di idee da evidenziare sarebbero l'a cappella nevrastenico di "Sleepin' At The Meetin'", il lieto strombazzare di "I'm Not Gonna Cry" e gli arpeggi solenni di "God Bless America".


Outro


L’effetto Dorian Gray


Giornalista: "Cosa c’è nelle canzoni che riescono continuamente ad attirare orde di ragazzini ai vostri concerti? Non vi sentite mai a disagio sul palco a cantare pezzi come "Add It Up" e "Kiss Off", veri e propri inni di una gioventù sconsolata, da uomini di mezz’età?"
Brian Ritchie: "Beh, Gordon è quello che deve cantare quelle canzoni, quindi questa è una croce sua! Mick Jagger canta ancora "Satisfaction" e se la cava bene. Lou Reed canta ancora "Heroin", nonostante sia un geriatrico entusiasta del Tai Chi. E’ arte. Le parti di basso che suono io sono senza tempo, quindi mi fa felice suonarle e vedere quei ragazzini che si divertono.
I versi sono sicuramente la porta d’entrata al mondo dei Femmes per un sacco di adolescenti. Alcuni si relazionano alle parole e quelle parole toccano temi adolescenziali universali. Ma sono la musica e le nostre performance quello che ci fa stare a galla da decenni".

Contributo di Michele Corrado per "Hotel Last resort"

Violent Femmes

Discografia

Violent Femmes (Slash, 1982)

8

Hallowed Ground (Slash, 1984)

8

The Blind Leading The Naked (Slash, 1986)

6,5

3 (Slash, 1989)

6

Debacle: The First Decade (Slash, 1991)

Why Do Birds Sing? (Reprise, 1991)

6

Add It Up (1981-1993) (Slash, Reprise 1993)

7

New Times (Elektra, 1994)

5

Rock!!!!! (Mushroom, 1995)

4

Viva Wisconsin (live, Beyond, 1999)

7

Freak Magnet (Beyond, 2000)

5

Permanent Record: The Very Best of Violent Femmes (Slash, Rhino, 2005)

Something's Wrong (Pias, 2001)

5

We Can Do Anything (Pias, 2016)

5

Hotel Last Resort (Pias, 2019)

4

Pietra miliare
Consigliato da OR

Violent Femmes su OndaRock

Violent Femmes sul web

Sito ufficiale
Testi
Foto