Stephen Malkmus

Stephen Malkmus

Fantasie oblique di un eterno ragazzo

Dallo scioglimento dei Pavement al sodalizio con i Jicks, per Stephen Malkmus non è facile sfuggire all’ingombrante etichetta di "ex". La sua avventura solista alterna luci e ombre senza mai perdere il proprio inconfondibile sorriso svagato. Storia di un eterno ragazzo che, anche di fronte alla sfida della maturità, non sembra disposto a rinunciare al suo spirito sghembo

di Gabriele Benzing

Un paio di manette pende sinistro dall’asta del microfono. Il ragazzo le fissa con un sorriso amaro sulle labbra, indicandole con fare provocatorio al pubblico. “Ecco come ci si sente a stare in questa band”.
Stacco.
Un tramonto da cartolina tinge di rosa le nuvole nel cielo tropicale. Lo sguardo del ragazzo si perde all’orizzonte, dove i sogni ancora da scrivere sembrano contare più dei fantasmi del passato.
Dissolvenza.
Tra le due scene c’è di mezzo lo scioglimento di una delle più influenti band indie-rock degli anni Novanta: i Pavement. Un’avventura che non poteva che finire all’insegna dell’inconfondibile vena sarcastica di Stephen Malkmus, manette comprese. Quello che era iniziato come il passatempo di un gruppo di ragazzi del college, in antitesi con il nichilismo grunge allora imperante, aveva finito per diventare qualcosa che minacciava di schiacciarli: “Era come essere un criceto sulla ruota”, ricorda. Il gioco aveva smesso di essere divertente e la deriva verso la maniera era inesorabilmente iniziata.
Così, alla fine di quello che sarebbe diventato l’ultimo tour dei Pavement, il ragazzo che insieme a Scott Kannberg aveva dato vita al gruppo-simbolo del lo-fi americano ha deciso di staccare la spina e se ne è andato alle Hawaii, lasciandosi alle spalle tensioni e dissapori di una strada giunta ormai al capolinea. Al suo ritorno, Malkmus era pronto per lanciarsi in una nuova sfida: un viaggio solitario ma non troppo, accompagnato da quella che nel tempo è diventata molto più di una semplice backing band: i Jicks. Deciso a dimostrare a tutti di non volersi far etichettare soltanto come un “ex”.

La storia della carriera solista di Malkmus, in fondo, è la storia di come sia possibile affrontare l’inevitabile paragone con la maturità senza per questo dover rinunciare allo slancio giovanile del proprio cuore.
Stephen Malkmus ha superato la fatidica soglia dei quarant’anni, si è sposato, è diventato padre: ma sembra essere rimasto l’eterno adolescente di sempre, indolente e goliardico, con un sorriso sulle labbra e un’ombra malinconica negli occhi. Certo, non è più il ragazzo capace di andare con gli amici dal barbiere travestito da gorilla come ai tempi del video di “Cut Your Hair”, ma la sua voglia di giocare è ancora la stessa. Il giorno in cui uno come lui dovesse decidere di mettere la testa a posto una volta per tutte e di lasciare da parte i vecchi guizzi da giullare, la sua musica finirebbe per perdere quello storto fascino che continua a renderla inconfondibile.

“I’m not what you think I am”

Stephen MalkmusÈ passato poco di più di un anno dall’ultimo concerto dei Pavement, quando sugli scaffali dei negozi di dischi fa la sua comparsa il primo, atteso album solista di Stephen Malkmus. Ad accompagnarlo ci sono due musicisti della scena di Portland, dove Malkmus si è trasferito ormai da qualche tempo: Joanna Bolme al basso e John Moen alla batteria, che insieme a lui formano i Jicks. E proprio ai Jicks, nelle intenzioni di Malkmus, dovrebbe essere intestato il nuovo disco, provvisoriamente intitolato “Swedish Reggae”. Ma la casa discografica, ovviamente desiderosa di sfruttare il più possibile l’onda lunga dei Pavement, impone che il nome di Malkmus campeggi a chiare lettere in copertina.
Malkmus riprende il filo del discorso da dove i Pavement l’avevano interrotto, solo rendendone più lineare e spontaneo l’approccio. “Black Book” e “Discretion Grove”, con le loro chitarre dalle vibrazioni scure, sembrano porsi in diretta continuità con il suono di “Terror Twilight”, così come il drappeggio sognante di “Trojan Curfew”, scritta in origine proprio per la vecchia band. Ma l’affermazione secondo cui i Jicks sarebbero in fondo solo “i Pavement con una nuova sezione ritmica” non è altro che una boutade velenosa di Malkmus per sminuire il ruolo dei suoi ex-compagni: in realtà, le sghembe deviazioni dei Pavement lasciano il posto a una leggerezza che non ha paura di dichiararsi pop, scintillante e briosa come una mistura di Soft Boys e Television.

