Una visione del mondo appartenente a una generazione, è stato detto. Che si tramanda ai posteri come un racconto orale di cui ogni (sotto)cultura si ritaglia la propria versione, aggiungiamo noi. Un mito dalle infinite varianti e inafferrabili ramificazioni. La lezione di “I’m Not There”, mandata a memoria dopo ripetute “audiovisioni” è grosso modo questa: la creatività è un flusso di coscienza che non può essere contenuto negli angusti recinti dell’io ma si espande ben oltre il principio di non contraddizione, annodandosi a tutti i livelli del subconscio. Una tavolozza iperreale di immagini e linguaggi (mockumentary, clip-opera, cinema d’avanguardia, citazioni “alte” da Fellini, Bergman, Godard, Peckimpah) che si sposa con un florilegio di suoni e interpretazioni di suoni a comporre una sorta di perturbante narrativo e neo-lineare.
Dissonanza che “parla di una soggettività repressa” e “porta in superficie tutto ciò che si vorrebbe dimenticare”, secondo una celebre definizione di Adorno. Sibillinamente: le sei personalità “dylaniate” sullo schermo sono solo un adescamento, un antipasto che stuzzica l’appetito nella mente dello spettatore. In realtà ognuno di noi ha il suo Dylan affettivo, privato, sentimentale, sta a noi riempire il cangiante puzzle delle identità e delle reviviscenze.
Così il regista, Todd Haynes, ripercorre in senso opposto il sentiero già calcato da “Velvet Goldmine”: se là suggeriva la ricostruzione univoca e universale di una fenomenologia iconografica e musicale (attraverso l’escamotage della detection sulla falsariga di “Citizen Kane”) e i gruppi scrivevano brani originali per una colonna sonora in filologica continuità con l’estetica del periodo descritto, qui si recita a soggetto, la partecipazione è volutamente dispersiva e individuale, i “segni” sono già “testi” (modelli stratificati nell’ipertesto dylaniano), le interpretazioni plurivoche, personali e perennemente “in divenire”. Almeno in teoria, perché poi, in pratica, ci troviamo pur sempre di fronte a una doppia raccolta sponsorizzata dalla Sony per cui vale il vecchio detto “scherza coi fanti ma lascia stare i santi” (e soprattutto “fai tornare i conti”).
Pertanto, possiamo ricondurre i contributi a tre indicativi paradigmi: gli “arditi/riusciti”, i “musici sottili” e i tradizionalisti. Alla prima categoria è sicuramente ascrivibile la title track, episodio scampato alla polvere dei “Basement Tapes” e trasposto dai Sonic Youth in una trance balbettante e disgregata, come un Neil Young in guisa slo-core, crudele e annoiato specchio dello scoramento del Bob post-incidente, la “Stuck Inside Of Mobile” di Cat Power che, fedele alla sua natura felina e maliziosa, impone alla marcetta dylaniana un’andatura “swingante” (timpani, trombone, accordatura funky/jazz) da “aristogatta”, che leva il pelo contro i festivalieri di Newport e soffia alla sua orchestrina (“c’mon boyz, play it fuckin’ loud”), l’anonima “Dark Eyes” (da “Empire Burlesque” del 1985) rivisitata da Iron & Wine e dai Calexico accentuandone il cotè lo-fi, ipnotico e minimalista (feedback, viola, campanelli, drum machine), un’attualizzazione della magia che si annida fra le piccole cose del Dylan ottantesco.
E ancora “Highway 61” di Karen O, accompagnata dai Million Dollar Bashers (gruppo formato ad hoc da Lee Ranaldo, Steve Shelley, Nels Cline dei Wilco e, fra gli altri, dall’abituale bassista di Dylan, Tony Garnier), urgente, stridula e percussiva, in chiave socio-semiologica, svela quanto di Dylan vi fosse nei primi Velvet Underground (il risultato è quasi un remake di “Run Run Run”); suggestivo il sermone post-grunge di Mark Lanegan in “Man In Black Coat” (feedback, twang e raucedine angosciosa tipo il Cash di “American Recordings”).
Notevoli anche “Cold Irons Bound” di Tom Verlaine, un “satori” dark-wave aerografato con viscere di mantra ambientale, “Just Like A Woman” che i Calexico sfumano attorno al sottovoce fragile, etereo e conturbante di Charlotte Gainsbourg (dopotutto buon sangue non mente) e “Knockin’ On Heaven’s Door” in cui i melismi di Antony non si discostano molto dal sostrato timbrico originario ma descrivono bene l’atmosfera di oscura e ferale predestinazione che anima il pezzo.
C’è poi chi ha preferito ritrarsi entro i confini del semplice omaggio senza per questo rinunciare a una divertita, sfuggente limatura delle convenzioni che il tempo ha rappreso attorno alla riconoscibilità degli originali: ad esempio “Ballad Of A Thin Man” di Stephen Malkmus (che è un po’ il “Dylan” della seconda generazione indie, quella subissata dall’onda anomala del grunge) ne esalta l’indole strozzata, infantile e provocatoria, “Fourth Time Around” eseguita da Yo La Tengo (con Georgia Hubley alla voce) è un valzer domestico, una trasognata ninna nanna per gli orfani degli anni 90, “Ring Them Bells” di Sufjan Stevens, timido e torrenziale come sempre, dissipa la pastorale dylaniana in un arrangiamento per banda municipale, “Maggie’s Farm - sempre di Malkmus con i Million Dollar Bashers - diventa un irridente garage’a’billy, “All Long The Watchtower”, cantata da Eddie Vedder, un rustico acid rock (per circonvoluzioni di Hammond e assoli psych, nel particolare).
“Senor (Tales Of Power Yankee”) dei Calexico con Willie Nelson rimane in bilico fra l’elegia tex-mex e curiosi echi di anarchia gitana, mentre “Wicked Messengers” nella versione dei Black Keys suona come un irsuto, scabro new rock da far venire l’acquolina in bocca a Jack White (strano, a proposito, che non sia della partita anche lui).
Fra i tradizionalisti, invece, si distinguono Mira Billotte (dei Brooklyn White Magic) nell’energica e sentita performance di “I Went Out One Morning”, i giovani The Hold Steady che abbracciano “Can You Please Crawl Out Of Your Window?” in un classicismo rock da The Band/Last Waltz e “One More Cup Of Coffee” di Roger Mc Guinn coi Calexico, accorta e nostalgica riproposizione di un brano che era già nel suo repertorio ai tempi del tour della Rolling Thunder Revue durante il lancio di “Desire”.
Delusione su tutta la linea invece per John Doe (“Pressin’ On” e “I Dreamed I Saw St.Augustine”), che ripassa la bolsa routine soul delle sue ultime uscite e “Simple Twist Of Fate” di Jeff Tweedy, un’imitazione talmente impersonale da rasentare il karaoke di gala.
Un esperimento più ecumenico e rilassato nella sostanza (l’intera raccolta, al contrario del film, punteggia diacronisticamente tutta la parabola dell’uomo di Duluth) di quanto non voglia apparire nella forma (pur assecondando il fil rouge delle dovute eccezioni). In questo senso consigliabile sia a chi “accetta il caos” , sia a chi “non è affatto sicuro che il caos accetti lui”. Dylan, intanto, c’è da scommetterci, è già da un’altra parte.
17/01/2008