Così, ecco farsi largo la scanzonata aria giocosa di “Phantasies”, tra chitarre saltellanti, urletti e battimani, per poi lasciare spazio all’irresistibile passo loureediano di “The Hook” e “Jenny & The Ess-Dog”. Anche il songwriting di Malkmus si fa meno criptico, pur senza mai rinunciare alla propria folle visionarietà, tra risvegli in mezzo agli husky dell’Alaska, divinità greche che brindano alla guerra di Troia e rapimenti su galeoni di pirati turchi.
Quando poi Malkmus indossa la surreale maschera di Yul Brynner in “Jo Jo’s Jacket”, l’effetto straniante raggiunge l’apice: su una storta introduzione pianistica, il celebre protagonista de “I magnifici sette” spiega come la decisione di rasarsi i capelli a zero sia stata per lui una sorta di liberazione, e le sue parole suonano come una paradossale metafora della nuova strada solista intrapresa da Malkmus. Poi le chitarre prendono il sopravvento con la loro vivacità sempre pronta allo sberleffo, in una sarabanda di citazioni tratte dalla filmografia di Brynner (ironica menzione d’onore per il b-movie fantascientifico “Westworld”), fino a un caotico finale in cui Malkmus biascica in sottofondo i versi della dylaniana “It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding)”.

Malkmus ha di nuovo voglia di divertirsi senza bisogno di stupire a tutti i costi, e quando racconta la storia di Jenny e del suo fidanzato che suona in una cover band anni Sessanta, il suo impeto è quanto di più vicino all’inno possa venire da un inguaribile slacker come lui.
Dalle effervescenze di “Troubbble” alle soffici tessiture acustiche di “Pink India”, passando attraverso l’organo vaporoso di “Vague Space” e lo scivolare romantico di “Church On White”, l’esordio solista di Malkmus rivela il lato più diretto della sua personalità. Ed è una magnifica scoperta, confermata l’anno successivo dalla brillante cover di “Death And The Maiden” dei Verlaines realizzata per la compilation “Under The Influence – 21 Years Of Flying Nun Records”.

“A bit like The Zephyr and a bit like The Jicks”

L’esperienza maturata sul palco dopo l’uscita del primo disco solista consolida sempre più l’affiatamento tra Malkmus e la sua band, modellando in profondità la scrittura dei nuovi brani. Malkmus si trasferisce con il gruppo per un mese in una casa vicino a uno studio di registrazione in mezzo ai boschi dello stato di Washington e lì mette a punto il materiale per il suo secondo album in un’atmosfera da jam session.
Pig Lib, che arriva nei negozi nel marzo del 2003, si presenta così fin dall’intestazione come opera di “Stephen Malkmus & The Jicks”. Nella formazione viene accreditato a tutti gli effetti anche il tastierista Mike Clark, il cui contributo caratterizza fortemente il suono di un album che appare più come il frutto di un lavoro collettivo che non come uno sforzo individuale.
Il risultato, però, è tutt’altro che entusiasmante: già gli arzigogoli involuti dell’iniziale “Water And A Seat” non lasciano presagire niente di buono, e la sensazione è confermata dai labirinti senza uscita di “1% Of One” e “Witch Mountain Bridge”, che si trascinano prolisse ed insipide con un Malkmus in vena di pose da guitar hero.
Pig Lib non riesce a districarsi da una fisionomia scialba e opaca, che le schegge alla “Wowee Zowee” di “(Do Not Feed The) Oyster” non bastano a compensare. Per fortuna Malkmus dimostra di non avere perso la sua autoironia, immaginando in “1% Of One” che i deliri del brano non siano altro che il sogno di un ingegnere del suono che si è addormentato alla consolle…
La solarità del disco precedente trascolora in un clima autunnale, a partire dagli umori malinconici di “Ramp Of Death” fino a giungere ad una “Dark Wave” che, proprio come suggerisce il titolo, gioca a inseguire sonorità di ascendenza Cure. Anche la conclusiva “Us”, che con i suoi toni morbidi sembra allontanarsi più di ogni altro episodio dal classico songwriting di Malkmus, non riesce mai a decollare.
Il meglio viene allora dalla grazia color pastello di “Vanessa From Queens”, in perfetto contrasto con le sue citazioni di politicanti coinvolti in scandali sessuali, e dalle tastiere screziate di “Animal Midnight”, che potrebbe piacere ai Blur per quell’andatura flessuosa e sbarazzina. Ma nel complesso, Pig Lib rimane sospeso in una mediocrità che non riesce a spingersi oltre la sufficienza.

“Done is good, but done well is so much fucking better”

Face The TruthQuando Malkmus torna a farsi vivo, nel maggio del 2005, il suo giocattolo preferito sembra non essere più quello a sei corde, ma il synth e una varietà di altri ammennicoli elettronici. Sin dall’apertura del nuovo disco, intitolato Face The Truth, le chitarre sporche e i coretti scemi di “Pencil Rot” vengono così infettati da un contagio di tastierine da sala giochi. E a togliere ogni dubbio sulle intenzioni di Malkmus ci pensa la stravaganza disco beckiana di “Kindling For The Master”, esuberante come un’incursione dei Daft Punk nei territori di “Midnight Vultures”.
Non a caso, ai Jicks viene riservato un ruolo molto più marginale, tanto che il loro nome compare soltanto nel retro del disco: la maggior parte dei nuovi brani - racconta Malkmus - sono nati nelle notti solitarie trascorse nello scantinato di casa, alambiccando con un suono meno chitarristico che in passato.
Ma le cose funzionano davvero solo quando Malkmus non si preoccupa troppo di inventarsi per forza qualcosa che sia capace di sorprendere, visto che le diversioni sintetiche di Face The Truth non suscitano poi tutto lo stupore che ci si potrebbe attendere. Piuttosto, è la delicatezza di pianoforte e chitarra di “Freeze The Saints” a candidarsi con i suoi versi nostalgici per comparire nella classifica delle migliori ballate di Malkmus: “Seasons change/ Nothing last for long/ Except the earth and mountains/ So learn to sing along and languish here”.
Insomma, Malkmus non insegue il miraggio di stagioni ormai passate, ma non rinnega nemmeno i suoi illustri trascorsi. Per godersi l’ascolto di Face The Truth conviene però stare alla larga dall’estenuante esercizio chitarristico alla Pig Lib di “No More Shoes”, che dopo otto minuti di manierismo risulta talmente indigesta da costringere lo stesso Malkmus a invocare a gran voce “I want my Alka-Seltzer!”…
Meglio allora divertirsi senza troppi pensieri con il rock sguaiato di “Baby C’mon”, talmente facilone da diventare trascinante, o con il passo di tango di “I’ve Hardly Been”, con il suo consueto contorno di falsetti e sfoghi elettrici. A pacificare gli animi, tanto, ci pensa alla fine l’inquieto addio di “Malediction” (“The road to rejection is better than no road at all”), in cui Malkmus veste una ballata amara di miagolii di Moog e archi teatrali.

Sempre nel 2005, Malkmus torna anche a collaborare con David Berman sotto l’egida dei Silver Jews, com’era già accaduto negli anni Novanta per “Starlite Walker” e “American Water”. Ed è proprio il tocco chitarristico di Malkmus a caratterizzare in maniera inconfondibile la veste musicale del ritorno di Berman. “Tanglewood Numbers” punta senza esitazioni verso un cantautorato elettrico dagli accordi spigolosi ed essenziali, ma concentrandosi sulla propria ossatura rock, il suono dei Silver Jews sembra diventare più uniforme e meno ricco di sfumature che in passato.

“All my stoned digressions”

Riuscireste a immaginare uno come Stephen Malkmus nei panni del Dylan anfetaminico della svolta elettrica? La ghiotta occasione la offre nel 2007 la colonna sonora del film di Todd Haynes “I’m Not There”, in cui è proprio Malkmus a prestare la voce all’androgina interpretazione di Cate Blanchett, cantando “Ballad Of A Thin Man” e “Maggie’s Farm” al fianco dei Million Dollar Bashers, una sorta di supergruppo creato per l’occasione a cui partecipano tra gli altri Lee Ranaldo e Steve Shelley dei Sonic Youth, Nels Cline degli Wilco e l’ex Television Tom Verlaine.

Quando si ritrova a suonare con i fidi Jicks, però, l’ebbrezza della libertà sembra prendere troppo facilmente la mano a Malkmus. Nel suo quarto disco solista, Real Emotional Trash, pubblicato all’inizio del 2008 e cointestato come Pig Lib alla sua backing band, ad esaltare ancora di più la voglia di abbandonarsi al flusso disordinato della musica c’è anche l’arrivo tra le fila del gruppo di un pezzo da novanta come la batterista delle Sleater-Kinney Janet Weiss. Così, Real Emotional Trash finisce per perdere la bussola in più di un’occasione, rimanendo invischiato in lunghe digressioni fin troppo autoindulgenti e sfilacciate: solo un pugno di momenti all’altezza del songwriting obliquo e giocoso di Malkmus riescono a salvarlo in corner, pur senza cancellare la sensazione di trovarsi di fronte a uno degli episodi meno riusciti del dopo-Pavement.
“Dragonfly Pie” si apre con una sostanziosa portata di chitarre sature dall’ardore hendrixiano, e subito cominciano le divagazioni acidule e gli effetti speciali psichedelici. “Hopscotch Willie” nasce da un’architettura di danza acustica, ma si impenna subito in una spirale di solipsismi che si avvitano su sé stessi, dando l’impressione di non sapere bene dove andare a parare.

A riscattare il bilancio di Real Emotional Trash ci pensano fortunatamente le gustose tastiere alla Grandaddy di “Cold Son”, che con il suo movimento plastico e la sua melodia spigliata si avvicina più che mai all’atmosfera di Face The Truth. Ed è un Malkmus al suo meglio quello che ruba ai tardi Belle & Sebastian la briosa leggerezza di “Gardenia” e che regala gli immancabili scampoli pavementiani di “Out Of Reaches”: ancora una volta, è quando si mette ad armeggiare senza troppe remore con il pop che il Malkmus solista centra l’obiettivo di non far pensare troppo ai giorni andati.
Tra storie di maledizioni familiari scritte nel Dna e bizzarrie assortite in cui “Wanda” fa allegramente rima con “Rwanda”, alla fine la confessione più sincera si trova nei primi versi di “Dragonfly Pie”: “Of all my stoned digressions/ Some have mutated into truth”.
Stavolta la bilancia pende dalla parte delle digressioni stonate: per l’ora della verità meglio aspettare fiduciosi il prossimo giro. In attesa del giorno in cui Malkmus (se ne avrà voglia…) deciderà di regalarci finalmente il suo capolavoro.

“The distortion is way too clear”


Mirror TrafficNegli anni Novanta sarebbe stato un sogno impossibile: Stephen Malkmus e Beck insieme. Vent'anni dopo, un'accoppiata del genere rischia di venire liquidata solo come una questione da reduci. E sarebbe un errore, perché nonostante le inevitabili parabole si tratta di un connubio tutt'altro che nostalgico. Dopo essere tornato in tour con i Pavement nel 2010, Malkmus sembra ritrovare quel senso della proporzione che mancava a Real Emotional Trash. Quanto a Mr. Beck Hansen, il ruolo di produttore gli frutta una sfilza di soddisfazioni, dal lavoro con Charlotte Gainsbourg a quello con Thurston Moore. Nell'estate del 2011, Mirror Traffic mette così in scena un suono tirato a lucido, che riporta alla memoria quello confezionato da Nigel Godrich per "Terror Twilight", al servizio di una serie di canzoni più compatte e meno chitarristiche, anche se non sempre del tutto a fuoco.
Il sapore frizzante di "Tigers" dà l'abbrivio con i suoi svolazzi giocosi, mentre l'attacco di "Senator" aggredisce con l'energia dei tempi migliori. Il tocco di Beck è sempre attento a non snaturare lo spirito della musica dell'ex Pavement, anche se le eleganti tessiture per piano e chitarra di "No One (Is As I Are Be)", che evocano l'eco della classica "Ode To Billy Joe" di Bobbie Gentry, non avrebbero sfigurato tra le pagine di "Sea Change".

Tra la ruvidezza garagista del boogie di "Tune Grief" e i riff sbarazzini di "Stick Figures In Love", Malkmus riesce a tenere a freno la divagazioni: "Ci tenevo ad essere più conciso. Più come la cattura di Bin Laden - dentro e fuori rapidamente con un elicottero Black Hawk. La sensazione era quella". I Jicks, ormai affiatatissima backing band, vedono per l'ultima volta tra le loro fila la batteria di Janet Weiss, decisa a dedicarsi a tempo pieno a Quasi e Wild Flag. Malkmus non le risparmia una frecciatina d'addio, accusandola di avere suonato nell'album con uno spirito da semplice session drummer...
Abbandonato il titolo inizialmente suggerito dall'amico David Berman dei Silver Jews ("L.A. Guns") per evitare il rischio di diatribe legali con l'omonimo gruppo hard rock californiano, "Mirror Traffic" inanella una tracklist insolitamente affollata per gli standard di Malkmus, ma non sono pochi i momenti che finiscono per perdersi nell'anonimato. Malkmus, in procinto di traslocare a Berlino con moglie e figli, sembra volersi raccontare con un tono più intimo e personale, cercando di cogliere l'attimo con la leggerezza di "Forever 28". L'importante, come suggerisce "Asking Price", è essere sempre pronti a non lasciarsi sfuggire le occasioni che ogni giorno è capace di offrire: "Many opportunities come rolling off your lap / I'm not gonna bait that trap again". E l'occasione, stavolta, era buona. Il Malkmus solista, però, rimane un eterno incompiuto

“Can's Ege Bamyasi Played By Stephen Malkmus And Friends”

Cosa mai potranno avere in comune Stephen Malkmus e i Can se non, la passione dell’artista di Santa Monica per i tedeschi? L’occasione per rendere manifesta questa predilezione e rendere loro omaggio arriva con il quarantennale del quarto full lenght, proprio “Ege Bamyasi”, uscito sul finire del 1972. Stephen Malkmus partecipa al Week-End Fest (Record Store Day) tenutosi dal 30 novembre al 2 dicembre 2012 a Colonia (città natale dei Can). Con lui altri nomi importanti come Scritti Politti, Deerhoof e Die Goldenen Zitronen. Durante quell’avvenimento ad accompagnarlo ci saranno i Von Spar, band kraut-rock del terzo millennio che avrà il non facile compito di fare da legante tra la musica della band di Michael Karoli e l’attitudine indie di SM.

Il disco “Ege Bamyasi” è proposto dalla prima all’ultima traccia, da “Pinch” a “Spoon” seguendo un ordine diverso, mantenendo intatte le atmosfere cosmiche create dall’originale ma ripulendolo delle esasperazioni sperimentali e dando un’impronta più attuale, moderna e immediata senza scadere nella demistificazione dell’oggetto di culto. Tutte le variazioni apportate da Malkmus e dalla band che lo accompagna, però, non hanno nessun valore artistico, come rivisitazione soggettiva dell’opera. Trattandosi di un “gesto” volto a celebrare un mito per i suoi quarant’anni, con cautela non ci si discosta troppo dall’originale, un po’ per difesa e forse timore di un pubblico chiaramente, per i motivi detti in precedenza, molto legato alla band concittadina ma anche perché lo stesso esecutore, avendo un legame cosi stretto con l’opera, non deve aver sentito la necessità di modificarne tanto la struttura fino a renderla qualcosa di nuovo.

“I'm just busy being free”

Janet Weiss
 ha fatto i bagagli per dedicarsi anima e corpo a vecchi (Quasi) e nuovi (Wild Flag) progetti, salvo liquidare questi ultimi dopo aver realizzato che è forse giunta l’ora di tirare fuori le Sleater-Kinney dal congelatore. Non un grosso problema, ad ogni modo, trovare un batterista per rimpiazzarla. Poi è toccato proprio a SM lasciare Portland e trasferirsi con tutta la famiglia a Berlino, giusto per scoprire il proprio scomposto amore per la Germania, spendersi nell'appassionato quanto estemporaneo omaggio ai Can, registrare nelle Ardenne il disco del sorpasso (solo quantitativo) sulla vecchia band, Wig Out at Jagbags, e fare ritorno in Oregon dopo neanche due anni.


Prodotto dal fidato tecnico del suono Remko Schouten e animato nella sua genesi (come si può ben immaginare) da rutilanti sferzate emotive, l’album – preme chiarirlo subito – non sposta di una virgola il giudizio consolidato sul conto del cantante e musicista californiano. Però diverte e intrattiene con il giusto piglio sin dalla briosa introduzione, sghemba e leggera come un peso gallo. Malkmus opta per un impianto schietto, asciutto, con chitarre vivaci ma tutt’altro che esasperate, candidando “Planetary Motion” a diventare una cartolina quanto mai fedele dell’intero lavoro, disimpegnata ma senza svaccate pose slacker che oggi rischierebbero di suonare francamente forzate. Canzoni come questa o la susseguente “The Janitor Revealed”, con la loro indole serafica e furbetta, restano pavlovianamente un discreto piacere per gli estimatori di lunga data, per quanto nella loro quiete disciplinata non vi sia (e nemmeno intenda esservi, peraltro) nulla di travolgente. Riabbracciare forti suggestioni dai trascorsi importanti dell’autore, soprattutto da dischi come “Brighten The Corners” e “Terror Twilight”, è quasi inevitabile, anche se i confronti lasciano sempre, nel suo caso, il tempo che trovano. Stephen non nasconde la sua spensieratezza ma evita di incappare in brutte caricature del verbo Pavement. Quando si arrischia a replicare l’euforia dei momenti più pop di “Crooked Rain, Crooked Rain”, finisce per suonare come una (simpatica) parodia dei Weezer o dei Ben Folds Five di quegli anni curata dai primi Shins (“Rumble at The Rainbo”), mentre altrove paga debiti pesanti all’attitudine dei propri giorni di gloria, sorniona e cantilenante ma all’occorrenza capace di mordere (“Scattegories”, la più pavementiana del lotto). La variante ludica e strampalata da sempre nelle sue corde torna anche in “Cinnamon And Lesbians”, che a qualcuno potrebbe ricordare a sorpresa “The King Of Summer” degli Hefner, ma attinenza non meno curiosa è quella che lo vede assumere una posa meditabonda à la Alasdair Roberts (“Surreal Teenagers”), in un finale che non rinuncia a qualche selezionato spiffero psych/progressivo e da così luogo a un ibrido bizzarro ma gagliardo.


Il nuovo Malkmus ha la consistenza di un’acqua minerale leggermente frizzante. Disseta e gratifica per pochi fuggevoli istanti chi gli si presti senza particolari pretese: come ritrovare un compagno di gioventù, amabilmente scapestrato ai tempi, oggi gioviale ed equilibrato, con intatto il proprio ardore di anima scherzosa. Reso qua e là più smaliziato dal calore dei fiati, si fa voler bene più che altro per come lasci ancora libere di scorrazzare impertinenti le sue elettriche: l’illusione che il tempo si sia congelato come nel più folle dei flash mob diviene allora tangibile, ed è maligna e confortevole insieme. Frangenti appena più movimentati come “Houston Hades” riescono ugualmente garbati e innocui, scorrevoli come filastrocche illuminate dalla bonaria intelligenza di SM, ma nello stesso schema rientrano anche quelli un po’ più nervosi. Non sconfessano l’estetica dei ’90 e certi irrinunciabili luoghi comuni del primo indie-rock americano, ma nemmeno vi si prostrano in maniera passiva o opportunistica. Detto di una norma priva di scosse significative, la seconda facciata si lascia comunque preferire per qualche preziosa variazione sul tema. Da languido e navigato seduttore, in “Indipendence Street” Stephen si veste giusto d’un velo di adorabile malinconia, con la Jazzmaster che, scaltra, si aggrappa alle seduzioni di un bellissimo ricamo ombreggiato, e il pianoforte che gioca di scorta senza mai forzare. “J. Smoov” è invece un episodio che si serve della contemplazione estatica come di un ideale grimaldello sentimentale e ha gioco facile nello scardinare le difese dell’ascoltatore: formalmente ineccepibile, astuto nel riesumare certe fascinazioni godrichane dal Beck di “Sea Change” come nella magica ascesa celeste in chiusura, si aggiudica a mani basse la palma per il miglior titolo della raccolta oltre a disegnare un immaginario ponte di raccordo con Mirror Traffic.


Meno fumosi virtuosismi che in Pig Lib, meno vagabondaggi senza costrutto che in Real Emotional Trash, meno stravaganze rispetto a Face The Truth. Valutato con la dovuta indulgenza e senza soffermarsi su proibitivi parallelismi con il passato, Wig Out at Jagbags può rivelarsi un diversivo più che gradevole. Forse ha ragione chi sostiene che Malkmus non abbia più da tempo molto di sensazionale da dire. E’ però indubbio che come artista meriti di essere apprezzato anche per la coerenza che ha saputo dimostrare in ogni progetto in cui si sia imbarcato, per quella sua natura di onesto battitore libero, oggi come ieri svincolato da formule in cui mai si è riconosciuto. “I don’t have the stomach for your brandy, I can hardly sip your tea, I don’t have the teeth left for your candy, I’m just busy being free” canta lui nella strofa inaugurale di “Indipendence Street”, che come dichiarazione d’intenti non potrebbe essere più eloquente ma è anche il solo indirizzo al quale potete sempre star certi di ritrovarlo.

Quattro anni dopo, nella primavera del 2018, Stephen Malkmus e i Jicks tornano con un nuovo album di inediti: Spakle Hard. L'opera raccoglie canzoni indie pop-rock perfettamente scritte e magistralmente arrangiate con echi di passato e presente: il fascino della psichedelia, l’amore per la melodia e lo stupore per l’inatteso scorrono in brani pressoché perfetti come “Solid Silk” - probabilmente il capolavoro del disco - in cui ritrovare la quintessenza dell’arte compositiva di Malkmus. Il suo inconfondibile stile di paroliere intride una melodia agrodolce cantata al passo di una ninna nanna, mentre tra una strofa e l’altra si apre il refrain strumentale arricchito dagli archi e dai synth in stile 70's. 

Il disco ha un grande equilibrio, è coeso e compatto. La scaletta è varia e scorre in maniera fluida tra uno stile e altro, presentando brani più tenui e riflessivi (l’iniziale “Cast Off”), pezzi più dinamici e vitali (“Bike Lane” e “Shiggy”), o canzoni che riassumono singolarmente tutto quello che è stato scritto finora (“Kite”). Emerge il duetto tra Malkmus e Kim Gordon (Sonic Youth, Body/Head), non tanto per la ricercatezza del brano quanto per la sua (auto)ironia. 

L’epifania che si prova nell’ascolto ricorda l’entusiasmo misto a quieta resa provato per “Fade” degli Yo La Tengo (Matador, 2013), mentre la dolcezza dei suoni e la cadenza lieve dei fraseggi degli strumenti a corda richiamano il disco solista di un veterano dell’indie-rock, lo splendido “Electric Cables” (Domino, 2012) di Gerard Love dei Teenage Fanclub col progetto Lightships. Tutto questo scorre, passa, si trasforma e si riavvolge. Si rincorrono i fraseggi, che inseguono gli archi poi sostituiti dalle chitarre elettriche, dalla cassa e dal rullante, in un ascolto in loop dove si potrebbe rimanere sospesi per ore. Vorremmo cantare tutti insieme ad alta voce e trovarci, appena chiusa la porta, sulla strada verso un concerto.

L'album elettronico: Groove Denied

Il 15 marzo del 2019 Stephen Malkmus pubblica a sorpresa - ma non troppo - il suo personale album elettronico. Groove Denied viene pubblicato forse nel momento più opportuno, ovvero subito dopo “Sparkle Hard”, il lavoro con cui l'artista americano sembrava poter dare una fisionomia più lineare al suo modus operandi. Un po' come a ribadire che l'estetica compassata dell'ultimo album era una tappa del percorso, e non un punto di arrivo. E a proposito del percorso di artista, viene da pensare che i trascorsi europei di Stephen non siano stati infruttuosi, anzi: è in particolare il soggiorno a Berlino negli anni subito precedenti “Wig Out At Jagbags” ad avere ispirato questa stralunata – persino più del solito – accozzaglia di canzoni.

 

Per capire un lavoro “Groove Denied”, infatti, è bene ricordare che questo repertorio nasce anzitutto come svago personale, e solo successivamente – forse per pressione dello stesso autore – si trasforma in opera discografica. Non c'è capo né coda, ammesso che ce ne sia mai stata nei lavori di Malkmus, e soprattutto non c'è un barlume di intento unitario. L'impressione è semmai quella di un insieme eterogeneo e partorito in epoche e momenti diversi, partendo proprio dall'età berlinese nei momenti più propriamente kraut del lotto, non a caso piazzati in testa alla scaletta: il synth-pop di “Belziger Faceplant” si butta in un dancefloor techno, “A Bit Wilder” rallenta i battiti per strizzare l'occhio al post-punk britannico e “Viktor Borgia” chiude l'ideale trittico mettendo insieme le influenze più sperimentali e acide dell'opera. “Forget Your Place”, poco più avanti, è l'avamposto psichedelico: un tunnel oscuro e ovattato in cui le voci rimbalzano e svaniscono.

 

Se invece preferite il Malkmus di sempre, dentro a “Groove Denied” c'è pane per i vostri denti. I ciondolanti midtempo “Come Get Me” e “Rushing The Acid Frat” trasudano weirdness a palate, e la mano del californiano trapiantato a Portland si riconoscerebbe in mezzo a mille. “Bossvicerate” è un altro classico del repertorio malkmusiano, una filastrocca obliqua che non usciva da quel cilindro da un lustro tondo tondo, non fosse per quei rintocchi sintetici a svecchiare un po' la ricetta. Elementi di novità che già vengono a mancare nella successiva ballata “Ocean of Revenge”, tanto per capirci. Come a dire che, per quanto lontano ci si provi a spingere, alla fine si ritorna sempre dove si sente di appartenere.

Back to the roots: Traditional Techniques

A inizio marzo 2020 Stephen Malkmus pubblica il terzo album nell'arco di due soli anni: Traditional Techniques. Alla pari di Sparkle Hard, si tratta di un ritorno alle origini americane, ma da un punto di vista diverso.

Del resto queste canzoni sono nate mentre veniva registrato il disco uscito due anni fa, e poi rielaborate con i contributi di Chris Funk (Decemberists) a livello di arrangiamenti e di Matt Sweeney (Bonnie Prince Billy) per i contributi alle chitarre.

Il repertorio di “Traditional Techniques” è in larga parte acustico, spesso tradotto in preziose ballate - “The Greatest Own In Legal History”, “Signal Western”, “Amberjack” - ma anche in midtempo elettroacustici (il singolo “Xian Man”) e contaminazioni folk a stelle e strisce (“Cash Up”, “Brainwashed”). Il marchio di fabbrica del Malkmus che meglio conosciamo si contraddistingue nella traiettoria obliqua di “Shadowbanned”, l'unico capitolo vagamente Pavement-iano del lotto, e nella peculiare poetica agrodolce di “What Kind Of Person” che si sviluppa sopra strati di arpeggi chitarristici. Notevole anche“ACC Kirtan”, guidata dal suono del sitar. Lavorare sulla tradizione per darle nuove forme e contenuti, tornare indietro per andare avanti: in ogni caso, l'importante è come sempre scongiurare il rischio di restare fermi.



Contributi di Silvio Pizzica per "Can's Ege Bamyasi Played By Stephen Malkmus And Friends”, Stefano Ferreri per "Wig Out at Jagbags", Maria Teresa Soldani per "Sparkle Hard" e Fabio Guastalla per "Groove Denied" e "Traditional Techniques"

Stephen Malkmus

Discografia

Stephen Malkmus (Matador, 2001)

7

Pig Lib (Matador, 2003)

6

Face The Truth (Matador, 2005)

6,5

Real Emotional Trash (Matador, 2008)

6

Mirror Traffic (Matador, 2011)

6,5

Can's Ege Bamyasi Played By Stephen Malkmus And Friends(Matador, 2013)

6

Wig Out at Jagbags(Matador, 2014)

6,5

Sparkle Hard(Matador, 2018)

7,5

Groove Denied (Matador / Domino, 2019)6,5
Traditional Techniques (Matador, 2020)6,5
Pietra miliare
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Sito ufficiale
Testi
Foto
  
 VIDEO
  
Jo Jo's Jacket (da "Stephen Malkmus", 2001)
Jenny & The Ess-Dog (live, da "Stephen Malkmus", 2001)
Discretion Grove (da "Stephen Malkmus", 2001)
Death And The Maiden (The Verlaines) (da "Under The Influence", 2002)
Dark Wave (da "Pig Lib", 2003)
Baby C'Mon (da "Face The Truth", 2005)
Freeze The Saints (live, da "Face The Truth", 2005)
Ballad Of A Thin Man (Bob Dylan) (da "I'm Not There", 2007)
Gardenia (da "Real Emotional Trash", 2008)
No One (Is As I Are Be) (da "Mirror Traffic", 2011)